Uno dei personaggi più oscuri e quindi più interessanti del corpus tolkieniano è senza dubbio Oropher, il re (Sinda) degli Elfi Silvani di Bosco Verde il Grande nel corso della Seconda Era. Dai pochi accenni che troviamo nei racconti di Tolkien apprendiamo che Oropher fu il padre di Thranduil e che guidò le sue genti dalle regioni meridionali della grande foresta della Terra di Mezzo verso le caverne nelle quali Bilbo, un’era dopo, avrebbe vissuto una rocambolesca avventura. Nei «Racconti Incompiuti» si legge che Oropher aveva optato per questa migrazione «per affrancarsi dal potere e dalle usurpazioni dei Nani di Moria […] inoltre, era irritato per le interferenze di Celeborn e Galadriel nel Lorien» [RI, p. 349]. Oropher morì conducendo le sue truppe, insieme a quelle di Malgalad (ossia Amdir) re del Lorien, contro gli eserciti di Sauron al termine della Seconda Era. Tolkien si sofferma brevemente sulla sua morte, limitandosi a specificare come non corresse buon sangue tra lui e Gil-Galad, dinanzi al quale non intendeva piegare il proprio capo. Un segno, questo, inequivocabile della frattura insita all’interno delle forze dell’Ultima Alleanza, le cui origini si ricollocavano direttamente alla grande avversione – scaturita dalle vicende della Prima Era – esistente fra esuli Noldorin e Sindar.
Per queste ragioni ho provato a immaginare quali ragioni spinsero Oropher e i suoi elfi ad agire in modo autonomo rispetto alle altre schiere elfiche dell’Ultima Alleanza, nel tentativo di caratterizzare un personaggio «tragico», cui si contrappone l’altro elfo Sinda a capo di una schiera di Silvani, ossia Amdir di Lorien. Si tratta di un brano piuttosto lungo, che spero possa piacervi e suscitare i vostri commenti. Buona lettura!
«Grande fu l’inquietudine che sorse allora negli animi dei Comandanti dell’Alleanza ed essi presero a mormorare che il Nemico avrebbe tosto invaso i loro accampamenti; tuttavia, sebbene i cuori di tutti fossero provati da timore, pure nessuno fra loro si dimostrò più pronto a recepire tali sentimenti nel suo animo di Oropher, sovrano degli Elfi che dimorano all’ombra dei vetusti faggi che si estendono nelle remote e selvagge contrade di Bosco Verde il Grande; estese erano le sue schiere ed egli sovente si lamentava con il proprio erede Thranduil di non poter affrontare in campo aperto gli schiavi di Mordor: “Grande rammarico prova il mio cuore nell’osservare che le nostre armate, riluttanti, attendono in tale desolata landa i servi dell’Avversario, mentre i Signori degli Eldar discutono nelle loro lussuose dimore di arcane e futili questioni. Alleati e non già asserviti furono i nostri soldati allorché pronunciarono il fiero giuramento di sconfiggere Sauron o di perire nel tentativo di compiere tale impresa; per quale ragione, dunque, dovremmo attendere che sia il figlio di Fingon a comandare le nostre schiere?”
Ostile ai Noldor era il cuore del sovrano di Bosco Verde il Grande ed egli temeva i Naugrim di Khazad-Dum, ché nella sua mente era ancora vivido il ricordo del bieco assassinio di Thingol e della rovina del Doriath; Thranduil, tuttavia, sebbene nel suo animo nutrisse sentimenti simili a quelli del padre, era però più accorto e lungimirante, sicché presagiva che le armate del suo popolo avrebbero subito una dura sconfitta se avessero osato affrontare i veterani guerrieri di Mordor senza alcun aiuto: a eccezione della Guardia del sovrano, infatti, nessun altro guerriero era dotato di armature in metallo e di cavalli, risultando pertanto vulnerabile agli attacchi dei crudeli Esterling e dei possenti Haradrim.
Caute parole e saggi ammonimenti pronunciava allora il figlio di Oropher alle orecchie del suo signore e per qualche tempo parve che la concordia regnasse ancora nel cuore del re; tuttavia, alcuni fra i Noldor più arroganti e infidi, presero a sussurrare al cuore di Gil-Galad parole codarde e subdole, sicché l’animo dell’Alto Re dei Noldor fu colmo di sdegno e di ira. […]
Sorpresa e timore turbarono i Secondogeniti, ché ignoravano i motivi per i quali vi era sì discordia tra i Sindar e i Noldor, e umiliati erano gli spiriti dei Nani della stirpe di Khazad- Dum, ché essi non avevano preso parte a quelle vicende e pur avendone serbato ricordo, si rifiutavano di espiare colpe mai commesse; a tale discordia si giunse, che un dì Oropher apostrofò Gil-Galad con tali parole di scherno e perfidia: “Signore degli Eldar, grande sarebbe la mia vergogna e palese il mio disonore, allorché scoprissi che vi sia, nel mio accampamento, Elfo o Uomo sì saldo nel cuore e nella mente da muovere guerra agli eserciti di Mordor e io avessi tema di seguirne il glorioso cammino”.
