Le sette stirpi dei Nani

Quando completai «Il Ciclo del Marinaio» inserii nelle Appendici dei miei racconti un approfondimento dedicato alle stirpi dei Nani. Questo, infatti, è un argomento che mi ha incuriosito sin dalla prima lettura delle opere di Tolkien: a parte alcuni cenni alle stirpi di Khazad-Dum, Belegost e Nogrod, e alla presenza di una schiera di nani che combattè sotto le insegne di Sauron durante la battaglia finale della Seconda Era, infatti, delle altre non si conosce nulla (almeno nelle opere tradotte in italiano). Personalmente, trovo il popolo nanico molto affascinante: per questa ragione, oltre ad avere inserito due nani tra i protagonisti del mio ciclo di racconti – Bor e Groin – mi sono cimentato in questa ricostruzione delle origini e degli sviluppi storici delle casate del popolo di Aule. Buona lettura!

«Secondo quanto narrato dagli Eldar in esilio, Aule, il Fabbro dei Valar, desideroso di avere una discendenza alla quale insegnare la propria arte, fabbricò in segreto sette esseri maschi e sei di sesso femminile, affinché popolassero il vasto mondo. In seguito Eru Iluvatar, venuto a conoscenza di tale creazione, si trattenne a lungo nella dimora di Aule, mostrandogli che nulla poteva essere creato da altri che non da lui stesso, e il Vala, profondamente pentito, afferrò un martello con il quale avrebbe distrutto la sua progenie; Eru Iluvatar, tuttavia, fermò la sua mano, ché invero aveva compreso quale sentimento nutrisse nel suo animo il fabbro e accettò le creature di Aule, proclamando che anch’esse avrebbero avuto parte al destino di Arda e spirando nei loro petti il soffio vitale: sebbene la progenie di Aule fosse stata riconosciuta dall’Uno, essa avrebbe dovuto riposare nella roccia dalla quale aveva avuto origine per i successivi secoli, attendendo che i Primogeniti di Eru, gli Elfi, si destassero a oriente. Tale fu l’origine dei Khazad, che gli Eldar chiamano Naugrim e gli Uomini Nani: i sette figli di Aule si sparsero per il vasto mondo, conducendo con loro la propria discendenza; delle sette stirpi che si vennero in tal modo creando, nessuna era più temuta e onorata di quella di Durin il Senza Morte, erede del primo Nano ad aver calcato il suolo della Terra di Mezzo. Molte sono le storie legate alle gesta del suo popolo, ché esso ebbe parte a molte delle vicende dei Figli di Eru Iluvatar e fu fiero avversario del Nemico nelle ere che il mondo conobbe nei secoli a venire; tuttavia, poiché altrove sono narrate le sue vicende, qui non se ne trova traccia. Punto o poco è noto delle altre stirpi dei Khazad, ché esse solevano dimorare in regioni remote, ove di rado giungevano gli Eldar e gli Edain: il popolo di Bavor, il secondogenito di Aule, fu il primo ad abbandonare la propria terra natia nel remoto Nord, mentre le altre progenie ancora si attardavano negli asili in cui erano venute alla luce; Bavor condusse la sua gente verso Sud, ed edificò la propria dimora presso le Montagne Gialle, che i Sindar chiamarono Ered Lavonar e i Naugrim Mablad. Tale stirpe, tuttavia, non conobbe un lieto destino, perché in seguito all’assassinio di Bavor da parte di alcuni vassalli invidiosi, vi furono ribellioni e disordini che presto sfociarono nella guerra civile: al termine di tale conflitto, la stirpe di Bavor si scisse in tre fazioni, ciascuna delle quali abbandonò le altre, dirigendosi in diverse direzioni, ché ormai ben poco affetto vi era tra loro. I discendenti della linea di Fadon, colui il quale aveva trucidato il legittimo sovrano, conobbero una sorte infausta, ché, stabilitisi nei pressi degli Ered Lithui, (I Monti di Cenere), furono corrotti da Sauron e divennero i suoi schiavi, servendolo durante tutta la Seconda Era.

I Nani della terza e quarta stirpe viaggiarono a lungo verso l’occidente, lì ove si narrava venissero compiute eroiche gesta da parte dei figli di Feanor, e si stabilirono nelle caverne e nelle grotte sotterranee che si estendevano sotto i Monti Azzurri (Ered Luin), venendo, primi fra il loro popolo, a contatto con gli Elfi del Beleriand, con i quali strinsero rapporti di amicizia e alleanza. La terza stirpe, sotto il comando di Dwalim, edificò la meravigliosa città di Gabil Gathol, che i Sindar chiamarono Belegost (Fortezza Poderosa): essa era situata a Nord della Montagna Umida. La tribù di Thrar si stabilì presso Tumunzabar, la possente fortezza che gli Elfi del Beleriand chiamarono Nogrod (Il Tunnel dei Nani); situata a Sud, i suoi cancelli si ergevano a guardia del passo di Cirith Ascar (Il Passo Impetuoso) e dominavano l’antica strada dei Nani, che attraversava il fiume Gelion sino a Sarn Gonrad (Il Guado delle Pietre). Sebbene entrambe le stirpi avessero contratto amicizia con i figli di Feanor, delle due solo quella di Dwalim recò aiuti concreti agli Eldar durante le loro guerre contro Morgoth, mentre i discendenti di Thrar si limitarono a cauti scambi commerciali con gli Eldar e in seguito con gli Edain, allorché costoro fecero la loro apparizione nel Beleriand; nonostante tale freddezza nei rapporti tra i due popoli, alcuni signori elfici ebbero in dono mirabili artefatti bellici forgiati da Telchar il fabbro, il più rinomato artista tra i Naugrim in quei giorni remoti. Durante la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime (Nirnaeth Arnoediad), le schiere di Belegost, comandate da Azaghal, figlio di Dwalim, respinsero i Grandi Vermi che nella sua ira Morgoth aveva scatenato contro i Popoli Liberi, permettendo in tal modo alle forze dell’Alleanza di ritirarsi senza subire gravi perdite; nello scontro contro il Padre dei Draghi, Glaurung il Dorato, Azaghal perì eroicamente, non prima di aver inflitto una grave ferita al suo avversario che dovette tornare ad Angband umiliato. Al termine della Prima Era e dopo l’assassinio di Thingol, re degli Elfi, le stirpi dei Nani delle Montagne Azzurre fuggirono a Est, ché i grandi sconvolgimenti causati dalla Guerra d’Ira avevano distrutto molte delle loro antiche dimore e il mare ne aveva sommerso le rovine; il loro numero decrebbe lentamente ed esse giunsero a Khazad-Dum ove furono accolte dai discendenti di Durin il Senza Morte; non tutti gli eredi di Dwalim migrarono tuttavia a Est, ché alcuni stabilirono il loro dominio sul versante orientale delle Montagne Azzurre, ove ebbero modo di commerciare con gli Eldar e i Dunedain durante la Seconda Era, al termine della quale marciarono contro le schiere di Mordor che si levavano da Est.

Thelor era il padre della quinta stirpe e signore del Monte Gundaband, ove il suo popolo edificò una città, la cui bellezza era paragonabile a quella di Khazad-Dum: tuttavia, al sorgere della Seconda Era, gli attacchi degli Orchi e di altre creature della Tenebra, indebolirono le sue difese e i Nani furono alfine costretti a cedere, abbandonando le antiche magioni nelle mani dei servi di Morgoth. Al termine del secondo secolo di quell’era, la stirpe di Thelor giunse alle montagne del Rhun, ove prosperò per sette secoli, prima che sorgessero contrasti nel regno: al termine di tale periodo, infatti, Thulin, un vassallo dell’erede di Thelor, trucidò il suo signore, ritenuto da molti infido e arrogante, e ne usurpò il trono, scatenando una funesta guerra civile, che condusse a nuovi assassini e usurpazioni, finché Thris, figlia di Thelor XIV, in una congiura di palazzo, privò della vita l’ambizioso Thulin, ponendo fine a un decennio di guerre civili. Il nuovo sovrano, fratello di Thris, salì al trono l’anno successivo e condusse il suo popolo verso una nuova meta, stabilendo il suo dominio negli Ered Harmal, presso le caverne chiamate Namagaluz, il cui cancello si apriva verso levante, a guardia delle acque di Heb Haran, in prossimità delle contrade abitate dai Chey: nel corso della Seconda Era, tale complesso costituì la più grande città dei Nani nell’Endor centrale e nei secoli a venire prosperò, ché i suoi abitanti non furono coinvolti nelle guerre tra l’oscuro discepolo di Sauron e i Popoli Liberi, ed essi crebbero in numero.

