Una sfida mortale

Arrivato alla soglia dei 20 articoli su questo blog, mi sono reso conto che, rispetto alle promesse iniziali, ho trascurato quello che doveva essere l’argomento principale, ossia le storie del Ciclo del Marinaio. Inizio a rimediare a questa mancanza raccontando della sfida fra il principe Erfea e il terribile drago femmina (draghessa non mi convince) Morluin. Buona lettura!

La bellissima illustrazione in copertina mi è stata gentilmente fornita dal bravissimo illustratore Emauele Manfredi: potrete ammirare altre creazioni di questo artista alla sua pagina facebook: https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/

«Rapida si diffuse nell’isola la notizia che Erfea avrebbe affrontato il Grande Verme; la gente accorreva dalle campagne e dai porti per mirare il folle che avrebbe affrontato Morluin, quando molte voci si levarono dalle navi, angosciose, trasformando l’entusiasmo dilagante in terrore: “Fuggite, fuggite, il Grande Drago è qui!”. Il panico si impadronì allora degli spettatori, che corsero a rifugiarsi all’interno degli edifici del porto, fino a che tutte le banchine non rimasero deserte. Il cielo si incupì, lentamente le tenebre strisciarono dall’Ovest e l’ultima luce si spense tra i ruggiti del mare tempestoso: la notte si approssimava, tuttavia Morluin non si contorceva più nella sua furia, ma attendeva, osservando i volti dei Numenoreani nascosti, deridendone la paura, schiacciandone le menti con il suo odio feroce.

La notte avanzava, ma Erfea ancora indugiava nei pressi del porto, invisibile agli occhi dei presenti; sentì le sue membra tendersi verso lo sforzo finale, mentre con le rapide dita si allacciava l’armatura di suo padre Gilnar.

Una pallida Luna si levò all’orizzonte, mentre l’ira del mare non accennava a placarsi, ruggendo contro le navi e i porti di Numenor, sferzando i legni con la fresca spuma dell’Oceano.

Giunto infine alle rive del crudele mare, Erfea levò una preghiera a Manwe: “O signore dei cieli, delle aquile e dei venti tempestosi! Ascolta le mie invocazioni, affinché in questo frangente la tua forza sia la mia, il tuo coraggio il mio, e la tua lama la mia: rapida si appresta l’ora della pugna, e lontano dalla soglia di casa mi strappa rapace la morte traditrice dagli occhi funesti e dalle ali nere. A te, che conosci il destino di ogni Uomo, affido questa supplica, affinché il mio fato non si compia tra il mare e la città in questa oscura notte. Tuttavia, se tale deve essere la conclusione del mio viaggio, per cui più avrò la possibilità di rivedere la bianca spuma di Osse e ascoltare il canto lamentoso dei gabbiani, ebbene fa che il disonore non colga il mio corpo e la mia isola”.

Aveva da poco terminato questa invocazione, quando il mare ruggì nuovamente, ed ecco, il sinuoso collo di Morluin apparve in tutta la sua grandezza; troppo a lungo aveva atteso e ora la sua rabbia era cresciuta, simile a quella del fiume, quando rotti gli argini, semina morte nella verde campagna. Crudele il pensiero del Grande Verme, e agili le sue membra, ché molto aveva appreso della natura degli uomini e numerosi erano i suoi poteri; tuttavia alla vista di Erfea, piccola ombra sotto una Luna inquieta, non poté trattenersi dal ridere, mentre pronunciava parole di scherno e di odio: “Salute a te guerriero numenoreano! Codardi a tal punto sono diventati gli Uomini di quest’isola, razza infime, da inviarmi come loro paladino, il più giovane fra quanti impugnano le armi? Non nego, Numenoreano, che grande è il piacere che provo nello scorgere la tua paura strisciare fuori dal tuo cuore per ghermirti; come un leone afferra la sua preda, quando questa crede di essere al sicuro nella sua tana, così io colpirò voi tutti!”

Così parlò e le sue parole erano veleno per le orecchie degli stolti, che strisciarono via in fretta, lasciando Erfea silente, come l’aurora a Oriente: ed ecco egli estrasse la sua spada e fu una luce nelle tenebre; tuttavia non l’alzò contro il Grande Verme, ma la tenne vicino al suo forte petto, come la rosa che l’amato stringe a sé per non abbandonare all’oblio i dolci pensieri che il suo cuore nutre.

Furente allora lo guardò Morluin e mai nessun Grande Verme odiò con tanta ferocia un mortale, fin dai tempi in cui Turin Turambar incontrò e uccise il padre di tutti i draghi; rapida tuttavia l’ira si dileguò e Morluin diventò fredda, ché l’avvicinarsi dell’alba l’aveva placata e ora attendeva come un serpente nella sua tana il malcapitato essere che vi sarebbe caduto: era ancora forte e l’odore del sangue lo chiamava sé. “Ben mi avvedo, guerriero, del tuo coraggio e della tua forza: lascia che io ti dia il premio che ti sei così meritato. Ti proporrò tre enigmi; se a essi saprai dare la giusta risposta, io mi dichiarerò vinta e abbandonerò Numenor. Sappi però che se la tua risposta sarà sbagliata o attesa da lungo tempo, niente sarà in grado di arrestare la mia ira”.

“Comincia, dunque – replicò Erfea – ti ascolto”.

Morluin rifletté alcuni istanti, poi formulò il primo dei quesiti: “Dimmi, allora, qual è l’albero che ha le foglie tinte di nero su una superficie e di bianco sull’altra?”