Molti fra i comandanti si sorpresero allorché udirono tali parole di sfida e alcuni presero a mormorare che presto il sangue sarebbe corso tra gli stessi guerrieri dell’Alleanza; fredda fu tuttavia la risposta che Gil-Galad pronunciò in quell’ora: “Invero, vi sono al mondo numerosi signori e condottieri, gli uni ricolmi di codardia, gli altri di arroganza; la fama non è estranea ai loro destini, ché i primi la conquistano ergendosi sopra i corpi di coloro che sacrificano per i loro abietti scopi, i secondi innalzando i loro vessilli sui campi di battaglia; io non desidero, però, obliare che questa guerra non è condotta per acquisire gloria personale, bensì per un diverso scopo. Se, dunque, qualcuno tra voi crede che gli eserciti di Mordor dormano, ignari, all’ombra dei poderosi cancelli del Morannon, vada pure a disturbarne la quiete; sappia, tuttavia, che nessuno in questa sala offrirà la propria spada per un simile scopo”.
Furente, Oropher osservò l’Alto Re dei Noldor e non avrebbe tardato a rispondere con grande veemenza a tali parole, se in quel frangente non si fosse levato dal suo scranno Cirdan, saggio fra i Sindar e custode di Narya, l’Anello del fuoco: “Non desidero che il sangue dei Primogeniti sia sparso ancor prima che le nostre armate incrocino le proprie lame con quelle dei servi dell’Avversario; se tale è il tuo pensiero, Oropher, affronta pure gli Orchi e le altre creature delle Tenebre che formicolano nei segreti pertugi e nelle anguste torri del Morannon, ché nessuno ostacolerà il tuo cammino; abbi cura, tuttavia, prima di intraprendere tale periglioso sentiero, che le dimore della tua gente siano ben protette, ché il nero artiglio di Sauron protende le sue crudeli grinfie al Nord e non dubito che oserebbe colpire la tua reggia, mentre il tuo esercito otterrà gloria e morte sui campi di battaglia”.
Dubbio sorse allora nell’animo di Oropher, ed egli avrebbe forse desistito dallo sfidare le armate di Mordor, se in quel momento non avesse fatto il suo trafelato ingresso un messaggero, con il volto ornato dalle lacrime e dal sangue, mormorando parole che ai più parvero incomprensibili; lesto, tuttavia, lo soccorse Elendil, Sovrano degli Uomini e udì quanto l’Elfo aveva voluto rivelargli; sospirò, infine gli accarezzò dolcemente il viso, ché l’esploratore gli era spirato tra le braccia.
A lungo ristette in silenzio, infine, rivolgendo il pensoso sguardo a coloro che gli erano accanto, parlò ad alta voce, sicché le sue parole furono udite da tutti in quella dimora: “Battaglioni dell’Occhio sono stati avvistati nelle contrade a Sud e a Est rispetto alla nostra posizione; alcuni Elfi sono stati catturati e torturati dai servi del Nemico e i loro cadaveri giacciono, abbandonati alle fiere e ai corvi, dinanzi alle porte dei nostri quartieri invernali”.
Un penoso silenzio scese fra coloro che ascoltarono quelle parole, interrotto solo dal respiro affannoso di Oropher, al quale fecero ben presto eco le parole che Amdir, sovrano di Lorien pronunciò:
“A che pro dovremmo, Cirdan di Lindon, desistere dal muovere guerra ai servi del Nemico, dal momento che essi compiono tali efferati atti? Sterili si sono dimostrati i tuoi consigli, ché l’Oscuro Signore sterminerà il nostro popolo se le schiere dell’Alleanza non saranno in grado di contrastarne la violenza e la malizia: pure, se le nostre esistenze saranno un giorno tutelate dalle poderose mura che cingono Osgiliath, Annuminas o Khazad-Dum, non sembrerà a noi, che già una volta fummo esiliati dalle nostre terre, di bussare nuovamente, mendichi, alle porte di coloro che in passato turbarono le nostre esistenze o si opposero ai nostri voleri, umiliando senza ragione alcuna i nostri spiriti? Non vi sono, infatti, fortificazioni che possano arrestare l’ira di Sauron dinanzi alle nostre contrade; qualora gli alberi fossero abbattuti e l’intera foresta data alle fiamme, noi rimarremmo inermi e senza alcuna difesa nei confronti degli Ulairi e delle loro armate; non sarebbe dunque preferibile perire in scontro aperto, piuttosto che subire l’umiliazione, da un lato, di dover volgere la terga al nemico e dall’altro, di permettere che avvengano simili atti nefasti senza opporre a essi null’altro che la nostra sterile voce?”.
