Oropher o del cattivo Fato degli Elfi

Uno dei personaggi più oscuri e quindi più interessanti del corpus tolkieniano è senza dubbio Oropher, il re (Sinda) degli Elfi Silvani di Bosco Verde il Grande nel corso della Seconda Era. Dai pochi accenni che troviamo nei racconti di Tolkien apprendiamo che Oropher fu il padre di Thranduil e che guidò le sue genti dalle regioni meridionali della grande foresta della Terra di Mezzo verso le caverne nelle quali Bilbo, un’era dopo, avrebbe vissuto una rocambolesca avventura. Nei «Racconti Incompiuti» si legge che Oropher aveva optato per questa migrazione «per affrancarsi dal potere e dalle usurpazioni dei Nani di Moria […] inoltre, era irritato per le interferenze di Celeborn e Galadriel nel Lorien» [RI, p. 349]. Oropher morì conducendo le sue truppe, insieme a quelle di Malgalad (ossia Amdir) re del Lorien, contro gli eserciti di Sauron al termine della Seconda Era. Tolkien si sofferma brevemente sulla sua morte, limitandosi a specificare come non corresse buon sangue tra lui e Gil-Galad, dinanzi al quale non intendeva piegare il proprio capo. Un segno, questo, inequivocabile della frattura insita all’interno delle forze dell’Ultima Alleanza, le cui origini si ricollocavano direttamente alla grande avversione – scaturita dalle vicende della Prima Era – esistente fra esuli Noldorin e Sindar.

Per queste ragioni ho provato a immaginare quali ragioni spinsero Oropher e i suoi elfi ad agire in modo autonomo rispetto alle altre schiere elfiche dell’Ultima Alleanza, nel tentativo di caratterizzare un personaggio «tragico», cui si contrappone l’altro elfo Sinda a capo di una schiera di Silvani, ossia Amdir di Lorien. Si tratta di un brano piuttosto lungo, che spero possa piacervi e suscitare i vostri commenti. Buona lettura!

«Grande fu l’inquietudine che sorse allora negli animi dei Comandanti dell’Alleanza ed essi presero a mormorare che il Nemico avrebbe tosto invaso i loro accampamenti; tuttavia, sebbene i cuori di tutti fossero provati da timore, pure nessuno fra loro si dimostrò più pronto a recepire tali sentimenti nel suo animo di Oropher, sovrano degli Elfi che dimorano all’ombra dei vetusti faggi che si estendono nelle remote e selvagge contrade di Bosco Verde il Grande; estese erano le sue schiere ed egli sovente si lamentava con il proprio erede Thranduil di non poter affrontare in campo aperto gli schiavi di Mordor: “Grande rammarico prova il mio cuore nell’osservare che le nostre armate, riluttanti, attendono in tale desolata landa i servi dell’Avversario, mentre i Signori degli Eldar discutono nelle loro lussuose dimore di arcane e futili questioni. Alleati e non già asserviti furono i nostri soldati allorché pronunciarono il fiero giuramento di sconfiggere Sauron o di perire nel tentativo di compiere tale impresa; per quale ragione, dunque, dovremmo attendere che sia il figlio di Fingon a comandare le nostre schiere?”

Ostile ai Noldor era il cuore del sovrano di Bosco Verde il Grande ed egli temeva i Naugrim di Khazad-Dum, ché nella sua mente era ancora vivido il ricordo del bieco assassinio di Thingol e della rovina del Doriath; Thranduil, tuttavia, sebbene nel suo animo nutrisse sentimenti simili a quelli del padre, era però più accorto e lungimirante, sicché presagiva che le armate del suo popolo avrebbero subito una dura sconfitta se avessero osato affrontare i veterani guerrieri di Mordor senza alcun aiuto: a eccezione della Guardia del sovrano, infatti, nessun altro guerriero era dotato di armature in metallo e di cavalli, risultando pertanto vulnerabile agli attacchi dei crudeli Esterling e dei possenti Haradrim.

Caute parole e saggi ammonimenti pronunciava allora il figlio di Oropher alle orecchie del suo signore e per qualche tempo parve che la concordia regnasse ancora nel cuore del re; tuttavia, alcuni fra i Noldor più arroganti e infidi, presero a sussurrare al cuore di Gil-Galad parole codarde e subdole, sicché l’animo dell’Alto Re dei Noldor fu colmo di sdegno e di ira. […]

Sorpresa e timore turbarono i Secondogeniti, ché ignoravano i motivi per i quali vi era sì discordia tra i Sindar e i Noldor, e umiliati erano gli spiriti dei Nani della stirpe di Khazad- Dum, ché essi non avevano preso parte a quelle vicende e pur avendone serbato ricordo, si rifiutavano di espiare colpe mai commesse; a tale discordia si giunse, che un dì Oropher apostrofò Gil-Galad con tali parole di scherno e perfidia: “Signore degli Eldar, grande sarebbe la mia vergogna e palese il mio disonore, allorché scoprissi che vi sia, nel mio accampamento, Elfo o Uomo sì saldo nel cuore e nella mente da muovere guerra agli eserciti di Mordor e io avessi tema di seguirne il glorioso cammino”.

