Elwen la Mezzelfa

Per cavalleria, dopo Miriel, passo a presentare l’altro personaggio femminile del Ciclo del Marinaio, Elwen la Mezzelfa, figlia di una Noldo di Edhellond, una piccola città elfica situata nel Gondor meridionale, e di un uomo numenoreano, del quale però non conosciamo il nome. Si tratta di un personaggio opposto e complementare rispetto a Miriel: laddove la principessa di Numenor è una donna dolce, riflessiva, ma anche immatura rispetto al ruolo che il Fato le ha riservato, Elwen, invece, è orgogliosa, decisa a reclamare ciò che ritiene, a torto o a ragione, suo, passionale, irrequieta come il Mare cui anela e che nel suo cuore sa essere il suo vero amore. L’unico attributo che potrebbe unirle è quello di una profonda irrequietezza, per la mezzelfa legata alla sua difficile condizione di non sentirsi appartenere nè agli Uomini nè agli Elfi, per la numenoreana, invece, dettata dal presentimento triste della fine della sua Isola e della sua gente in modo tragico. Il destino di Elwen era stato preannunciato implicitamente dalla madre al momento della sua nascita:

«Sacra a Elbereth sarà questa nostra figlia – fece notare la madre rivolta a quanti le stavano vicino – ma un’ombra le aduggia il capo, ché tuttavia la sua parte mortale ne risentirà quando il momento della scelta verrà, inevitabile e terribile» (Ciclo del Marinaio, p. 129).

La difficile scelta fra due amori diversi, uno più somigliante al suo carattere, il sire elfico Morwin di Edhellond, l’altro diverso, Erfea di Numenor, ma capace di risvegliare in lei una fanciullesca curiosità, ben rivela il suo animo ancora “adolescente” rispetto a quello di Miriel, costretta a crescere più in fretta, non solo per una diversa natura biologica (l’una umana, l’altra solo in parte), ma anche per le incombenze di governo che premevano sul suo capo.

«Mai in Elwen si estinse il desiderio del bianco mare, nemmeno quando i tempi mutarono […]. Tuttavia, in un primo momento, tale desiderio fu soffocato dal suo cuore, ché non riteneva fosse giunto il momento di allontanarsi dalle città di Endor, e molte erano le bellezze che ancora non conosceva; inoltre ambiva alla potenza degli avi di sua madre, sembrandole la massima vetta del potere. Tali erano dunque i suoi pensieri quando in quelle contrade il nome di Erfea Morluin iniziò a diffondersi, facendo germogliare nel suo animo una fanciullesca curiosità. Non era gli forse un Uomo del mare proveniente dalle gloriose città di Elenna? Grande invero era la sua curiosità, ma ancora più profondo in lei era radicato il desiderio della gloria, e un mortale, seppur Numenoreano, ben poca cosa le pareva rispetto ai visi gravi e saggi degli Eldar di Edhellond» (Ciclo del Marinaio, p. 130).

A differenza di Miriel, Elwen è un personaggio che non esiste in alcun racconto di Tolkien: ispirata a Arwen, della quale, tuttavia, capovolge integralmente il destino ultimo, rappresenta la difficile condizione di un individuo che fallisce nel percorso personale di vita piuttosto che in quello pubblico. A pensarci bene, sia che Miriel che Elwen sono due personaggi fallimentari, sia pure in modo molto diverso: il fallimento della loro esistenza conduce dolore e sofferenza a quanti sono loro vicini e tuttavia lascia come ultimo retaggio la possibilità di tramutare il dolore in consapevolezza, in maturazione.

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Tra linguaggio cinematografico e letterario: due scene che avrei voluto vedere nella trilogia di PJ

Continuo il mio viaggio fra rappresentazione cinematografica e letteraria cercando di sfatare uno dei luoghi comuni al quale spesso si appellano i fan di PJ: la mancanza di scene spettacolori nel Signore degli Anelli; o, almeno, di scene d’azione facilmente convertibili in pellicola. Come ho scritto precedentemente, bisogna saper distinguere i due linguaggi: è ovvio, ad esempio, che mentre l’amore fra Aragorn e Arwen può essere inteso anche da piccoli dettagli sparsi qua e là nel libro, fino ad arrivare al matrimonio, nel film sia necessario rendere la relazione sentimentale più evidente, tanto più che si tratta solo di una delle tante “sotto-trame” che il regista deve snodare via via lungo tutta la pellicola.