Lesto si levò allora Erfea dal suo scranno e pronunciò tali parole: “Fra quanti sono comandanti delle schiere delle Libere Genti, mi sembra, tuttavia, che solo i Signori degli Elfi Silvani stiano adoperando la voce per scagliare velenosi strali verso coloro che, pur comprendendo la rabbia che attanaglia i loro cuori, sono ben consci dell’impossibilità di sconfiggere le armate di Mordor senza alcuna arma eccetto la propria vanagloria”.
Parole non seppe replicare Amdir, ed egli chinò il capo, essendo il suo spirito roso da un grande dubbio; saggi erano gli ammonimenti di Erfea, né il Signore di Lorien desiderava che vi fosse inimicizia tra la sua stirpe e quella dei Dunedain; i medesimi sentimenti, tuttavia, non erano condivisi da Oropher ed egli abbandonò il consiglio, seguito dal figlio e dai suoi capitani. […]
Nei giorni successivi, rapidi come le nubi in Autunno, corsero false voci, alimentate dal timore e dal rancore che cuori pavidi presero a nutrire; si mormorò, infatti, che una poderosa e feroce armata di Orchi ed Esterling avrebbe tosto percorso la strada che conduceva all’antico Bosco Verde il Grande, ché Sauron si faceva beffa delle luminose schiere dell’Alleanza e riteneva indecoroso sfidarne il nerbo in uno scontro campale; riluttanti furono tuttavia i Capitani dell’Ovest a concedere credito a tali voci, ché ben comprendevano come messaggeri infidi avessero diffuso tali voci all’interno degli accampamenti e presero a curarsi poco di quanto i servi di Sauron operavano; rabbia sovvenne allora nel cuore di Oropher, ché aveva compreso il parere degli altri comandanti dell’Alleanza e si avvedeva che essi non condividevano i suoi medesimi timori: tosto egli si recò dunque dal suo consanguineo, Amdir di Lorien e, all’orecchio di costui, prese a sussurrare i suoi pensieri reconditi.
Il dubbio sorse allora nel cuore di Amdir; eppure, mai egli avrebbe dovuto prestare ascolto e fede alla parole che il sovrano degli Elfi di Bosco Verde il Grande diffondeva in gran segreto, ché esse erano frutto della malizia di Sauron e dei suoi Ulairi: tuttavia, forte era nel cuore del Sinda la nostalgia per le contrade che aveva abbandonato mesi prima ed egli aveva giurato riluttante, ché presagiva sarebbero giunte perigliose sventure per i Primogeniti se essi avessero preso parte alla guerra fra i Dunedain e i servi di Mordor; pure, ancor più forte era nel suo cuore la minaccia delle armate dell’Oscuro Signore ed egli desiderava porre fine alle devastazioni che la sua contrada aveva subito a opera delle legioni dei Nazgul.
“Se le nostre schiere marciassero contro quelle del Nemico, o figlio del Doriath, credi che esse conseguirebbero la vittoria? I nostri soldati non posseggono che fragili archi e deboli lance, né essi sono gli eredi di un popolo guerriero, ché i Silvani hanno sempre vissuto all’ombra delle grandi querce e non hanno mai preso parte alle vicende degli orgogliosi Noldor e dei giovani Dunedain. Non desidero che le vite della mia gente siano consumate dalla medesima ambizione che avvizzisce il tuo animo”.
L’ira avvampò allora nel cuore di Oropher; tuttavia, con grande fatica egli la dissimulò e si rivolse al suo interlocutore con parole più miti: “Se i tuoi occhi fossero ciechi e la tua lingua traditrice, ecco che sciocchi sarebbero i miei ammonimenti e la mia amicizia ti verrebbe meno, ché non potrei tollerare che un sovrano dei Primogeniti fosse sì codardo nel cuore e nella mente; tuttavia, niente, se non i vacui consigli di coloro che ci assicurarono la loro Alleanza, salvo poi venire meno a essa allorché non furono più le loro contrade a essere lambite dai crudeli schiavi di Sauron, potrebbe trattenerti dal pronunciare ferma condanna degli intenti di costoro.
Naugrim militano nelle loro schiere ed essi si rivolgono ai nostri guerrieri con cortesi parole, pronunciate nella medesima lingua di costoro; eppure, non fu forse detto che Sauron in persona sedusse gli sfortunati fabbri Elfici dell’Eregion camuffando i suoi crudeli intenti con sembiante piacevole a vedersi e con sagge parole? Quale signore fra i Noldor e i Dunedain può giurare che i Naugrim, come già avvenne in passato, non verranno meno alla parola data e trucideranno il nostro popolo impunemente? Costoro, eredi di una razza che lo stesso Iluvatar mai avrebbe gradito venisse al mondo, asseriscono di non aver mai preso parte a tali misfatti e che la loro amicizia nei confronti delle stirpi dei Sindar è leale; eppure, annientati gli eserciti di Mordor, non rivolgerebbero forse la loro attenzione su quanto i loro occhi bramano possedere?”