La sesta e settima tribù, sotto il comando degli eredi di Druin e Barin, si stabilirono nell’Endor estremo, ove occuparono le antiche sale situate nei Monti Ruurik, a partire dall’ottavo secolo della Seconda Era. Guidati da Balli, erede di Druin, i Nani edificarono la capitale del loro reame nelle caverne di Akbuzdah, ed essa, a costruzione ultimata, fu chiamata Tumunamahal in onore del loro creatore, il Vala Mahal (Aule); codesto complesso si strutturava secondo un progetto che comprendeva ben sette livelli e sette abissi, rendendo la città simile a quella di Khazad-Dum, cui il disegno era ispirato. Tumunamahal era raggiungibile per mezzo di due ingressi separati, uno dei quali era posto alla base di un profondo cunicolo, cui i Nani diedero il nome di “Crepaccio di Druin”: al di là del suo cancello, l’accesso principale era posto al termine di una lunga scale a spirale che conduceva nelle profondità della terra; la seconda entrata era situata sul crinale occidentale delle Montagne del Vento (Ered Gwaen), ed era difesa da tre poderosi cancelli di adamante. La settima tribù, sotto il comando dell’anziano Barin, giunse nella regione alcuni anni dopo, con la speranza di poter stabilire le proprie dimore in tali contrade, dopo aver abbandonato la fortezza di Amon-Lanc nel Rhovanion, le cui sale erano divenute ormai troppo anguste: al fine di suggellare un’alleanza tra le due stirpi, Barin propose al sovrano della sesta stirpe di prendere in moglie sua figlia Bis: soddisfatto da tale offerta, Druin XIV offrì al suocero vaste contrade poste a Est del suo regno, e ivi i Nani dell’ultima stirpe edificarono un città, cui venne dato nome Khalaz-Dum (L’Antro dell’Eco), simile, nelle intenzioni dei suoi progettisti, all’ancestrale dimora in cui si erano destati i figli di Aule. Le due stirpi prosperano durante la Seconda Era e al termine di essa si unirono all’Alleanza dell’Ovest per fronteggiare la minaccia di Mordor: tale fu la loro scelta, ché essi non avevano obliato l’aiuto che in passato aveva fornito loro un possente guerriero, durante l’esplorazione dell’antiche rovine di Amon-Lanc, cui avevano dato nome Khevialath (Il Lungimirante) e che gli Eldar e gli Edain invece chiamavano Morluin. Durante la cerca dell’antica Gemma dei Nani, infatti, Khevialath aveva trucidato Andalonil, un servo di Sauron l’Aborrito, e allontanato da Amon-Lanc gli eserciti di costui, riportando una preziosa vittoria sulle schiere dell’Avversario: in tale occasione, i Nani del Ruurik, grati dell’enorme servigio reso dal Dunadan, giurarono solennemente che avrebbero ricompensato degnamente l’aiuto che costui aveva dato loro, e, memori di tale promessa, inviarono vaste schiere del loro esercito alla battaglia della Dagorlad, mettendo in fuga il popolo di Bavor che sosteneva il Nemico».

«Il Ciclo del Marinaio», pp. 406-410

 

 

Il primo incontro di Erfea con i Nazgul

Finora ho narrato le storie dei primi cinque Nazgul, evidenziandone le ragioni che hanno condotto ognuno di loro alla scelta tragica e fatale di accettare uno degli Anelli del Potere e cedere così il proprio libero arbitrio all’Oscuro Signore. Attraverso queste descrizioni, vi ho narrato di Stregoni, Sovrani, Guerrieri, la maggior parte di nobili stirpi, qualcuno di umili origini, ma tutti accomunati da una grande sete di potere e volontà di dominio.

Non ho, tuttavia, ancora spiegato in quale circostanza Erfea conobbe i Nazgul e i motivi che lo spinsero a combattere questi oscuri servitori del Nemico, di cui fu avversario spietato.

Quella che sto per narrarvi in questo articolo è la storia dell’incontro fra un giovanissimo principe numenoreano e un Nazgul che fu, oltre che stregone esperto di Arti Oscure e sovrano, incarichi che condivise anche con altri suoi pari, anche e soprattutto un uomo politico di primo piano nella società numenoreana. Una peculiarità, quest’ultima, che lo rende, a mio parere, forse il più pericoloso fra i Nazgul. Leggete e giudicate, aspetto i vostri commenti in proposito.

«”Signori e Dame di Numenor, Padri dell’Isola e Custodi dell’Antica Tradizione, vi invito a levare in alto i vostri preziosi calici, ché questa sera accogliamo coloro che molti anni hanno trascorso nelle contrade della Terra di Mezzo; brindiamo, dunque, ad Arthol e a Erfea, Cavalieri del Regno!”. Lungo fu l’applauso che i Signori e le Dame riservarono al giovane cavaliere allorché questi fu insignito del suo titolo; infine, l’araldo convocò Erfea, figlio di Gilnar, dinanzi a Palantir: al fianco del principe dello Hyarrostar era Amandil, suo parente, sebbene più anziano: giunto che fu innanzi al figlio di Ar-Gimilzor, egli chinò il capo ed estrasse Sulring dallo sdrucito fodero in cui era stata riposta per centinaia di anni: stupore si levò, allora, in tutta la sala, ché la lama era invero splendida e terribile a vedersi ed essa irradiava una forte luce azzurra, tale che molti furono costretti ad abbassare il capo, pur non comprendendone la ragione, a eccezione di uno.

Mai Erfea aveva posto il suo sguardo sulla maschera dorata che occultava il volto del principe del Forostar, ché questi era giunto a Numenor allorché egli dimorava nelle contrade della Terra di Mezzo e sconosciuto gli era finanche il nome, sebbene a costui fossero noti molti degli eventi che riguardavano l’esistenza di Erfea ed egli era fiero nemico della sua fazione, essendo degli Uomini del Re; eppure, non era un uomo vivente, come lo credevano i suoi alleati e i suoi servi, bensì uno spettro intriso di malvagità e di malizia, ché egli era invero Akhorahil il Re Tempesta, quinto in possanza fra i Nove Ulairi che servivano l’Oscuro Signore di Mordor, Sauron l’Aborrito. Il luogotenente di Morgoth l’aveva inviato a Numenor, ché fosse il suo araldo in tale contrada e ne diffondesse le abiette parole. Molto aveva appreso durante gli anni in cui si era stanziato ad Armenelos, ove, gli era stato attribuito il titolo di principe, ché invero possedeva molto denaro e i suoi mercenari incutevano timore in quanti tentavano di contrastarne la volontà: pure, Ar-Gimilzor l’aveva reputato utile ai suoi scopi, ché molto abbisognava dell’oro e dell’argento che giacevano nei suoi forzieri per corrompere quanti erano suoi avversari, sicché l’aveva colmato di doni e gli aveva affidato il feudo delle contrade settentrionali; grande era divenuta l’influenza di Akhorahil nelle sedute del Consiglio dello Scettro ed egli sovente inspirava nel suo sovrano azioni bieche e crudeli, tali che lo spirito di Ar-Gimilzor ne fu corrotto ed egli divenne presto schiavo del volere di Sauron, ché, invero, qualunque parola fosse stata pronunciata dal Nazgul, pure ne era questi l’ispiratore.