Proprio per questa ragione, tuttavia, non riesco a essere d’accordo con quanti affermano che nell’opera letteraria del Signore degli Anelli manchino – o siano carenti – quelle scene spettacolari che – considerati gli effetti speciali oggi disponibili – avrebbero potuto essere rese fedelmente nella trasposizione cinematografica. In particolare, vorrei soffermarmi su due “scene d’azione”, tra le più belle descritte da Tolkien (a mio parere): la fuga della Compagnia dell’Anello della Camera di Mazarbul in Moria e la distruzione dei cancelli di Minas Tirith. Lascio la parola all’autore:

Improvvisamente in cima alla scala vi fu uno squarcio di luce bianca. Si udì un sordo tuono e un pesante tonfo. Il rullo dei tamburi proruppe selvaggio, dum-bum, dum-bum, poi d’un tratto s’interruppe. Gandalf volò giù dalle scale e cadde per terra in mezzo alla Compagnia. “Bene, bene! Questa è fatta!”, disse lo stregone, alzandosi faticosamente. “Ho fatto tutto il possibile. Ma ho trovato un degno rivale, che mi ha quasi distrutto. Ma non restate fermi qui! Muovetevi!” […] Gimli lo prese per il braccio, aiutandolo a sedersi su di un gradino. “Cos’accadde lassù in cima alle scale?”, chiese. “Hai incontrato il battitore di tamburo?”. “Non so”, rispose Gandalf. “Ma mi trovai improvvisamente di fronte a qualcosa che non avevo mai incontrato. Non sapevo che altro fare, se non lanciare sulla porta un incantesimo che la chiudesse. Ne conosco parecchi; ma per fare questo genere di cose in piena regola ci vuole tempo, e ancorché riesca, chiunque potrebbe sfondarla con la forza. […] A un tratto, qualcosa entrò nella stanza…lo sentii attraverso la porta; gli Orchi stessi si spaventarono e tacquero. Afferrò l’anello di ferro, e in quel momento percepì la mia presenza e quella del mio incantesimo. “Che cosa fosse, non riesco a immaginare, ma mai ho sopportato una tale sfida. Il contro-incantesimo era terribile; fui quasi sopraffatto. Per un attimo persi il controllo della porta che cominciò ad aprirsi! Dovetti proferire una parola di comando, ma la tensione fu troppo forte. La porta volò in pezzi. Qualcosa di scuro come una nuvola bloccava tutta la luce nell’interno della camera e io fui scaraventato all’indietro giù per le scale. Tutta la parete cedette, e anche il soffitto della stanza, credo.
La Compagnia dell’Anello, pp. 428-430, passim.

Nella versione cinematografica della Compagnia dell’Anello, invece, purtroppo non c’è traccia di tutto questo: dispiace, anche perché si tratta di uno dei pochi punti delle opere tolkieniane in cui si parla esplicitamente di incantesimi: il duello magico tra Gandalf e il Balrog sarebbe stato bello da vedersi (e da ascoltarsi, considerati gli sforzi fatti dai linguisti che hanno collaborato alla stesura della scenografia). Indubbiamente la corsa disperata della Compagnia dell’Anello per guadagnare l’uscita è ben riuscita, però non credo sia superiore, quanto a pathos, a quella descritta dall’autore.

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La seconda scena, invece, riguarda, come ho scritto in precedenza, la descrizione della distruzione del cancello di Minas Tirith. Lascio ancora una volta la parola a Tolkien:

Grond continuava ad avanzare. I tamburi rulluvano selvaggiamente. Sopra i monticelli di cadeveri apparve a un tratto una mostruosa figura: un cavaliere, alto, coperto da un cappuccio e da un manto nero. Avanzava lentamente, calpestando i caduti, noncurante delle frecce. Poi si fermò e levò in alto una lunga e pallida spada. E al suo gesto una grande paura si impadronì di tutti; gli uomini lasciarono cadere le braccia lungo i fianchi e nessun dardo sibilò più. Per un momento tutto fu silenzioso. I tamburi rullavano. Con un’enorme rincorsa Grond venne catapultato avanti da enormi mani. Giunse al Cancello. Fu proiettato in avanti. Un profondo rimbombo echeggiò attraverso la Città come tuono fra le nubi. Ma le porte di ferro e i pali di acciaio resistettero al colpo. Allora il Capitano Nero si rizzò sulle staffe e urlò con voce spaventosa, pronunciando in qualche linguaggio dimenticato parole di potere e di terrore tali da lacerare cuori e rocce. Urlò tre volte. Tre volte rimbombò il grosso ariete. E improvvisamente all’ultimo colpo il Cancello di Gondor cedette. Come colpito da un lacerante maleficio, lo si vide saltare in aria: vi fu un lampo di luce accecante e i battenti crollarono in terra  frantumati in mille pezzi. Il Signore dei Nazgul entrò nel suo cavallo […] varcando l’arco che mai nemico aveva oltrepassato, e tutti fuggirono innanzi a lui. Tutti eccetto uno. In attesa, immobile e silenzioso in mezzo allo spiazzo del Cancello, sedeva Gandalf su Ombromanto […]. «Non puoi entrare qui» disse Gandalf, e l’enorme ombra si fermò. «Torna negli abissi preparati per te! Torna indietro! Affonda nel nulla che attende te e il tuo Padrone. Via!» […] «Vecchio pazzo! [rispose il Nazgul] Questa è la mia ora. Non riconosci la Morte quando la vedi? Muori adesso, e vane siano le tue maledizioni!» E con ciò levò alta la spada e delle fiamme ne percorsero la lama. Gandalf non si mosse. In quell’istante, lontano in qualche cortile della Città, un gallo cantò. Era limpido e chiaro, ignorava la stregoneria e la guerra, non faceva che acclamare il mattino che su nel cielo, oltre le ombre di morte, si avvicinava con l’alba. E come in risposta giunse da lontano un altro suono. Corni, corni e corni. Si udivano fiochi echeggiare nei fianchi del cupo Mindolluin. Grandi corni del Nord che suonovano con forza. Rohan era finalmente arrivato.
Il Ritorno del Re, pp. 119-120, passim.

Nella scena cinematografica, invece, il sentimento di attesa e speranza che anima il lettore alla fine della lettura del capitolo “L’assedio di Gondor” lascia spazio a un duello che nei fatti si risolve con la vittoria del Re degli Stregoni: in questo caso credo che PJ abbia ripreso un passaggio precedente del romanzo, nel quale Denethor rinfaccia a Gandalf di essere stato sconfitto dal Capitano Nero e questi risponde in modo allusivo che può essere accaduto, senza però entrare nel dettaglio di cosa sia avvenuto realmente. Il canto del gallo al quale rispondono gli echi dei corni dei Rohirrim rappresenta, secondo me, uno dei passaggi più emozionanti dell’intero romanzo: sono certo che sarebbe piaciuto a tutti gli spettatori – esperti o meno della saga tolkieniana – proprio perché, a mio parere, il canto del gallo che annuncia l’alba, e dunque la vittoria della luce sulla tenebra, è un messaggio semplice quanto universale, che avrebbe trovato largo consenso nel pubblico. Lo stesso duello “non-consumato” fra Gandalf e il Re-Stregone, inoltre, avrebbe creato suspence ed emozione. I Troll che nel film entrano in Minas Tirith, invece, li ho trovati un po’ banali, soprattutto se paragonati alla figura del Re Stregone: tutto si risolve in pochi fotogrammi. Grond picchia e picchia duro finché il portone cede, senza esplodere come accade nel romanzo. Fine. Certo, va detto che il tutto avviene all’interno di un contesto bellico pieno di azione, per cui lo spettatore non rimane deluso; però avrei preferito la sceneggiatura originale a quella cinematografica. Si tratta, peraltro, di un’altra delle poche scene del romanzo nelle quali trova posto la magia nella sua accezione più classica: mi sarebbe molto piaciuto vedere il Re Stregone pronunciare per tre volte il suo malvagio incantesimo, sarebbe stata una scena caratterizzata da un climax crescente. Per inciso (e per finire) mi sono spesso chiesto se, a sua volta, il Cancello di Minas Tirith non fosse protetto da una magia, considerato che il Capitano Nero dovette pronunciare più volte l’incantesimo per abbatterlo…

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Sauron: un antagonista svilito?

Riprendo la serie degli articoli incentrati sul paragone fra versione cinematografica e romanzo. Ricordo ai lettori che si tratta di una serie di riflessioni personali che non intendono offendere nessuna delle parti in gioco. Per semplificare la lettura, ho deciso di accorpare in un’unica categoria i punti della difesa e delle attenuanti, dal momento che sono molto simili. Buona lettura!