Si interruppe per un attimo, quasi che temesse che orecchie indiscrete fossero in ascolto, infine proseguì e la sua voce fu solo un sussurro nella gelida notte: “Non ritieni che ambita preda sarebbe per Durin IV, rinchiuso nei suoi gelidi antri sotterranei, la cattura degli Anelli degli Elfi? Ben conosciamo quali Signori fra gli Eldar possiedono tali artifizi e mai il nostro cuore è stato sfiorato dall’idea di possederne uno, sebbene molto i nostri regni abbisognino di essi; eppure, se cadessero nelle bieche e rapaci mani dei Naugrim, allora costoro si impadronirebbero delle nostre contrade e ove vi fosse l’albero in fiore, la loro cupidigia lo tramuterebbe in legna da ardere per le loro lugubri fornaci”.
Poco amore vi era nel cuore di Amdir per i figli di Aule e nella sua mente non era mai svanito il ricordo del sacco delle antiche dimore del Doriath perpetrato da costoro; eppure, egli era lungimirante e si avvedeva di quanto le parole che Oropher aveva pronunziato in preda alla collera, avrebbero procurato gravi lutti al suo popolo, se fossero state tramutate in azioni; pure, nel suo animo cresceva il timore per quanto Oropher gli aveva rivelato, e a fatica dissimulò, nel rispondergli, quanto il suo cuore nutriva:
“Se quanto dici corrispondesse al vero, pure molti dei Priminati perirebbero e non rivedrebbero più le scure sale di Lorien e di Bosco Verde il Grande; non ritieni che i nostri popoli avrebbero molto a soffrire per quanto accadrebbe se le nostre armate fossero sterminate e noi fossimo costretti a far ritorno alle nostre dimore come furtivi ladri nella notte, derubati dell’onore e della maestà dei Primogeniti?
“Ben dici, Amdir, allorché affermi che grande sarebbe la nostra vergogna se tornassimo alle nostre dimore simili a pallide ombre della gloria degli Elfi; eppure, maggior sarebbe il nostro disonore se dinanzi ai Cancelli Neri il nostro coraggio venisse meno e il timore si insinuasse nei nostri animi”.
“Vorresti dunque venire meno al giuramento stretto a Orthanc? Vorresti che Eru Iluvatar, sul quale abbiamo solennemente giurato, punisca la nostra arroganza e invidia? Perigliose sarebbero le conseguenze di un tale gesto, ché una morte ignominiosa piomberebbe sui nostri corpi ed essi si consumerebbero insepolti nella calura della steppa di Mordor”.
Per un attimo Oropher parve vacillare, infine parlò nuovamente e la sua mente fu ottenebrata dalla follia: “Pure, i nostri corpi altro non sono che il simulacro di gloriosi spiriti che nessuna punizione temono, eccetto la vergogna! Grande sarà la stima che i nostri atti acquisteranno dinanzi agli occhi dei Valar e di Colui che è Sopra Arda, ché non è venire meno al giuramento fatto conseguirlo percorrendo altri percorsi quali i vili Noldor non ambiscono seguire”.
Pallido, il volto di Amdir espresse il suo palese turbamento; allora, presa la mano di Oropher, egli pronunziò un ultimo accorato appello alla sua ragione: “Non credi che infausto sarebbe il destino di tuo figlio, se, morti i nostri corpi e allontanatisi i nostri spiriti, dovesse egli assumere la reggenza di una contrada quale le altre stirpi guarderanno sempre con astio, pronunciando aspre parole allorché ne percorreranno i segreti sentieri?”
A lungo esitò Oropher, ché invero amava il suo unico erede e mai avrebbe tollerato che il suo destino fosse segnato da un volere quale egli non avrebbe tollerato e vi fu chi, nei secoli successivi, affermò che mai nessuna sventura sarebbe caduta sul popolo dei Silvani se Thranduil non fosse improvvisamente apparso dinanzi a suo padre, in assetto di guerra: fosco era il suo volto e la consueta tunica che egli indossava era stata sostituita da una grigia cotta di maglia, mentre un bianco elmo ne copriva l’imponente capo. Gravi furono le parole che pronunziò in quell’ora buia il figlio di Oropher, ché esse decretarono la sorte di coloro che avevano permesso una simile follia:
“Non vi è soldato, o Amdir di Lorien, che potrebbe arretrare; non vi sarà, infatti, nessun’altra Osgiliath che potrebbe concederci tempo e speme sufficienti per poter ritenere che le armate del Nemico siano impossibilitate ad addentrarsi nelle nostre amene contrade; qui sarà la nostra difesa, qui il sepolcro di ogni speranza se il nostro destino sarà morte; eppure, ove altro potremmo trovare la salvezza se non nei nostri usberghi di maglia?”.
