Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria

Riprendo il discorso che avevo iniziato alcuni giorni fa in merito alle difficoltà di Tolkien di scrivere storie nelle quali gli Uomini la fanno da protagonisti. Non si tratta di una scelta penalizzante nei confronti della sola razza umana: come è emerso dai commenti seguiti alla pubblicazione della prima parte di questo articolo, Tolkien riconosceva pregi e difetti a tutte le razze della Terra di Mezzo: gli Hobbit hanno la tendenza al provincialismo, i Nani all’avidità dei metalli e delle gemme preziose, gli Elfi sono angosciati dalla necessità di preservare lo status quo, gli Uomini aspirano al dominio del Creato e sulle altre razze. Indubbiamente, tuttavia, la stirpe dei Secondogeniti gode di un bonus prezioso che non detiene nessun’altra razza nella Terra di Mezzo, ad eccezione (forse) degli Hobbit: non è legata al destino di Arda. Forse a causa di questa peculiarità, gli Uomini non si fanno troppo scrupoli a sfruttare le risorse naturali delle loro contrade, con il rischio di trasformarle in veri e propri deserti: basti pensare ai disboscamenti effettuati dai Numenoreani nella Seconda Era al fine di costruire la loro possente flotta. Gli Elfi, al contrario, e anche i Nani (basti pensare al dialogo fra Gimli e Legolas sulle Caverne scintillanti) avvertono un vincolo più forte nei confronti della Terra, alla quale attribuiscono maggior rispetto. Sotto questo particolare punto di vista, dunque, le simpatie di Tolkien non possono andare alla stirpe umana: basti pensare alla sua nota idiosincrasia nei confronti del progresso tecnologico fine a sè stesso, in grado solo di portare seco uno sviluppo economico diseguale.

Mi rendo conto, tuttavia, di non aver ancora affrontato la questione legata al titolo di questo articolo, ragion per cui proseguo nel mio intento rievocando una questione abbastanza nota ai lettori del professore inglese, ossia la nota antipatia che egli ebbe nei confronti dell’allegoria: nella lettera 181, riportata ne “La Realtà in Trasparenza”, così l’autore del Signore degli Anelli tacitava l’idea che il suo romanzo fosse una gigantesca allegoria dei tempi coevi: «Perché io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria, o dalla satira (quando è elevata) o dal realismo, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte».

Riporto questa lettera non tanto perché voglia soffermarmi su una questione già ampiamente dibattuta, ossia il carattere non-allegorico del Signore degli Anelli, quanto per avanzare un’ipotesi nuova: potrebbe il rifiuto di scrivere storie allegoriche legarsi in qualche modo alle difficoltà espresse nello scrivere storie degli uomini?

Per illustrare in modo più convincente questa mia ipotesi, ricorderò che Tolkien, pur ammirando da esperto filologo e docente qual era le opere di Dante, non riusciva a apprezzare l’idea base della Divina Commedia, ossia l’allegoria. Gli uomini e le donne che il sommo poeta incontra nelle tre cantiche rappresentano vizi e virtù del genere umano: sono realmente esistiti o, quantomeno, lo erano per l’epoca nella quale visse Dante (vedi Ulisse e altri personaggi semi-mitologici). Ciò che mi chiedo è se scrivere degli Uomini senza tuttavia considerare l’allegoria, anche all’interno di un contesto fantastico quale può essere la Terra di Mezzo, sia, nei fatti, molto problematico: una difficoltà nella quale potrebbe essersi imbattuto lo stesso Tolkien. Egli, infatti, commentando, ad esempio, la divisione dei Numenoreani in due fazioni (fedeli ai Valar e fedeli ai sovrani imperialisti), non mancava di far notare come la costituzione di due partiti sull’isola di Numenor nascesse dall’impossibilità per gli uomini di vivere in modo armonioso senza problemi e che la presenza di fazioni portasse inevitabilmente al conflitto (come in effetti a Numenor avvenne). Pensiamo tuttavia a come Dante seppe tratteggiare alcuni dei più affascinanti personaggi della Divina Commedia, pur sapendo bene che erano della parte avversa alla sua: un nome su tutti spicca, quello di Farinata degli Uberti, ghibellino fiorentino (Dante era guelfo). Tolkien sembra avvertire le suddivisioni degli uomini in modo sofferto, quasi a voler evitare di prendere una scelta a favore degli uni e degli altri: lo stesso ruolo di Sauron, portato in catene a Numenor, non è solo quello di corrompere Ar-Pharazon (cosa che effettivamente si verifica), quanto quello di seminare zizzania tra poveri e ricchi, tra ceti sociali diversi. La sensazione che si riceve, a questo proposito, è quella di un forte disagio avvertito dall’autore: non perché egli voglia difendere in alcun modo Sauron e i suoi accoliti, ovviamente, quanto perché una caratterizzazione più approfondita di queste lotte porterebbe inevitabilmente – tale è il mio pensiero – a una soluzione allegorica. Ho come la sensazione che scrivere degli Uomini, a partire dal contesto di riferimento – fantastico, fantascientifico, realistico o utopistico che sia – conduca l’autore, in quanto umano a sua volta, a rovesciare, non sempre in modo conscio, la propria esperienza, il proprio vissuto e, soprattutto, la sua coscienza dell’epoca nella quale vive, nei personaggi creati dalla sua penna. Mettersi nei panni di Elfi, Nani ed Hobbit, al contrario, può risultare più facile perché si parte da condizioni “esterne all’umanità” per così dire: per fare qualche esempio, gli Elfi sono immortali e sono legati al destino di Arda; le anime dei Nani si reincarnano periodicamente nei propri discendenti; gli Hobbit, infine, pur essendo mortali, non percepiscono il peso della morte come gli Uomini (o almeno Tolkien non ci presenta Hobbit con tali paure) e così via. Lucidamente Tolkien ripudia l’allegoria; ho tuttavia l’impressione che così facendo, in fondo, abbia allontanato da sè e dai suoi scritti una maggiore (e forse migliore) comprensione del genere umano.