Accusa: Molto bello il prologo iniziale, che spiega in pochi minuti la questione della forgiatura degli Anelli e la sconfitta di Sauron alla fine della Seconda Era. Questa affermazione dovrebbe figurare nel paragrafo successivo, invece l’ho usata come incipit per aprire quello delle critiche. Per quale motivo, si chiederanno i miei lettori? Ebbene, perché è proprio all’interno del prologo che si evidenziano alcuni dei problemi che, secondo me, caratterizzano sia la trilogia cinematografica del Signore degli Anelli sia quella dell’Hobbit e che cercherò di sintetizzare in due parole: eccessiva spettacolarizzazione. Proverò a sostenere questa accusa analizzando la figura di Sauron nella trilogia cinematografica:

La figura di Sauron: L’impatto emotivo ricevuto dallo spettatore che si misura per la prima volta con il principale antagonista della Terra di Mezzo è certamente appagante. Non c’è alcun dubbio su questo aspetto. Sauron appare come un guerriero super corazzato, altissimo (provate a rivedere le scene nelle quali si confronta con Elfi e Dunedain e ve ne renderete conto) e naturalmente malvagio da far paura. Un’immagine su tutte conferma questo ritratto: Sauron forgia il suo Anello nel Monte Fato, in piena armatura, e le fiamme si stagliano sullo sfondo. Proprio questa scena, tuttavia, nasconde un involontario tocco di comicità: che senso aveva, infatti, forgiare l’Anello in questo modo? La corazza era forse di amianto per proteggerlo dal calore del Monte Fato? Mah…

Il lato pù grottesco della rappresentazione di Sauron, tuttavia, si palesa nelle scene finali della battaglia dell’Ultima Alleanza. Egli avanza in campo aperto, sovrastando tutti dall’altezza del suo elmo e la sua mazza abbatte elfi e uomini a destra e a manca…No, fermi tutti! Se davvero Sauron fosse stato così potente, che bisogno avrebbe avuto di confrontarsi con i suoi nemici solo alla fine, quando, stando alla voce fuori campo di Galadriel, la vittoria dell’Alleanza era ormai prossima? La verità è che Sauron era in primo luogo un artefice: un forgiatore di metalli e di anime. Si tratta di un mentalista, di un essere in grado di muoversi su più piani di esistenza per manovrare i fili del Fato a suo vantaggio (perdonate l’eccessivo lirismo, ma un personaggio come Sauron lo merita!) Corrompe Celebrimbor e Ar-Pharazon, riesce a eludere la sorveglianza di Gil-Galad e di Galadriel, ammalia i nove re mortali che diventeranno poi i suoi schiavi più potenti, ecc. ecc. Non a caso Tolkien lo rappresenta come uno degli spiriti originariamente al servizio di Aule, il dio fabbro. Come Saruman, anche Sauron si mostra un ottimo oratore e un pericoloso interlocutore: raffigurarlo come una sorta di Distruttore di Marvellesca memoria (osservatelo nel film Thor del 2011 e non potrete non notare una certa somiglianza) svilisce e semplifica molto la sua figura.

Distruttore_(Marvel_Studios) (Immagine del Distruttore, tratta dal film “Thor” del 2011)

Il punto più basso si raggiunge poi in seguito, allorché Sauron appare solo sotto forma di occhio gigante, attento a scrutare le pianure sottostanti, proprio come farebbe un faro. Cerchiamo di fare chiarezza: Tolkien non ha mai affermato che Sauron nella Terza Era avesse assunto l’aspetto di un occhio gigante. È vero che Frodo avverte la presenza di un occhio vigile sul suo percorso; è certo che egli vide un occhio nello specchio di Galadriel che sembrava dargli la caccia e che la stessa regina confermò essere legato a Sauron; è innegabile che il simbolo di riconoscimento degli Orchi di Sauron sia un occhio rosso; allo stesso tempo, tuttavia, dobbiamo ricordare altre osservazioni che non sembrano confermare quanto rappresentato nell’opera di PJ. Gollum, per esempio, che dall’Oscuro Signore era stato torturato nelle prigioni di Mordor, afferma che Sauron era dotato di una nera mano con quattro dita; Pipino, invece, parlando con lui nel Palantir riesce a percepire la sua presenza, ma non è in grado di descrivere la sua forma (qualcosa che mi ha sempre ricordato l’indefinitezza di alcune creature mostruose presenti nei racconti di Lovecraft, dovuta al rifiuto della mente umana di memorizzare gli orrori indicibili a cui talvolta assiste); infine, pochi istanti prima della sua definitiva sconfitta, gli uomini dell’Ovest hanno l’impressione di scorgere una grande ombra proiettarsi al di sopra del Monte Fato ed essere poi spazzata dal vento.