Cedette allora Amdir, ché egli non desiderava lo sprezzo dei suoi parenti e temeva che se avesse abbandonato Oropher maggiori sarebbero state le sventure per la sua stirpe, il cui marchio dinanzi agli altri popoli sarebbe stato quello della vergogna; allora, riluttante, chiamò a gran voce i suoi capitani, eppure un’ombra era scesa sul suo animo ed egli non osava mirare i volti dei Condottieri dell’Alleanza, costernati, sebbene non sorpresi per quanto stesse accadendo.
Squilli gravi furono uditi echeggiare in tutto l’accampamento e i Silvani presero ad armarsi; non una voce si levò nell’aria, eccetto quelle dei Capitani di tale stirpe e severi erano gli sguardi che volgevano a essi i Dunedain e i Noldor; pure, Elrond, non poté esimersi dal lanciare loro un ultimo accorato appello:
“Soldati di Lorien e delle contrade del Nord, prestatemi ascolto! Non comprendete quanto la volontà dei vostri signori sia divenuta folle? Con una mano costoro vi spingono verso la gloria, con l’altra vi gettano nell’Abisso di coloro che riposo non hanno! Restate presso coloro che non hanno ancora obliato saggezza e lungimiranza, ché il diritto al comando che i vostri sovrani hanno acquisito non è certo equiparato all’arte di comandare!”
Sprezzante risuonò allora il riso di Oropher e la sua eco risuonò a lungo: “È concesso essere timidi e vili a coloro che possono far ritorno alle loro amene contrade, consci che la loro terra e i loro campi accoglieranno costoro nella fuga; voi, invece, siete costretti a essere soldati coraggiosi, ché non vi sarà altra scelta fra una gloriosa vittoria sulle schiere di Mordor o, se la sorte sarà contraria ai nostri voleri, una morte onorevole in battaglia, anzichè una fuga disperata. Sappiate questo, o schiere di Primogeniti: nessun’ altra arma i Valar hanno concesso ai loro figli per ottenere la vittoria se non il disprezzo della morte stessa”.
Pure – replicò Elrond – se tale fosse il vostro destino e il Fato vi sorridesse, dovreste sfidare le oscure schiere di Sauron racchiuse nella sua nera torre; non possedete altra arma se non il vostro folle coraggio, né i possenti manieri di Barad-Dur cederanno dinanzi alla vostra vanagloria”.
Avvampò allora il cuore di Thranduil ed egli spronò le sue schiere con parole di odio e arroganza intrise: “A lungo i Noldor vi hanno impedito di mostrare il vostro virile coraggio, ché essi credono la nostra stirpe inferiore fra quante si destarono sulle sponde del Cuivienen; eppure, se si eccettua il solo fulgore del nome della schiera di Finwe, che cosa rimane perché essi non possano essere paragonati a noi? Chi venne meno alla parola data, trucidando i nostri parenti nelle gelide acque di Valinor, allorché il mondo era giovane? Chi obbligò con la forza il padre mio ad abbandonare le ricche e fertili contrade dell’Eregion per favorire coloro che condussero alla rovina il Doriath? Non furono forse i Noldor, la cui stirpe è macchiata da innumerevoli crimini contro i Figli di Iluvatar? Poiché mi sembra chiaro che guerrieri valorosi come voi non abbiano alcuna tema di obbedire ai migliori – ché solo in questo, infatti, sta il vincolo della fedeltà – allora saldi saranno i vostri animi, ché essi saranno condotti alla vittoria da capitani valorosi quali sono i Signori dei Silvani!”
Alte grida di approvazione si levarono da entrambe le armate, e i guerrieri si apprestarono a schierarsi fuori le porte dell’accampamento; penoso era tuttavia lo sguardo che Amdir, sire del Lorien, rivolgeva ai comandanti dell’Alleanza e nei loro volti lesse la morte; allora si voltò un’ultima volta e a Gil-Galad rivolse queste parole di commiato: “Addio, Alto re dei Noldor in esilio! Non ti domando pietà e comprensione per i miei insensati atti, ché non ne comprenderesti i motivi, eppure vorrei che la mia gente trovasse ospitalità presso i Popoli Liberi, qualora la rovina dovesse piombare su di noi”.
Annuì lentamente il figlio di Fingon, infine così si rivolse al sovrano dei Silvani: “Alcuni fra noi sono soliti dire che sovente la verità è misconosciuta; sappi, tuttavia, che essa non si spegne mai. Colui che avrà disprezzato la gloria, otterrà la vera gloria. Lascia pure che invece di prudente ti chiamino vile, invece di riflessivo, pigro; invece di esperto capitano ti chiamino codardo. Non lasciar perdere l’occasione a te favorevole, ma non offrire a tua volta l’occasione al nemico”.