Spie degli Ulairi avevano riferito ad Akhorahil che l’erede di Gilnar era invero un possente guerriero e uno spirito lungimirante, sicché egli prese a detestarlo, pur non avendone ancora scorto le sembianze ed essendo riluttante a recarsi nella sua dimora, ché Gilnar non avrebbe tollerato la sua presenza nella terra natia e tosto l’avrebbe allontanato; a lungo, dunque, aveva atteso che Erfea gli si rivelasse e grande fu invero la sua ira e la sua paura, allorché si avvide che questi era stato armato di una lama elfica, ché essa era in grado di rivelare la presenza dei servi di Morgoth; pure, egli sorrideva, ché sapeva essere tale peculiarità un segreto noto a pochi fra i Signori di Numenor, sicché, per il momento, nulla aveva da temere. Tuttavia, non avrebbe tollerato che un simile Uomo fosse elevato a un rango che gli avrebbe attribuito notevole fama e chiese la parola: “Principi di Numenor, vi è tra voi chi ancora ricordi le leggi dei nostri padri, in tali tempi di decadenza e oblio? Perché, se alcuno fra coloro che sono seduti in tale luogo rimembrasse tali precetti, ecco che io non esiterei a chiamarlo fedifrago e il nome della sua casata sarebbe infangato da un simile disonore; tuttavia, tale è la mia opinione, il dolce nettare degli dei ha inebriato i cuori e le menti di molti dei presenti, sicché non è per me motivo di meraviglia intendere che nessuno sia in grado di ricordare quanto il mio cuore mai hai obliato. Concedetemi, dunque, di parlare a nome del glorioso sovrano, Ar-Gimilzor, il quale non è presente in tale consesso, affinché le leggi dei padri siano tosto rimembrate: l’erede di Gilnar, il cui sembiante mai avevo mirato sino a tale giorno, sebbene mai alcuno fra quanti hanno le loro dimore ad Armenelos gli abbia recato offesa – e dicendo questo, gli rivolse un profondo inchino – costui, dicevo, ha testé recato, innanzi a noi qui riuniti, una lama quale mai la legge dei nostri padri avrebbe permesso che fosse adoperata durante la cerimonia di investitura: essa, infatti, è una spada proveniente dall’antica città di Gondolin, non già da una delle nostre armerie”.

Tacque per un attimo, infine parlò nuovamente: “Leggo nei vostri sguardi lo stesso stupore e la stessa meraviglia che provai allorché questo giovane sguainò la sua arma dinanzi a noi: essa è una lama barbara e tale rivelazione sarebbe sufficiente per riempire me e voi di giusto sdegno; tuttavia, come se ciò non costituisse già una grave colpa, costui ha recato seco una spada stregata, la cui malsana luce incute timore in quanti osano guardarla. Non vi è alcun dubbio che il giovane, confuso dal vino e dai graziosi volti delle dame ivi presenti – e, a tale rivelazione, molti risero sommessamente – abbia obliato tale legge, né sarò io a chiedere che gli venga attribuita pena più grande di quella che la vergogna per tale rivelazione affliggerà il suo cuore: tuttavia, vedete bene come sia impossibile che tale othar aspiri alla carica che il principe Numendil gli offre”.

Silenzio echeggiò in tutta la sala, ché invero molti furono presi dal dubbio e rosi dall’inquietudine; tosto, tuttavia, si levò un brusio concitato, ché ognuno esprimeva la propria opinione ed essa sovente contrastava con quella del proprio vicino; infine, allorché la confusione parve raggiungere il culmine, si levò, chiara, la voce di Numendil: “Le leggi dei nostri padri prevedono quanto tu hai ricordato, principe Akhorahil; eppure, esse stabiliscono che sia l’investitore a giudicare se l’arma con la quale l’othar si presenti per la cerimonia possa considerarsi valida o meno: stando così le cose, io non mi opporrò alla nomina di Erfea di Numenor, ora Capitano della Cavalleria del Regno”. Alte grida di approvazione si levarono allora da coloro che erano del partito dei Fedeli, ché essi speravano venir meno in tal modo la richiesta di Akhorahil; costui, tuttavia, non esitò a parlare nuovamente e, sebbene una furia cieca si agitasse nel suo oscuro animo, seppe abilmente occultarla: “Ai voti! Si metta dunque ai voti la nomina di Erfea, figlio di Gilnar, a capitano della cavalleria del regno!”. Numendil, sebbene fosse profondamente turbato, non poté esimersi dall’accettare una simile richiesta, ché egli era Sovrintendente del Regno e Alto Custode delle Leggi e della Tradizione, sicché, mostrando grande riluttanza, pure fu costretto a cedere. Sorrise in cuor suo il Nazgul, ché egli credeva sarebbe giunta facilmente la vittoria: gli Uomini del Re, infatti, erano in maggioranza ed essi avrebbero seguito il suo volere, mostrandosi avversi alla proposta che Numendil aveva fatto propria; grande fu, tuttavia, la sua sorpresa, allorché risultò che egli era stato battuto, ché alcuni fra i Signori di Numenor del suo partito, spaventati dai successi che il principe del Forostar aveva accumulato negli ultimi tempi, erano stati propensi ad attribuire la contestata carica a Erfea, piuttosto che a osservare accrescersi l’influenza del Nazgul a corte: furente in volto, Akhorahil abbandonò l’aula, giurando che avrebbe ottenuto la sua vendetta sul figlio di Gilnar».

«Il Ciclo del Marinaio», pp. 44-48.

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Nato nell’anno 1888 della Seconda Era, Akhorahil era il primo figlio di Ciryamir, appartenente al medesimo lignaggio del re di Numenor, Tar-Ciryatan; sebbene fosse un Uomo dotato di una forza prodigiosa e di una mente lungimirante, Akhorahil fu corrotto dalla sua sfrenata ambizione. Nel 1904, Ciryamir ottenne una licenza dal sovrano per fondare e amministrare una colonia reale nel meridione della Terra di Mezzo. L’anno successivo, Akhorahil navigò con la sua famiglia fino a sbarcare con il suo esercito presso il porto di Hyarn, in Endor e di lì, attraverso il fiume Aronduin, giunse alla cittadella, recentemente fondata, di Barad-Caramun (Torre del Tramonto). Ivi, Ciryamir fondò il reame di Ciryatandor, ed esso si estendeva dal mare fino ai contrafforti delle Montagne Gialle.

Giovane nella mente e nel corpo, Akhorahil godette della sua nuova dimora, ma il suo spirito ambiva incutere timore in quanti lo circondavano; tale era la sua ambizione che si applicò con ferrea volontà allo studio della arti oscure, eppure i risultati ottenuti in tale campo non soddisfecero appieno la sua fama di potere. Non trascorsero molti anni che il suo cuore iniziò a reclamare il trono del padre, finché nel 1918 egli promise a un anziano sacerdote dell’Harad che avrebbe scambiato i suoi azzurri occhi con le due Gemme del Dominio, le stesse che avevano permesso al suo precedente possessore di diventare il maggior esperto delle Arti Oscure nel regno degli Haradrim.

Tosto, il crudele Numenoreano adoperò tali artefatti per controllare la mente del padre e condurlo alla pazzia e infine al suicidio: in tal modo, colui che ormai si faceva chiamare il Re Tempesta, ottenne il trono paterno e sposò la sorella Akhoraphil.

Nel corso del ventesimo secolo, Akhorahil conquistò vaste contrade nel meridione della Terra di Mezzo, suscitando l’interesse di Sauron, il quale voleva appropriarsi di tale reame: un ambasciatore fu inviato presso il Re Tempesta, con il segreto incarico di offrire al Numenoreano il quinto Anello del Potere degli Uomini, promettendogli una conoscenza illimitata e una gloriosa immortalità. Consumato dall’avidità e dall’ambizione, Akhorahil legò la propria anima a quella dell’Oscuro Sire, ottenendo il suo Anello nell’anno 2002.