Erfea rimase in silenzio, fissando la Luna sull’orizzonte, poi, sospirando rispose: “Drago, l’albero di cui tu parli è il tempo, ché Ithil illumina nella notte un verso, mentre le luminose dita di Anor sfiorano l’altro al mattino. Non è forse questa la giusta risposta alla tua domanda? Rispondi, dunque!”

Imperturbabile rimase Morluin, come il duro ghiaccio nei gelidi antri delle terre dei Lossoth: “Ecco, dunque, il mio secondo enigma, o mortale. Prima degli Elfi immortali furono creati, ma già nati, vennero alla luce in seguito”. Sorrise, il cuore malvagio di Morluin, perché questo era un segreto noto solo a pochi tra gli immortali, i quali però non ne facevano volentieri parola con i membri delle altre stirpi.

Erfea, tuttavia, aveva conosciuto molti Eldar, quando, ancora ragazzo, giungevano da Valinor la splendente, a bordo di vascelli dorati e argentati, recando doni di là di ogni immaginazione e racconti dei Tempi Remoti, in gran parte sconosciuti agli Uomini di Numenor: leggende di epoche precedenti al ritorno dei Noldor nella Terra di Mezzo e alla guerra dei Silmaril, quando ancora Ungoliant non aveva fatto scempio degli Alberi di Varda e il loro nettare fluiva negli alti tronchi. Molto aveva appreso Erfea dagli Eldar e dai loro poemi di conoscenza, e ora la sua memoria, spinta dal bisogno, rintracciò la giusta risposta:

“Drago, sono i Figli di Aule, quelli che tu chiami Priminati. E invero quanto dici non è lungi dalla verità, ed essi furono davvero i primi esseri del mondo creati dal volere degli dei; tuttavia, poiché diversamente aveva disposto Eru Iluvatar, e il loro momento non era ancora giunto, i Nani dormirono nella roccia, come le braci che ardono sempre vive sotto la caliginosa cenere del focolare. Non è forse questa la risposta giusta? Rispondimi, dunque!”

Morluin lo fissò a lungo, quasi a voler misurare con il suo sguardo l’abilità e l’intelligenza che il Numenoreano opponeva alla sua volontà; eppure ella non cedette, ché le forze non le erano venute meno e la sfida era ancora lungi dall’essere conclusa:

“Ecco, dunque, il mio terzo e ultimo quesito, o mortale: quali nomi ebbero in vita i nove Spettri degli Anelli? Lesta sia la tua risposta, ché la notte muore, mentre la mia ira cresce impetuosa”.

Letale era stata la domanda di Morluin, perché, finanche nelle terre di Numenor, obliati erano i nomi e le stirpi degli Uomini che un tempo si appropriarono dei Nove Anelli del Potere, svanendo così nel mondo delle tenebre.

Chino, divenne allora il capo di Erfea; allora, grande, invero, fu la gioia di Morluin, ché lesse negli occhi del suo avversario il timore e l’incertezza. Come serpe dal crudele veleno, così il Grande Verme avvolse le sue spire attorno alle gambe del Numenoreano; già la sua mente gustava il dolce sapore del suo crudele inganno, quando, rapida come la prima luce del giorno, così la lama di Erfea le squarciò le carni.

Terrore e meraviglia presero Morluin, che mai nessuno tra i figli di Eru aveva osato infliggerle un colpo tanto potente, da spezzare la sua corazza intessuta di diamanti e rubini, penetrando all’interno; alto squillò il corno del figlio della casata degli Hyarrostar, che con tali parole si rivolse al nemico ormai vinto: “Verme di Morgoth, ascolta ora la risposta che Erfea, figlio di Gilnar, intende dare. Fallace e ingannevole è stata la tua domanda, ed ecco ora tu ti chini su di me, simile a un leone che si getta sul cervo non ancora sconfitto. Non sarò io la tua preda, né alcuno di questa isola, perché morte è la risposta che ti devo. Quale vita può, infatti, esistere nell’ombra? Quale nome può avere chi non più vive? Tutto questo viene con la morte obliato, mentre se qualcosa di noi sopravvive, come un seme all’interno della terra, ecco, esso germoglierà solo se nella vita abbiamo contribuito a dargli il giusto sostentamento. Non vi è speme nell’odio, né odio nel sacrificio supremo. Allontanati, dunque, servo di Morgoth! Ritorna alle profondità oceaniche!”

Folle di rabbia, sconfitta proprio nel momento in cui sembrava aver trionfato, Morluin agitò la coda tra gli spasmi del dolore, finché tra maledizioni e imprecazioni, si allontanò da Numenor, inabissandosi nell’oscuro pelago. Mai più avrebbe turbato l’isola del dono, con la sua ferocia e la sua ira, servo di Morgoth e di Sauron dei tempi remoti; si narra che per molti anni a venire, dinanzi alla spiaggia di Andunie, si potesse ascoltare ancora l’eco della rabbia e della collera di Morluin, vinto da Erfea, principe di Numenor, quando ancora le stelle splendevano pure e limpida era agli occhi dei mortali la bianca spiaggia di Tol Eressea di là dei mari del mondo».

 

 

5 pensieri riguardo “Una sfida mortale

    1. Sì, ti confermo che Morluin era un drago d’acqua. Credo fosse lunga 40 metri (si trattava di un esemplare piuttosto anziano). Non aveva le ali, era più simile a un gigantesco serpente di mare.

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