Parole non seppe adoperare Amdir per replicare al sovrano dei Noldor e il suo destriero si allontanò tristemente nelle brume dell’alba; silenziose e intimorite dalle lugubri ombre che dagli Ered Lithui si propagavano nelle piane di Mordor, le schiere dei Silvani marciavano spedite, ché esse non recavano seco carichi gravosi e nessun nemico si opponeva loro: eppure, Sauron era vigile, ché invisibili spie seguivano gli spostamenti degli Avari ed essi riferivano ogni cosa al Signore degli eserciti della piana di Udun e del Cancello Nero, Dwar di Waw, Terzo fra i Nove Spettri dell’Anello; costui, allora, condusse una grande armata di Orchi dinanzi alla pianura che si estendeva al di là degli oscuri cancelli di Mordor, premurandosi, tuttavia, di tenere alla retroguardia mille mastini e segugi da combattimento; altresì, diede ordini affinché i mumakil di Indur fossero schierati sul fianco destro, protetti e occultati dall’enorme mole degli Ered Lithui e attese che il nemico osasse avvicinarsi dinanzi ai neri cancelli.
Tre giorni durò la marcia delle schiere di Lorien e di Bosco Verde il Grande attraverso distese arse dal Sole e malsani acquitrini; infine, all’alba del quarto giorno, essi giunsero dinanzi alle fortezze del Morannon e ivi si arrestarono, impauriti, ché non pareva loro fosse possibile che Sauron avesse edificato simili manieri, la cui vetta lambiva le volte del remoto cielo, i cui colori erano offuscati dai miasmi e dai veleni che da levante si levavano; tuttavia, essendo profondamente radicata nei cuori dei condottieri la volontà di muovere guerra al Signore degli Anelli, essi mossero avanti e schierarono le armate secondo i propri desideri; i guerrieri di Oropher furono posti all’avanguardia, ché essi erano alti e feroci e la precisione delle loro frecce mortale; in seconda linea, Amdir dispose i suoi soldati, raccomandando ai suoi capitani di tenere salde le fila e di non temere l’oscurità incipiente; infine, l’esigua cavalleria fu schierata alla retroguardia, decisione, questa, che suscitò non poche sorprese e perplessità fra i soldati, ché essa solitamente era adoperata per proteggere i fianchi dell’esercito. Oropher, tuttavia, placò ogni loro timore, asserendo che le armate di Mordor, dopo essere state falcidiate dagli arcieri, sarebbero state travolte dall’impeto dei destrieri del Nord e il loro destino sarebbe stato segnato; né aggiunse, vi era possibilità che il Nemico attaccasse su uno dei fianchi, dal momento che il terreno era impervio e i Moriquendi avrebbero avuto il tempo di disturbare ogni azione fosse giunta dall’ala sinistra o destra, essendosi schierati su un altopiano che la lenta azione della natura aveva eroso nel corso delle ere.
Infine, allorché ogni discussione parve essere terminata, le trombe presero a squillare e le schiere degli Avari e dei Sindar attesero l’urto delle armate di Sauron; non dovettero tuttavia indugiare a lungo, ché tosto lugubri olifanti furono uditi riecheggiare in basso e comparvero Orchi imponenti, pesantemente armati e schierati su linee compatte; un presagio parve questo a Oropher, ché egli si avvide che le schiere del Nemico sarebbero state alla sua mercé; rapide, infatti, le frecce degli arcieri Elfici si abbatterono sui servi di Sauron trucidandoli in gran numero, sicché essi presero a sbandarsi e vi fu chi tra i Primogeniti sussurrò che la vittoria sarebbe giunta presto: allora un grande urlo si levò dalle schiere di Oropher ed esse avanzarono a passo di carica, venendo a scontrarsi con i soldati di Mordor; costoro, sbigottiti dalla rabbia che animava i Silvani e i Sindar, si dispersero e il sire di Bosco Atro diede disposizioni affinché la cavalleria caricasse i superstiti e inviò rapidi messaggeri all’Alleanza, ché, reso orgoglioso del suo immanente trionfo, desiderava condividere tale gloria con chi non l’aveva assecondato.