Nei successivi duecentocinquanta anni, il Re Tempesta non fu visto da alcuno dei suoi sudditi, mentre sua moglie e il suo primogenito abbandonarono la corte, sconvolti dalla metamorfosi che aveva subito il folle Numenoreano; il Nazgul, tuttavia, decretò prematuro rivelarsi al mondo e continuò a pagare i tributi a Numenor, ché non voleva destare sospetti alla corte del sovrano. Infine, allorché ritenne i tempi maturi, proclamò l’indipendenza di Ciryatandor, beffandosi dei tentativi del suo sovrano, Tar-Ancalimon, di riportare il suddito all’obbedienza: dopo alcuni anni, le armate di Numenor annientarono il reame del Re Tempesta; tuttavia, costui era fuggito nell’ultima contrada ove i suoi nemici l’avrebbero cercato, ed elesse Elenna stessa a sua nuova patria, dimorando nell’isola del Dono fino al regno di Tar-Palantir, il quale si dimostrò incorruttibile all’azione dei suoi servi. Nel profondo dell’Harad, il Nazgul aveva fondato una fortezza imprendibile e ivi si diresse allorché fuggì da Numenor; con suo grande disappunto, tuttavia, Erfea Morluin si addentrò nei tenebrosi meandri della sua dimora, ivi scoprendo le vere identità degli Ulairi. Grande ira covò nel suo cuore il Re Tempesta allorché la sua cittadella fu violata e furente giurò di trucidare con le sue stesse mani colui che aveva osato compiere un simile atto.

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Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Per altri luoghi e per altre vie: gli Anelli del Potere un ponte per altri mondi?

Inizio questo articolo con una citazione del bellissimo racconto a fumetti: «Favola di Venezia» di Hugo Pratt. Al termine di una vicenda intricata e onirica il protagonista del racconto, il marinaio Corto Maltese, trova una gemma magica, la «Clavicola di Salomone», nel Ghetto di Venezia, che gli permette di andare «in posti bellissimi e in altre storie» come recita la didascalia della vignetta che ho scelto come immagine in evidenza per questo articolo.

Le proprietà de «La clavicola di Salomone», che permettevano al suo possessore di aprirsi la strada verso altri mondi, mi hanno suggerito una riflessione sui Grandi Anelli del Potere che, spero, possa fare luce su alcune delle loro caratteristiche intrinseche. Come tutti sanno, l’uso prolungato degli Anelli porta con sé una serie “effetti collaterali” perniciosi di dipendenza: non escludo da questi neppure gli Anelli degli Elfi, perché, se ci pensate bene (a parte l’Anello di fuoco, affidato a Gandalf) costringono, più o meno implicitamente, i loro possessori a isolarsi dal mondo, aiutandoli a realizzare delle bellissime oasi come Rivendell e Lorien, le quali, tuttavia, a causa della loro natura, per così dire “artificiosa”, sono isolati dal resto delle terre circostanti. Ricordate cosa accade ai membri della Compagnia dell’Anello quando abbandonano Lorien? Scoprono che sono trascorsi molti più giorni rispetto ai loro conti: il tempo scorre diversamente nella terra di Galadriel, contribuendo ad isolarla dal resto della Terra di Mezzo. Gli Elfi sono orgogliosi delle loro dimore: eppure, venuto meno il potere dell’Unico Anello, avvertono il senso di stanchezza (o forse dovrei dire di inadeguatezza) che la Terra di Mezzo comunica loro e forse – ma questa è una mia opinione – comprendono che, magari non nel volgere di pochi anni, ma con il trascorrere del secoli, Lorien e Rivendell avrebbero perso le loro proprietà intrinsiche di bellezza, legate com’erano ai poteri degli anelli di Elrond e Galadriel, e decidono di rinunciarvi spontaneamente, veleggiando verso Ovest e conservando così intatto il ricordo struggente della bellezza e armonia di quei luoghi.

Anche per i Nani, che pure risultavano molto resistenti alla magia, l’uso degli Anelli comportò conseguenze perniciose: in realtà, conosciamo molto poco delle proprietà degli anelli del popolo di Durin, fatta eccezione forse per una frase dal significato piuttosto oscuro che nelle Appendici del «Signore degli Anelli» Thror rivolge a Thrain, consegnandogli l’ultimo Anello del suo popolo: «Questo potrebbe essere per te la base di una nuova fortuna, benché sembri improbabile. Ma per fare oro occorre averne» (JRR Tolkien, SdA, p. 412).

Per quanto riguarda gli Anelli degli Uomini siamo maggiormente informati, non fosse altro perché sappiamo che il loro possesso li trasformò in servitori schiavi della volontà di Sauron, i Nazgul, realizzando così l’obiettivo primario dei piani del Nemico: rendere i possessori degli Anelli suoi schiavi immortali. Siamo a conoscenza, altresì, degli effetti “positivi” che caratterizzavano questi artefatti: rendevano i sensi dei loro proprietari più acuti (ricordate cosa successe a Bilbo nell’Hobbit?) e, almeno nel caso degli Anelli degli Uomini, resero le loro menti più brillanti e i loro corpi più resistenti, prolungandone la vita magicamente: in questo modo essi potettero diventare famosi sovrani, guerrieri e stregoni, prima di cadere vittime della nequizia di Sauron. Fin qui abbiamo brevemente ricordato le principali caratteristiche degli Anelli e il destino finale dei loro possessori, senza però avvicinarci ancora al tema anticipato nel titolo.

Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo riprendere una frase del Silmarillion che entra nel vivo della questione dei poteri degli Anelli: «Potevano aggirarsi, volendolo, invisibili agli occhi di tutti in questo mondo sotto il sole, e vedere cose in mondi invisibili ai mortali; ma troppo spesso non scorgevano altro che fantasmi e finzioni di Sauron». (Il Silmarillion, p. 364). Or dunque, che Sauron evocasse le larve degli spiriti dei morti non è una novità: fu proprio attraverso l’inganno perpetuato a danno di uno dei compagni di Barahir, il padre di Beren, mostrandogli il fantasma della moglie morta, che il discepolo di Morgoth apprese del nascondiglio dei suoi nemici e potè così procedere alla loro eliminazione. Per comprendere tuttavia a cosa alludesse Tolkien parlando di «mondi invisibili ai mortali», dobbiamo recuperare un altro breve passaggio dei suoi scritti. Ricordate cosa successe a Frodo quando, al Guado di Bruinen, era sul punto si trasformarsi in uno Spettro? «Mi parve di vedere una figura bianca che risplendeva e non si offuscava come le altre: era dunque Glorfindel?». «Sì, per un attimo l’hai intravisto com’è nell’altro mondo: uno dei potenti fra i Priminati». (SdA, La Compagnia dell’Anello, p. 305). Possiamo dunque immaginare che gli Anelli del Potere, un po’ come la Clavicola di Re Salomone fossero ponti di passaggio fra mondi diversi? E se sì, cosa c’era davvero in quei luoghi, a parte le finzioni di Sauron (che, come i Priminati, doveva avere potere in entrambi in mondi)? Purtroppo a queste domande Tolkien non offrì mai alcuna risposta: è affascinante, tuttavia, immaginare che gli Anelli del Potere potessero permettere ai loro possessori di avere una visione di Aman (declinata tuttavia secondo le caratteristiche dei vari popoli: per fare un esempio, i Nani avrebbero potuto scorgervi le grande ricchezze materiali degli immortali, mentre gli Uomini sarebbero rimasti maggiormente affascinati dal potere che queste figure emanavano), rendendo tuttavia i loro possessori via via meno legati a questo mondo e desiderosi, invece, di fuggire al di là del Mare per sempre? Forse è per questa ragione che Tolkien, riferendosi a un Thor ormai anziano, lo descrisse come rimbambito a causa dell’età o dell’Anello. È possibile che la malvagità di Sauron risiedesse anche nell’offrire ai possessori degli Anelli un’immagine di un mondo stupendo, del quale, a un certo punto, non potevano fare più a meno?