Difesa: La mole di informazioni presenti nel romanzo del Signore degli Anelli è tale da non poter essere trasformata agevolmente in una proiezione cinematografica. L’esigenza primaria era quella di dare una forma riconoscibile al Sauron materiale (il guerriero che uccide Elendil) e a quello immateriale, privo di corpo, (il grande Occhio infuocato), in modo che lo spettatore fosse colpito soprattutto dalla capacità di Sauron di penetrare qualunque protezione e riuscire a vedere tutto (o quasi). Inotre, in molte culture antiche e presso le società segrete l’Occhio rappresentava qualcosa legato alla sfera magico-esoterica (l’occhio di Ra nell’antico Egitto, ma anche l’Occhio di Dio nei circoli massonici). La Battaglia della Dagorlad, che si vede nei primi minuti della Compagnia dell’Anello, si conclude con l’assedio a Barad-Dur, che però dura sette anni: ovviamente non c’era tempo e modo di mostrarlo nel film, però è a mio parere un elemento utile a comprendere come Sauron non fosse così potente sul piano militare come mostrato da PJ, altrimenti l’assedio stesso non sarebbe neppure iniziato. Il mio giudizio sulla rappresentazione cinematografica di Sauron è migliorato dopo la visione del secondo film dell’Hobbit, ove è mostrato il processo che porta lo spirito di Sauron ad assumere quella forma; resta, tuttavia, l’impressione di un certo gusto grottesco che avrebbe potuto essere risparmiato agli spettatori. Infine, come ultima attenuante, si può ammettere che Sauron nella Terza Era non ha più un ruolo così attivo come nelle epoche precedenti: è il Nemico per eccellenza, certo, ma se ci pensate bene, quanti riescono davvero a comunicare con lui? Aragorn, Pipino, Denethor, Saruman e Gollum. Per il resto, la sua mente e il suo spirito restano profondamente celati all’interno della Torre di Barad-Dur. Esprimo qui un desiderio: spero di vedere un Sauron più rassomigliante a quello letterario nella serie prodotta da Amazon, che dovrebbe riguardare, stando ai rumors che corrono in rete, gli antefatti delle vicende del Signore degli Anelli. Un Sauron più diabolico, che si mostri perfido oratore e seduttore, in grado di manipolare a suo piacimento i metalli e le menti dei suoi avversari.

 

Signori in aula, entra la Giuria! Requisitoria semiseria sul confronto libro vs film

Oggi, 25 marzo, è il Tolkien Reading Day e per celebrare l’occasione ho pensato di iniziare una serie di articoli che mettano a confronto la versione cinematografica del Signore degli Anelli di Peter Jackson (per comodità d’ora in avanti PJ) con quella letteraria. L’intento, come suggerisce il titolo, è palesemente semiserio e non intende offendere nè urtare la sensibilità di nessuno: si tratte di opinioni strettamente personali che, naturalmente, possono essere o meno condivise.

Generalmente gli appassionati della materia tolkieniana si dividono in due grandi categorie: grandi censori del film e ultras pronti a giurare sul genio di PJ. Personalmente, ritengo di avere attraversato entrambe le fasi: grande amore durante la visione e nei primi giorni successivi; grande rifiuto dell’eresia cinematografica; savio e moderato accomodamento.

In primo luogo, qualunque sia la posizione da cui si parte, bisogna essere onesti e riconoscere che PJ ha spesso descritto la sua visione del mondo tolkieniano come estremamente personale; durante una delle interviste che rilasciò in occasione dell’ultimo capitolo della trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, infatti, il regista dichiarò che ciascuno di noi sviluppa nella propria mente una personale immagine della Terra di Mezzo. Sottoscrivo punto per punto questa affermazione: ritengo, infatti, che salvo certe caretteristiche ben delineate dall’Autore, per tutto il resto ciascuno sia libero di immaginarsi questo o quel personaggio, luogo o evento della storia. Da questo punto di vista, non posso rimproverare a PJ errori madornali: non ha reso Gandalf un giovane e prestante mago, per esempio. Indubbiamente le sue scelte di caratterizzare alcune scene in un senso o in un altro nascono da esigenze, gusti e sensibilità personali: sono pronto a scommettere che se confrontate minuziosamente, non ci sarebbero due rappresentazioni della Terra di Mezzo identiche in ogni loro aspetto e realmente fedeli all’opera di Tolkien. Per lo stesso motivo, tuttavia, non ritengo che quella di PJ sia stata la migliore in assoluto o che sia insensato proporre nuove versioni cinematografiche: solo un’eventuale pellicola girata da Tolkien in persona avrebbe reso le altre inutili, ma così non è stato; tutti, dunque, hanno diritto alla possibilità di rappresentare la Terra di Mezzo attraverso altri strumenti comunicativi.

Fatta questa premessa, passiamo all’esame dei principali passaggi raccontati nelle due versioni. Lo schema adottato sarà il seguente: accusa/difesa/attenuanti, naturalmente nei confronti di PJ.

P.S. l’articolo è uscito leggermente in ritardo…