Il terrore si impadronì delle schiere di Sauron allorché compresero che la cavalleria del nemico era su di loro; esse si dispersero, consentendo all’avanguardia dei Sindar, comandata da Thranduil, di mirare le possenti fortificazioni del Morannon da una distanza quale mai nessuno fra coloro che avevano giurato a Orthanc aveva mai eguagliato; breve fu tuttavia il loro entusiasmo, ché, per la seconda volta, furono udite riecheggiare le lugubri fortificazioni del Morannon e nuove schiere del Nemico si avventarono su di loro; erano costoro i segugi di Dwar ed egli ora gioiva nel profondo del suo cuore nero, ché ogni cosa era andata realizzandosi secondo la sua volontà: infatti, giunti dinanzi al Morannon, i guerrieri dell’Alleanza furono travolti dai mastini che costui aveva allevato nella Terra Nera e nell’isola di Waw, né essi poterono opporre a tale armata alcuna difesa, ché le loro deboli lance furono frantumate dalle mandibole di tali bestie ed erano loro troppo vicini per poter adoperare gli archi; essi furono dunque costretti a retrocedere, subendo numerose perdite, ché i loro corpi non erano protetti da alcuna armatura in ferro, e, sebbene fossero stati i cavalieri i primi a imbattersi nei segugi del Nazgul e avendo, unici fra tutti, usberghi in maglia di acciaio, pure i loro cavalli furono presi dal panico e la loro carica si tramutò in una disperata ritirata, che travolse alleati e avversari.
Giunse la Tenebra e le voci degli Ulairi si levarono in tutta la loro orrida potenza, sicché Oropher condusse le sue armate sulle precedenti posizioni; saggia si rivelò allora tale manovra, ché gli arcieri di Amdir furono lesti a ricevere i mastini di Dwar, crivellandoli di colpi, sicché le bestie dovettero retrocedere, atterrite dalla furia delle schiere di Lorien; nuova speme sorse allora nel cuore di Oropher e di Amdir ed essi radunarono i loro fanti, mentre i superstiti cavalieri si schierarono ai lati, impedendo che i segugi di Mordor potessero cogliere loro alla retroguardia; per qualche tempo essi dunque resistettero, così assediati, e parve che nessuno fra i servi del Maia Caduto potesse loro impedire di tenere la posizione senza indietreggiare; pure, i piani di Dwar erano lungi dall’attuarsi, ché, verso la seconda ora della notte, egli inviò cavalcalupi a Indur affinché conducesse i suoi mumakil contro il fianco sinistro dei Primogeniti.
Nulla avrebbe potuto sospettare Oropher di quanto stava per accadere, né egli aveva mai mirato i possenti animali provenienti dalle remote contrade dell’Harad e del Khand; atterriti, i suoi soldati furono spazzati via dalla ferocia delle armate di Indur, quarto in possanza fra coloro che servono l’Occhio: egli stesso fu trafitto da un dardo che un capitano Haradrim aveva scagliato dal suo imponente baldacchino d’oro e avorio intarsiato e vacillò; lesta, la morte predatrice l’avrebbe colto, se in quell’ora oscura non fosse apparso – nessuno avrebbe potuto dire da quale contrada proveniente – Morwin, il fabbro sire di Edhellond in esilio.
“Elwen, Elwen!” urlava il Noldo e i servi di Mordor indietreggiavano innanzi a lui, ché grande era la sua furia ed essi temevano la maestria con cui manovrava la sua nera lama; logori erano ormai divenuti i suoi abiti, ché aveva trascorso innumerevoli anni nelle steppe e nei deserti di Endor e il suo sembiante era spaventoso a vedersi. Morwin sollevò con forza il corpo di Oropher e lo trasse fuori dalla mischia, infine abbatté con un colpo portentoso un mumakil che incombeva minaccioso sopra il suo capo: in preda al panico, Orchi e altre creature abbandonarono la preda. Non fuggì tuttavia Dwar, ché odio sorse nel suo nero animo e, celere, levò la sua mazza forgiata nell’acciaio di Hent sovra il capo del principe Noldo, il quale, impegnato a sostenere l’attacco di un Troll, non si avvide del Nazgul alle sue spalle; con violenza si abbattè allora la pesante arma di colui che i suoi seguaci chiamavano Signore dei Cani, sicché l’elmo e il capo di Morwin furono frantumati ed egli perì, non prima di aver inferto un mortale colpo al basso ventre del Torog; allora il suo corpo fu dilaniato dalle bestie di Dwar, ché costui provava avversione verso colui che gli aveva impedito di ottenere la vittoria.