Erfea, o degli eroici imperfetti

Quando ero adolescente lessi un libro giallo molto piacevole, intitolato «La Società dei Gatti assassini» la cui trama ha, come potete immaginare, poco a che vedere con Tolkien e la Terra di Mezzo. Mi sono tuttavia rimaste impresse queste parole che riporto di seguito perché credo che possano essere utili per aprire questo nuovo articolo: «La piaga più grande dei nostri tempi sono i mezzi-talenti, che vengono considerevolmente sopravvalutati. Io comunque conosco i miei limiti».

Ripensando a queste parole e a una discussione che avevo iniziato in un altro articolo a proposito degli eroi nella Terra di Mezzo, mi sono chiesto se sia possibile immaginare – oltre alla categoria degli eroi senza macchia e senza paura e a quelli che eroi si improvvisano per necessità di forza maggiore, una terza specie, quella degli eroici imperfetti. Cosa intendo con questa espressione? Si tratta di personaggi singolari, particolarmente dotati in alcune attività, ma che falliscono altrettanto clamorosamente in altre. Prendiamo un esempio abbastanza noto: Batman. Provate ad immaginarlo mentre combatte contro Joker, oppure nel tentativo di sventare i piani del Pinguino: la sceneggiatura fila benissimo; ma se immaginate l’Uomo pipistrello con famiglia, magari alle prese con i problemi di un figlio adolescenziale…beh, sentite che qualcosa non quadra. Naturalmente conosciamo il background del Cavaliere Oscuro: sappiamo dell’omicidio dei suoi genitori, di un trauma mai superato, della sua avversione per le armi da fuoco, etc. etc. Nell’epopea tolkeniana, un eroe di questo tipo potrebbe essere ritenuto Boromir: l’autore lo presenta, nelle appendici a fine romanzo, come un uomo che poco si interessava del passato, salvo che per il racconto di battaglie remote, e che non aveva alcuno interesse sentimentale. Al di là del suo fallimento e poi del suo riscatto finale, resta l’impressione di un personaggio apparentemente bloccato da un punto di vista emotivo: tuttavia, sforziamoci di immaginarlo come ha fatto Jackson ne “Le Due Torri” e ne avremo l’immagine di un guerriero glorioso, di un leader affermato che sa fare molto bene il suo mestiere, ossia la guerra (ricordate le scene in cui Faramir rimembra il giorno della presa di Osgiliath)?

Erfea, il protagonista maschile principale del «Ciclo del Marinaio» potrebbe essere senza dubbio descritto come un eroico imperfetto. Unico figlio di una delle più potenti famiglie principesche di Numenor, Erfea è indubbiamente un personaggio dotato di una ferrea volontà, di un carattere d’acciaio e di una salda tempra morale. Tutte qualità che siamo soliti ascrivere, senza alcun dubbio, agli eroi classici. Ma Erfea non lo è, o almeno non lo è del tutto: compie errori di valutazione, a volte si fida delle persone sbagliate e – soprattutto – non riesce a comprendere davvero come le persone a lui più care possano compiere scelte che lui non approverebbe mai e che lo spingono, in nome della sua rigidità mentale, a rompere i rapporti piuttosto che a provare a salvarli. Certamente Erfea vive durante il periodo peggiore di tutta la storia numenoreana: figlio di uno dei principi del partito dei Fedeli, infatti, egli deve scontrarsi con una società nella quale i Numenoreani Neri, al contrario, esercitano un potere crescente. Egli sarà marginalizzato per molti anni a causa di questa sua appartenenza ai Fedeli e ne condividerà le amarezze e le disillusioni prima con Amandil (suo coetaneo) e poi con suo figlio Elendil e i suoi celebri nipoti Isildur e Anarion.

L’universo tolkieniano è senza dubbio molto vasto e tanti sono gli spazi che si offrono a quanti desiderano approfondirne le vicende: perchè, dunque, scegliere di ambientarle a Numenor, nell’ultimo periodo della sua storia? La risposta è molto semplice: come ho scritto in un recente articolo, trovo personalmente che le storie degli Uomini possano essere approfondite grazie al ricorso all’allegoria: e quale epoca migliore della nostra per spiegare i comportamenti dei Numenoreani giunti al termine dei loro giorni? Ci sono molti elementi in comune: non siamo ancora arrivati a vivere 200 anni (per fortuna o forse no), ma indubbiamente la nostra vita media (almeno nei Paesi Occidentali) è cresciuta tantissimo negli ultimi tempi, arrivando a mettere in dubbio tutta una serie di certezze che accompagnavano l’impersonificazione dei ruoli tradizionali: nonni, genitori e figli devono oggi confrontarsi con un mondo nuovo, che mette in discussione le certezze acquisite. I Numenoreani erano all’apice della loro ricchezza, eppure (o forse proprio per questa ragione) fra loro non mancavano individui infidi, corrotti e manipolatori delle coscienze altrui: gli ultimi anni della loro epoca, inoltre, erano caratterizzati da un imbarbarimento dei costumi e da un odio crescente verso quelli che erano ritenuti popoli da sottomettere. Da consiglieri e dispensatori di doni, i Numenoreani si erano trasformati in avidi conquistatori: credevano di fare concorrenza a Sauron nel dominio della Terra di Mezzo ma in fondo, senza neanche rendersene conto, ne erano già succubi. Situazioni che, purtroppo, sono oggi molto diffuse: ciascuno può trovare i paragoni che più gli aggradono. La generazione di Erfea, Amandil, Miriel, inoltre, subiva il peso di una crisi morale, economica e sociale sempre più forte: educati secondo i valori tradizionali, dovevano invece misurarsi con situazioni nuove, che richiedevano grande coraggio nelle scelte da compiere e la consapevolezza che la probabilità di perdere qualcosa o qualcuno fosse molto elevata. Infine – ed è un fattore da non trascurare, tutt’altro – le opere di Tolkien ambientate nella Seconda Era sono poche e spesso frammentarie: certamente l’Akallabeth mi è stato di ispirazione, così come il racconto di Aldarion ed Erendis, tuttavia ho potuto spaziare abbastanza liberamente all’interno di un universo spaziale e temporale che Tolkien ha solo sommariamente descritto, lasciando pagine bianche per chi avesse voluto cimentarsi nel continuare a raccontare le storie di quei tempi, nel rispetto, naturalmente, dei punti fermi da lui stabiliti.

Alcuni anni fa una lettrice mi fece notare, dopo aver letto tutto il romanzo e le appendici incluse, come Erfea si rivelasse un uomo fin troppo fortunato, per aver passato indenne un’epoca così turbolenta come fu quella finale della Seconda Era: resto tuttavia convinto che gli eroici imperfetti, al contrario, perdono per strada molti pezzi del loro vissuto, spesso in modo doloroso, pur riuscendo a «non frammentarsi» del tutto: l’unica ancora di salvezza alla quale possono aggrapparsi è ammettere lucidamente, come fa il protagonista della «Società dei Gatti Assassini» citato all’inizio di questo articolo, i propri limiti, imparando a conviverci.

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L’ultima battaglia della Seconda Era

Su invito di uno dei miei lettori, dedicherò questo articolo alla descrizione della battaglia avvenuta sulle pendici dell’Orodruin tra Sauron e i principali comandanti dell’Ultima Alleanza. Come probabilmente saprete, in quel durissimo scontro morirono sia Gil-Galad che Elendil, e Isildur sconfisse Sauron, togliendogli l’Unico Anello. Curiosamente, nonostante questo episodio segni la fine di un’era e del dominio dell’Oscuro Signore sulla Terra di Mezzo, Tolkien non vi dedicò particolare attenzione. Non sappiamo, ad esempio, se Sauron fu ucciso da Isildur, il quale poi gli tagliò il dito per impossessarsi dell’Anello o se gli eventi presero una piega simile a quella che si vede nel primo film della Trilogia di Jackson. Nei miei racconti ho concepito questa scena, nella quale si narra come Isildur compì la sua più gloriosa impresa anche grazie ad un aiuto…inaspettato. Spero che possa piacervi, buona lettura!