Molti fra i comandanti si sorpresero allorché udirono tali parole di sfida e alcuni presero a mormorare che presto il sangue sarebbe corso tra gli stessi guerrieri dell’Alleanza; fredda fu tuttavia la risposta che Gil-Galad pronunciò in quell’ora: “Invero, vi sono al mondo numerosi signori e condottieri, gli uni ricolmi di codardia, gli altri di arroganza; la fama non è estranea ai loro destini, ché i primi la conquistano ergendosi sopra i corpi di coloro che sacrificano per i loro abietti scopi, i secondi innalzando i loro vessilli sui campi di battaglia; io non desidero, però, obliare che questa guerra non è condotta per acquisire gloria personale, bensì per un diverso scopo. Se, dunque, qualcuno tra voi crede che gli eserciti di Mordor dormano, ignari, all’ombra dei poderosi cancelli del Morannon, vada pure a disturbarne la quiete; sappia, tuttavia, che nessuno in questa sala offrirà la propria spada per un simile scopo”.

Furente, Oropher osservò l’Alto Re dei Noldor e non avrebbe tardato a rispondere con grande veemenza a tali parole, se in quel frangente non si fosse levato dal suo scranno Cirdan, saggio fra i Sindar e custode di Narya, l’Anello del fuoco: “Non desidero che il sangue dei Primogeniti sia sparso ancor prima che le nostre armate incrocino le proprie lame con quelle dei servi dell’Avversario; se tale è il tuo pensiero, Oropher, affronta pure gli Orchi e le altre creature delle Tenebre che formicolano nei segreti pertugi e nelle anguste torri del Morannon, ché nessuno ostacolerà il tuo cammino; abbi cura, tuttavia, prima di intraprendere tale periglioso sentiero, che le dimore della tua gente siano ben protette, ché il nero artiglio di Sauron protende le sue crudeli grinfie al Nord e non dubito che oserebbe colpire la tua reggia, mentre il tuo esercito otterrà gloria e morte sui campi di battaglia”.

Dubbio sorse allora nell’animo di Oropher, ed egli avrebbe forse desistito dallo sfidare le armate di Mordor, se in quel momento non avesse fatto il suo trafelato ingresso un messaggero, con il volto ornato dalle lacrime e dal sangue, mormorando parole che ai più parvero incomprensibili; lesto, tuttavia, lo soccorse Elendil, Sovrano degli Uomini e udì quanto l’Elfo aveva voluto rivelargli; sospirò, infine gli accarezzò dolcemente il viso, ché l’esploratore gli era spirato tra le braccia.

A lungo ristette in silenzio, infine, rivolgendo il pensoso sguardo a coloro che gli erano accanto, parlò ad alta voce, sicché le sue parole furono udite da tutti in quella dimora: “Battaglioni dell’Occhio sono stati avvistati nelle contrade a Sud e a Est rispetto alla nostra posizione; alcuni Elfi sono stati catturati e torturati dai servi del Nemico e i loro cadaveri giacciono, abbandonati alle fiere e ai corvi, dinanzi alle porte dei nostri quartieri invernali”.

Un penoso silenzio scese fra coloro che ascoltarono quelle parole, interrotto solo dal respiro affannoso di Oropher, al quale fecero ben presto eco le parole che Amdir, sovrano di Lorien pronunciò:

“A che pro dovremmo, Cirdan di Lindon, desistere dal muovere guerra ai servi del Nemico, dal momento che essi compiono tali efferati atti? Sterili si sono dimostrati i tuoi consigli, ché l’Oscuro Signore sterminerà il nostro popolo se le schiere dell’Alleanza non saranno in grado di contrastarne la violenza e la malizia: pure, se le nostre esistenze saranno un giorno tutelate dalle poderose mura che cingono Osgiliath, Annuminas o Khazad-Dum, non sembrerà a noi, che già una volta fummo esiliati dalle nostre terre, di bussare nuovamente, mendichi, alle porte di coloro che in passato turbarono le nostre esistenze o si opposero ai nostri voleri, umiliando senza ragione alcuna i nostri spiriti? Non vi sono, infatti, fortificazioni che possano arrestare l’ira di Sauron dinanzi alle nostre contrade; qualora gli alberi fossero abbattuti e l’intera foresta data alle fiamme, noi rimarremmo inermi e senza alcuna difesa nei confronti degli Ulairi e delle loro armate; non sarebbe dunque preferibile perire in scontro aperto, piuttosto che subire l’umiliazione, da un lato, di dover volgere la terga al nemico e dall’altro, di permettere che avvengano simili atti nefasti senza opporre a essi null’altro che la nostra sterile voce?”.

Lesto si levò allora Erfea dal suo scranno e pronunciò tali parole: “Fra quanti sono comandanti delle schiere delle Libere Genti, mi sembra, tuttavia, che solo i Signori degli Elfi Silvani stiano adoperando la voce per scagliare velenosi strali verso coloro che, pur comprendendo la rabbia che attanaglia i loro cuori, sono ben consci dell’impossibilità di sconfiggere le armate di Mordor senza alcuna arma eccetto la propria vanagloria”.