Oropher, sopravvissuto alla freccia dell’Haradrim, si avvide tuttavia che essa era stata intinta in un veleno quale mai la scienza del suo popolo avrebbe saputo curare; amaro rimorso provò allora nel suo morente cuore, ché si avvide che la fine era prossima e ogni sua azione destinata a fallire; lesto, allora, convocò a sé Thranduil, il quale resisteva con la forza della disperazione alle armate di Indur e Dwar e, ponendo la corona sul suo capo, così si congedò da lui: “Vani sono stati i nostri intendimenti e ancor più vana è stata ogni nostra azione; conduci, dunque, i superstiti del tuo popolo all’accampamento dell’Alleanza e pentiti di quanto il tuo cuore ha nutrito e nutre ancora, ché non vi sarà possibilità di vittoria, se non affronterete le schiere di Sauron uniti negli intenti e negli atti; troppo grande è infatti la ferocia e il numero delle schiere di Mordor e ben m’avvedo quanto sia stato folle il mio volere. La mia vista si annebbia e il ricordo di quanto fu svanisce lentamente dal mio cuore, tuttavia sappi che la salvezza giungerà da parte di coloro che noi a lungo odiammo”. Infine spirò e Thranduil fu chiamato re dai suoi sudditi e dagli Elfi del Lorien, ché nessuno sapeva quale fosse stato il destino di Amdir; si narra, tuttavia, che egli, gravemente ferito da un segugio di Dwar, fosse stato avvistato da Gilhith, un cavaliere della sua casa e che a costui avesse rivolto tali parole: “Addio, fratello! Ferito è il mio corpo ed esso non sopravvivrà alla notte incombente!”. Pietà sorse allora nel cuore del suo suddito e volentieri gli avrebbe ceduto il destriero, ché potesse salvarsi e condurre il suo popolo alla salvezza; ogni preghiera fu tuttavia vana, ché così gli parlò il sovrano del Lorien: “Innumerevoli vite sono state oggi spezzate a causa della mia debolezza d’animo, sicché non desidero che in vece mia debba sacrificarsi un altro Elfo”. Addolorato in volto, Gilhith allora gli si prostrò, e, presagli la mano, lo rincuorò con simili parole: “Mio signore, ben m’avvedo come crudele sia il fato, ché invano ti opponesti alla follia di Oropher e se lo seguisti fu solo per amore della sua stirpe; tuttavia, se tale sarà il tuo desiderio, ti condurrò ove le tue ferite saranno sanate e i tuoi giorni rinnovati”; fermo nel suo proposito restò però il sovrano del Lorien e lo congedò con amare parole: “Fuggi via da questo campo di battaglia e avvisa Gil-Galad, ché egli fortifichi il suo accampamento e si prepari allo scontro. Quanto a me – soggiunse pallido in volto – lascia pure che il mio corpo perisca in questa strage dei miei guerrieri, ché non si dica che io sia sopravvissuto laddove caddero Elfi ben più valorosi di me, o che io sia divenuto l’accusatore di un congiunto per difendere la mia innocenza con la colpa di un altro”. Restio ad abbandonare il corpo del sovrano era Gilhith, tuttavia il suo cavallo si impennò e lo condusse lontano dalla pugna, ché i destrieri Elfici, non avvezzi al penetrante odore dei possenti mumakil, non ne tolleravano la vicinanza; Amdir fu invece travolto dai corpi di costoro e la sua salma non fu mai più recuperata.
Feroce era divenuta la battaglia, ché ora gli Elfi combattevano non già per conquistare i Cancelli Neri, ma per difendere le loro stesse vite; a centinaia cadevano, trafitti dal ferro degli Haradrim o dai morsi crudeli dei mastini di Dwar; resosi conto di quanto accadeva, Thranduil condusse allora le schiere superstiti a Nord, seguendo un’antica strada che conduceva all’Anduin e di lì agli accampamenti dell’Alleanza: suo intento, infatti, era quello di far ritorno dal Re dei Noldor e di chiedere il suo perdono, ché aveva compreso quanto dolore avesse comportato la follia paterna. Lentamente, dunque, i Primogeniti presero a ritirarsi, confidando nella loro acuta vista per orientarsi nella notte; saggia era stata la manovra dell’erede di Oropher ed egli avrebbe condotto alla salvezza il suo popolo, se, improvvisa a oriente, non fosse sorta una Tenebra quale mai occhio Elfico avrebbe saputo penetrare; allora le schiere dei Silvani che erano alla retroguardia, disorientate e impaurite per quanto accadeva, smarrirono il percorso e si rifugiarono nelle paludi che si estendevano tra l’Anduin e gli Emyn Muil, illudendosi che i servi del Nemico non avrebbero mai avuto il coraggio di seguire le loro tracce in una contrada sì impervia, appesantiti com’erano dalle armature che recavano seco; speranza fallace fu tuttavia questa, ché, sebbene i mumakil non osassero approssimarsi alle paludi, temendo di sprofondare in esse, pure i segugi di Dwar si addentrarono nei canneti che si estendevano ovunque, seguiti da Orchi minuti nell’aspetto ma feroci nei comportamenti: ivi, caddero dunque quindicimila Elfi e tale strage non fu inferiore a nessun’altra, ché le armate di Lorien e di Bosco Verde il Grande furono decimate e solo un terzo di quanti avevano abbandonato le terre natie sopravvisse alla trappola che Dwar aveva teso loro».
Il Ciclo del Marinaio, pp. 319-335