«Al termine del settimo anno d’assedio, infine, avvedendosi che le sue armate non potevano più opporsi alla collera delle schiere dell’Alleanza e che la sua fortezza era stata sguarnita, l’Oscuro Signore uscì dalla sua tenebrosa dimora e si accinse a sfidare a singolar tenzone i condottieri della Libere Genti; in preda al panico, ché invero terrificante era a vedersi il negro sembiante del Maia Caduto, i soldati indietreggiarono, coprendosi il volto con entrambe le mani, ché non osavano mirare il volto di colui che un tempo era stato il luogotenente di Morgoth; pure egli non si curò affatto di loro, ma si diresse verso i Signori dell’Alleanza, avendo in mente di trafiggere le loro mortali carni con la sua asta, né dovette cercare a lungo, ché costoro, a gloria della maestà di Iluvatar che è sopra i destini del mondo, non fuggirono ma lo attesero impavidi sul versante orientale dell’Orodruin, ove la malizia dell’Anello sovrano era maggiore e colui che lo portava sperava ottenere facile la vittoria. Primo, fra quanti erano nel novero dei comandanti dell’Alleanza, Gil-Galad non attese che il discepolo di Morgoth gli si scagliasse contro, ma, rapido come il vento che spira da occidente, affondò la sua portentosa Aiglos, che si diceva fosse stata forgiata da Feanor allorché costui era ancora a Valinor e la luce degli Alberi non era venuta meno; pure l’Oscuro Signore non si rivelò meno agile nell’evitarne il colpo, provocando lo sbilanciamento del re dei Noldor, sicché questi cadde e la sua arma si frantumò sotto di lui. Rapido, allora, il grifagno artiglio di Sauron afferrò il figlio di Fingon per il collo e coloro che erano con lui in quel momento si avvidero che la carni di Gil-Galad bruciavano, mentre la vita di costui veniva meno; scosso dalle grida che il sovrano degli Eldar emetteva nell’agonia della morte, lanciando un possente urlo di battaglia, Elendil cercò di portargli soccorso ma le oscure e oscene parole che il sire di Mordor pronunziò in quell’ora ne arrestarono l’impeto ed egli fu trafitto dall’asta che costui impugnava.

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Rise allora Sauron ed era invero terribile a vedersi, ammantato nella sua lugubre armatura, mentre fiamme si libravano come lingue di serpe dalla punta della sua arma; lesto, si scagliò allora contro quanti fra i Signori dell’Occidente erano sopravvissuti e, nel suo pesante incedere, frantumò la lama di Elendil, Narsil la Splendente, forgiata dal grande fabbro Telchar di Nogrod allorché il Sole e la Luna erano giovani e il Beleriand non era ancora stato sommerso dalle impietose acque dell’oceano. Eppure la sua letizia non era completa, ché egli si avvide non essere fra quelli Erfea Morluin, nonostante le sue spie gli avessero riferito essere quello sopravvissuto a ogni scontro: infine, avvertì la sua presenza, ché il figlio di Gilnar si era inerpicato lungo l’antico percorso che conduceva alla Sammath Naur, la fucina dell’Oscuro Signore e ivi, aiutato da Glorfindel, aveva messo in fuga il suo antico nemico, il Capitano degli eserciti di Mordor; lesto, l’eco del suo passo risuonava ora tra gli antichi anfratti dell’Orodruin, che gli Uomini chiamano Monte Fato. Terribile a udirsi fu allora il grido di Sauron, ché egli aveva in serbo di annientare colui che per molti anni era sfuggito alle trame ordite dai suoi servi; leste, allora pronunciò parole di malizia e crudeltà intessute sicché l’intera montagna tremò e un possente pinnacolo di lapilli e fuoco si levò dalle viscere della terra e l’Anello Sovrano splendette nell’oscurità della tenebra; pure, desideroso com’era di trucidare Erfea, egli obliò quanti erano alle sue spalle e tale dimenticanza gli fu fatale, ché Isildur, primogenito del re ed esperto combattente, afferrata l’elsa di Narsil – ché la sua arma era stata corrosa dalla perfidia di Sauron – si scagliò contro il Signore degli Anelli. Nessuna lama, tuttavia, neppure quella forgiata dalla possente arte di Telchar il fabbro nei Giorni Remoti, poteva annientare l’oscuro bordone che Sauron impugnava con forza, creato a Utumno allorché il Sole e la Luna non erano ancora sorti. Isildur vibrò con disperata fierezza il colpo e l’elsa che nel suo pugno stringeva si abbatté sull’arma del Nemico: il troncone della lama di Narsil fu scalfito, pure, l’Oscuro Signore non poté gioire, ché esso, scivolando in basso lungo la lucida superficie della nera asta, ne recise la mano sinistra. Sauron, allora, vacillò e cadde. Nella piana che si estendeva ai piedi di Barad-Dur, le schiere di Mordor si arrestarono ed esitarono, ché si avvidero essere venuto meno il volere che sorreggeva le loro membra; sconvolte, allora, esse fuggirono, mentre la montagna si spaccò e vomitò ceneri e lapilli; sotto gli attoniti occhi di Isildur, il corpo mortale di Sauron si consumò, finché, con un ultimo gemito, egli disparve nella bruma che da oriente sorgeva e del suo sembiante non rimase nulla eccetto le armi che costui aveva condotto in battaglia e l’Anello Sovrano. A lungo l’erede di Elendil esitò, ché Elrond e Gil-Galad molto l’avevano messo in guardia sul nefasto fato che attendeva chi, qualora Sauron fosse scomparso dal mondo, si fosse impossessato dell’Anello Sovrano; infine, la sua volontà cedette, o perché egli, ingenuamente, credette essere venuto meno con la scomparsa delle spoglie mortali del suo nemico anche il suo volere malefico, o perché fu soggiogato dalla malizia dell’Unico, la cui superficie era ancora rischiarata nelle tenebre da una cupa fiamma che si agitava sopra essa. La rovina degli eserciti di Sauron fu totale, e coloro che sopravvissero alla sua caduta fuggirono nelle remote contrade del levante, ove si narra che anche gli Ulairi e il nero spirito del Maia umiliato trovassero scampo per lunghi secoli, finché non ebbero acquisito forza a sufficienza per tornare a reclamare quanto avevano perduto al termine della Seconda Era. Invero, fu quella una vittoria incompleta, ché l’Anello non andò distrutto, come avrebbe dovuto essere, ma fu concupito da Isildur, il quale, nonostante i saggi ammonimenti degli altri comandanti, reputò di avere forza di volontà sufficiente per dominarlo e lo portò seco al Nord, ove fu trucidato dagli Orchi due anni dopo la morte del padre».

Tratto da «Il Ciclo del Marinaio», pp. 373-376.

Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria

Riprendo il discorso che avevo iniziato alcuni giorni fa in merito alle difficoltà di Tolkien di scrivere storie nelle quali gli Uomini la fanno da protagonisti. Non si tratta di una scelta penalizzante nei confronti della sola razza umana: come è emerso dai commenti seguiti alla pubblicazione della prima parte di questo articolo, Tolkien riconosceva pregi e difetti a tutte le razze della Terra di Mezzo: gli Hobbit hanno la tendenza al provincialismo, i Nani all’avidità dei metalli e delle gemme preziose, gli Elfi sono angosciati dalla necessità di preservare lo status quo, gli Uomini aspirano al dominio del Creato e sulle altre razze. Indubbiamente, tuttavia, la stirpe dei Secondogeniti gode di un bonus prezioso che non detiene nessun’altra razza nella Terra di Mezzo, ad eccezione (forse) degli Hobbit: non è legata al destino di Arda. Forse a causa di questa peculiarità, gli Uomini non si fanno troppo scrupoli a sfruttare le risorse naturali delle loro contrade, con il rischio di trasformarle in veri e propri deserti: basti pensare ai disboscamenti effettuati dai Numenoreani nella Seconda Era al fine di costruire la loro possente flotta. Gli Elfi, al contrario, e anche i Nani (basti pensare al dialogo fra Gimli e Legolas sulle Caverne scintillanti) avvertono un vincolo più forte nei confronti della Terra, alla quale attribuiscono maggior rispetto. Sotto questo particolare punto di vista, dunque, le simpatie di Tolkien non possono andare alla stirpe umana: basti pensare alla sua nota idiosincrasia nei confronti del progresso tecnologico fine a sè stesso, in grado solo di portare seco uno sviluppo economico diseguale.

Mi rendo conto, tuttavia, di non aver ancora affrontato la questione legata al titolo di questo articolo, ragion per cui proseguo nel mio intento rievocando una questione abbastanza nota ai lettori del professore inglese, ossia la nota antipatia che egli ebbe nei confronti dell’allegoria: nella lettera 181, riportata ne “La Realtà in Trasparenza”, così l’autore del Signore degli Anelli tacitava l’idea che il suo romanzo fosse una gigantesca allegoria dei tempi coevi: «Perché io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria, o dalla satira (quando è elevata) o dal realismo, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte».

Riporto questa lettera non tanto perché voglia soffermarmi su una questione già ampiamente dibattuta, ossia il carattere non-allegorico del Signore degli Anelli, quanto per avanzare un’ipotesi nuova: potrebbe il rifiuto di scrivere storie allegoriche legarsi in qualche modo alle difficoltà espresse nello scrivere storie degli uomini?

Per illustrare in modo più convincente questa mia ipotesi, ricorderò che Tolkien, pur ammirando da esperto filologo e docente qual era le opere di Dante, non riusciva a apprezzare l’idea base della Divina Commedia, ossia l’allegoria. Gli uomini e le donne che il sommo poeta incontra nelle tre cantiche rappresentano vizi e virtù del genere umano: sono realmente esistiti o, quantomeno, lo erano per l’epoca nella quale visse Dante (vedi Ulisse e altri personaggi semi-mitologici). Ciò che mi chiedo è se scrivere degli Uomini senza tuttavia considerare l’allegoria, anche all’interno di un contesto fantastico quale può essere la Terra di Mezzo, sia, nei fatti, molto problematico: una difficoltà nella quale potrebbe essersi imbattuto lo stesso Tolkien. Egli, infatti, commentando, ad esempio, la divisione dei Numenoreani in due fazioni (fedeli ai Valar e fedeli ai sovrani imperialisti), non mancava di far notare come la costituzione di due partiti sull’isola di Numenor nascesse dall’impossibilità per gli uomini di vivere in modo armonioso senza problemi e che la presenza di fazioni portasse inevitabilmente al conflitto (come in effetti a Numenor avvenne). Pensiamo tuttavia a come Dante seppe tratteggiare alcuni dei più affascinanti personaggi della Divina Commedia, pur sapendo bene che erano della parte avversa alla sua: un nome su tutti spicca, quello di Farinata degli Uberti, ghibellino fiorentino (Dante era guelfo). Tolkien sembra avvertire le suddivisioni degli uomini in modo sofferto, quasi a voler evitare di prendere una scelta a favore degli uni e degli altri: lo stesso ruolo di Sauron, portato in catene a Numenor, non è solo quello di corrompere Ar-Pharazon (cosa che effettivamente si verifica), quanto quello di seminare zizzania tra poveri e ricchi, tra ceti sociali diversi. La sensazione che si riceve, a questo proposito, è quella di un forte disagio avvertito dall’autore: non perché egli voglia difendere in alcun modo Sauron e i suoi accoliti, ovviamente, quanto perché una caratterizzazione più approfondita di queste lotte porterebbe inevitabilmente – tale è il mio pensiero – a una soluzione allegorica. Ho come la sensazione che scrivere degli Uomini, a partire dal contesto di riferimento – fantastico, fantascientifico, realistico o utopistico che sia – conduca l’autore, in quanto umano a sua volta, a rovesciare, non sempre in modo conscio, la propria esperienza, il proprio vissuto e, soprattutto, la sua coscienza dell’epoca nella quale vive, nei personaggi creati dalla sua penna. Mettersi nei panni di Elfi, Nani ed Hobbit, al contrario, può risultare più facile perché si parte da condizioni “esterne all’umanità” per così dire: per fare qualche esempio, gli Elfi sono immortali e sono legati al destino di Arda; le anime dei Nani si reincarnano periodicamente nei propri discendenti; gli Hobbit, infine, pur essendo mortali, non percepiscono il peso della morte come gli Uomini (o almeno Tolkien non ci presenta Hobbit con tali paure) e così via. Lucidamente Tolkien ripudia l’allegoria; ho tuttavia l’impressione che così facendo, in fondo, abbia allontanato da sè e dai suoi scritti una maggiore (e forse migliore) comprensione del genere umano.

Una sfida mortale

Arrivato alla soglia dei 20 articoli su questo blog, mi sono reso conto che, rispetto alle promesse iniziali, ho trascurato quello che doveva essere l’argomento principale, ossia le storie del Ciclo del Marinaio. Inizio a rimediare a questa mancanza raccontando della sfida fra il principe Erfea e il terribile drago femmina (draghessa non mi convince) Morluin. Buona lettura!

La bellissima illustrazione in copertina mi è stata gentilmente fornita dal bravissimo illustratore Emauele Manfredi: potrete ammirare altre creazioni di questo artista alla sua pagina facebook: https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/

«Rapida si diffuse nell’isola la notizia che Erfea avrebbe affrontato il Grande Verme; la gente accorreva dalle campagne e dai porti per mirare il folle che avrebbe affrontato Morluin, quando molte voci si levarono dalle navi, angosciose, trasformando l’entusiasmo dilagante in terrore: “Fuggite, fuggite, il Grande Drago è qui!”. Il panico si impadronì allora degli spettatori, che corsero a rifugiarsi all’interno degli edifici del porto, fino a che tutte le banchine non rimasero deserte. Il cielo si incupì, lentamente le tenebre strisciarono dall’Ovest e l’ultima luce si spense tra i ruggiti del mare tempestoso: la notte si approssimava, tuttavia Morluin non si contorceva più nella sua furia, ma attendeva, osservando i volti dei Numenoreani nascosti, deridendone la paura, schiacciandone le menti con il suo odio feroce.

La notte avanzava, ma Erfea ancora indugiava nei pressi del porto, invisibile agli occhi dei presenti; sentì le sue membra tendersi verso lo sforzo finale, mentre con le rapide dita si allacciava l’armatura di suo padre Gilnar.

Una pallida Luna si levò all’orizzonte, mentre l’ira del mare non accennava a placarsi, ruggendo contro le navi e i porti di Numenor, sferzando i legni con la fresca spuma dell’Oceano.

Giunto infine alle rive del crudele mare, Erfea levò una preghiera a Manwe: “O signore dei cieli, delle aquile e dei venti tempestosi! Ascolta le mie invocazioni, affinché in questo frangente la tua forza sia la mia, il tuo coraggio il mio, e la tua lama la mia: rapida si appresta l’ora della pugna, e lontano dalla soglia di casa mi strappa rapace la morte traditrice dagli occhi funesti e dalle ali nere. A te, che conosci il destino di ogni Uomo, affido questa supplica, affinché il mio fato non si compia tra il mare e la città in questa oscura notte. Tuttavia, se tale deve essere la conclusione del mio viaggio, per cui più avrò la possibilità di rivedere la bianca spuma di Osse e ascoltare il canto lamentoso dei gabbiani, ebbene fa che il disonore non colga il mio corpo e la mia isola”.

Aveva da poco terminato questa invocazione, quando il mare ruggì nuovamente, ed ecco, il sinuoso collo di Morluin apparve in tutta la sua grandezza; troppo a lungo aveva atteso e ora la sua rabbia era cresciuta, simile a quella del fiume, quando rotti gli argini, semina morte nella verde campagna. Crudele il pensiero del Grande Verme, e agili le sue membra, ché molto aveva appreso della natura degli uomini e numerosi erano i suoi poteri; tuttavia alla vista di Erfea, piccola ombra sotto una Luna inquieta, non poté trattenersi dal ridere, mentre pronunciava parole di scherno e di odio: “Salute a te guerriero numenoreano! Codardi a tal punto sono diventati gli Uomini di quest’isola, razza infime, da inviarmi come loro paladino, il più giovane fra quanti impugnano le armi? Non nego, Numenoreano, che grande è il piacere che provo nello scorgere la tua paura strisciare fuori dal tuo cuore per ghermirti; come un leone afferra la sua preda, quando questa crede di essere al sicuro nella sua tana, così io colpirò voi tutti!”

Così parlò e le sue parole erano veleno per le orecchie degli stolti, che strisciarono via in fretta, lasciando Erfea silente, come l’aurora a Oriente: ed ecco egli estrasse la sua spada e fu una luce nelle tenebre; tuttavia non l’alzò contro il Grande Verme, ma la tenne vicino al suo forte petto, come la rosa che l’amato stringe a sé per non abbandonare all’oblio i dolci pensieri che il suo cuore nutre.

Furente allora lo guardò Morluin e mai nessun Grande Verme odiò con tanta ferocia un mortale, fin dai tempi in cui Turin Turambar incontrò e uccise il padre di tutti i draghi; rapida tuttavia l’ira si dileguò e Morluin diventò fredda, ché l’avvicinarsi dell’alba l’aveva placata e ora attendeva come un serpente nella sua tana il malcapitato essere che vi sarebbe caduto: era ancora forte e l’odore del sangue lo chiamava sé. “Ben mi avvedo, guerriero, del tuo coraggio e della tua forza: lascia che io ti dia il premio che ti sei così meritato. Ti proporrò tre enigmi; se a essi saprai dare la giusta risposta, io mi dichiarerò vinta e abbandonerò Numenor. Sappi però che se la tua risposta sarà sbagliata o attesa da lungo tempo, niente sarà in grado di arrestare la mia ira”.

“Comincia, dunque – replicò Erfea – ti ascolto”.

Morluin rifletté alcuni istanti, poi formulò il primo dei quesiti: “Dimmi, allora, qual è l’albero che ha le foglie tinte di nero su una superficie e di bianco sull’altra?”

Erfea rimase in silenzio, fissando la Luna sull’orizzonte, poi, sospirando rispose: “Drago, l’albero di cui tu parli è il tempo, ché Ithil illumina nella notte un verso, mentre le luminose dita di Anor sfiorano l’altro al mattino. Non è forse questa la giusta risposta alla tua domanda? Rispondi, dunque!”

Imperturbabile rimase Morluin, come il duro ghiaccio nei gelidi antri delle terre dei Lossoth: “Ecco, dunque, il mio secondo enigma, o mortale. Prima degli Elfi immortali furono creati, ma già nati, vennero alla luce in seguito”. Sorrise, il cuore malvagio di Morluin, perché questo era un segreto noto solo a pochi tra gli immortali, i quali però non ne facevano volentieri parola con i membri delle altre stirpi.

Erfea, tuttavia, aveva conosciuto molti Eldar, quando, ancora ragazzo, giungevano da Valinor la splendente, a bordo di vascelli dorati e argentati, recando doni di là di ogni immaginazione e racconti dei Tempi Remoti, in gran parte sconosciuti agli Uomini di Numenor: leggende di epoche precedenti al ritorno dei Noldor nella Terra di Mezzo e alla guerra dei Silmaril, quando ancora Ungoliant non aveva fatto scempio degli Alberi di Varda e il loro nettare fluiva negli alti tronchi. Molto aveva appreso Erfea dagli Eldar e dai loro poemi di conoscenza, e ora la sua memoria, spinta dal bisogno, rintracciò la giusta risposta:

“Drago, sono i Figli di Aule, quelli che tu chiami Priminati. E invero quanto dici non è lungi dalla verità, ed essi furono davvero i primi esseri del mondo creati dal volere degli dei; tuttavia, poiché diversamente aveva disposto Eru Iluvatar, e il loro momento non era ancora giunto, i Nani dormirono nella roccia, come le braci che ardono sempre vive sotto la caliginosa cenere del focolare. Non è forse questa la risposta giusta? Rispondimi, dunque!”

Morluin lo fissò a lungo, quasi a voler misurare con il suo sguardo l’abilità e l’intelligenza che il Numenoreano opponeva alla sua volontà; eppure ella non cedette, ché le forze non le erano venute meno e la sfida era ancora lungi dall’essere conclusa:

“Ecco, dunque, il mio terzo e ultimo quesito, o mortale: quali nomi ebbero in vita i nove Spettri degli Anelli? Lesta sia la tua risposta, ché la notte muore, mentre la mia ira cresce impetuosa”.

Letale era stata la domanda di Morluin, perché, finanche nelle terre di Numenor, obliati erano i nomi e le stirpi degli Uomini che un tempo si appropriarono dei Nove Anelli del Potere, svanendo così nel mondo delle tenebre.

Chino, divenne allora il capo di Erfea; allora, grande, invero, fu la gioia di Morluin, ché lesse negli occhi del suo avversario il timore e l’incertezza. Come serpe dal crudele veleno, così il Grande Verme avvolse le sue spire attorno alle gambe del Numenoreano; già la sua mente gustava il dolce sapore del suo crudele inganno, quando, rapida come la prima luce del giorno, così la lama di Erfea le squarciò le carni.

Terrore e meraviglia presero Morluin, che mai nessuno tra i figli di Eru aveva osato infliggerle un colpo tanto potente, da spezzare la sua corazza intessuta di diamanti e rubini, penetrando all’interno; alto squillò il corno del figlio della casata degli Hyarrostar, che con tali parole si rivolse al nemico ormai vinto: “Verme di Morgoth, ascolta ora la risposta che Erfea, figlio di Gilnar, intende dare. Fallace e ingannevole è stata la tua domanda, ed ecco ora tu ti chini su di me, simile a un leone che si getta sul cervo non ancora sconfitto. Non sarò io la tua preda, né alcuno di questa isola, perché morte è la risposta che ti devo. Quale vita può, infatti, esistere nell’ombra? Quale nome può avere chi non più vive? Tutto questo viene con la morte obliato, mentre se qualcosa di noi sopravvive, come un seme all’interno della terra, ecco, esso germoglierà solo se nella vita abbiamo contribuito a dargli il giusto sostentamento. Non vi è speme nell’odio, né odio nel sacrificio supremo. Allontanati, dunque, servo di Morgoth! Ritorna alle profondità oceaniche!”

Folle di rabbia, sconfitta proprio nel momento in cui sembrava aver trionfato, Morluin agitò la coda tra gli spasmi del dolore, finché tra maledizioni e imprecazioni, si allontanò da Numenor, inabissandosi nell’oscuro pelago. Mai più avrebbe turbato l’isola del dono, con la sua ferocia e la sua ira, servo di Morgoth e di Sauron dei tempi remoti; si narra che per molti anni a venire, dinanzi alla spiaggia di Andunie, si potesse ascoltare ancora l’eco della rabbia e della collera di Morluin, vinto da Erfea, principe di Numenor, quando ancora le stelle splendevano pure e limpida era agli occhi dei mortali la bianca spiaggia di Tol Eressea di là dei mari del mondo».