Parole non seppe replicare Amdir, ed egli chinò il capo, essendo il suo spirito roso da un grande dubbio; saggi erano gli ammonimenti di Erfea, né il Signore di Lorien desiderava che vi fosse inimicizia tra la sua stirpe e quella dei Dunedain; i medesimi sentimenti, tuttavia, non erano condivisi da Oropher ed egli abbandonò il consiglio, seguito dal figlio e dai suoi capitani. […]

Nei giorni successivi, rapidi come le nubi in Autunno, corsero false voci, alimentate dal timore e dal rancore che cuori pavidi presero a nutrire; si mormorò, infatti, che una poderosa e feroce armata di Orchi ed Esterling avrebbe tosto percorso la strada che conduceva all’antico Bosco Verde il Grande, ché Sauron si faceva beffa delle luminose schiere dell’Alleanza e riteneva indecoroso sfidarne il nerbo in uno scontro campale; riluttanti furono tuttavia i Capitani dell’Ovest a concedere credito a tali voci, ché ben comprendevano come messaggeri infidi avessero diffuso tali voci all’interno degli accampamenti e presero a curarsi poco di quanto i servi di Sauron operavano; rabbia sovvenne allora nel cuore di Oropher, ché aveva compreso il parere degli altri comandanti dell’Alleanza e si avvedeva che essi non condividevano i suoi medesimi timori: tosto egli si recò dunque dal suo consanguineo, Amdir di Lorien e, all’orecchio di costui, prese a sussurrare i suoi pensieri reconditi.

Il dubbio sorse allora nel cuore di Amdir; eppure, mai egli avrebbe dovuto prestare ascolto e fede alla parole che il sovrano degli Elfi di Bosco Verde il Grande diffondeva in gran segreto, ché esse erano frutto della malizia di Sauron e dei suoi Ulairi: tuttavia, forte era nel cuore del Sinda la nostalgia per le contrade che aveva abbandonato mesi prima ed egli aveva giurato riluttante, ché presagiva sarebbero giunte perigliose sventure per i Primogeniti se essi avessero preso parte alla guerra fra i Dunedain e i servi di Mordor; pure, ancor più forte era nel suo cuore la minaccia delle armate dell’Oscuro Signore ed egli desiderava porre fine alle devastazioni che la sua contrada aveva subito a opera delle legioni dei Nazgul.

“Se le nostre schiere marciassero contro quelle del Nemico, o figlio del Doriath, credi che esse conseguirebbero la vittoria? I nostri soldati non posseggono che fragili archi e deboli lance, né essi sono gli eredi di un popolo guerriero, ché i Silvani hanno sempre vissuto all’ombra delle grandi querce e non hanno mai preso parte alle vicende degli orgogliosi Noldor e dei giovani Dunedain. Non desidero che le vite della mia gente siano consumate dalla medesima ambizione che avvizzisce il tuo animo”.

L’ira avvampò allora nel cuore di Oropher; tuttavia, con grande fatica egli la dissimulò e si rivolse al suo interlocutore con parole più miti: “Se i tuoi occhi fossero ciechi e la tua lingua traditrice, ecco che sciocchi sarebbero i miei ammonimenti e la mia amicizia ti verrebbe meno, ché non potrei tollerare che un sovrano dei Primogeniti fosse sì codardo nel cuore e nella mente; tuttavia, niente, se non i vacui consigli di coloro che ci assicurarono la loro Alleanza, salvo poi venire meno a essa allorché non furono più le loro contrade a essere lambite dai crudeli schiavi di Sauron, potrebbe trattenerti dal pronunciare ferma condanna degli intenti di costoro.

Naugrim militano nelle loro schiere ed essi si rivolgono ai nostri guerrieri con cortesi parole, pronunciate nella medesima lingua di costoro; eppure, non fu forse detto che Sauron in persona sedusse gli sfortunati fabbri Elfici dell’Eregion camuffando i suoi crudeli intenti con sembiante piacevole a vedersi e con sagge parole? Quale signore fra i Noldor e i Dunedain può giurare che i Naugrim, come già avvenne in passato, non verranno meno alla parola data e trucideranno il nostro popolo impunemente? Costoro, eredi di una razza che lo stesso Iluvatar mai avrebbe gradito venisse al mondo, asseriscono di non aver mai preso parte a tali misfatti e che la loro amicizia nei confronti delle stirpi dei Sindar è leale; eppure, annientati gli eserciti di Mordor, non rivolgerebbero forse la loro attenzione su quanto i loro occhi bramano possedere?”

Si interruppe per un attimo, quasi che temesse che orecchie indiscrete fossero in ascolto, infine proseguì e la sua voce fu solo un sussurro nella gelida notte: “Non ritieni che ambita preda sarebbe per Durin IV, rinchiuso nei suoi gelidi antri sotterranei, la cattura degli Anelli degli Elfi? Ben conosciamo quali Signori fra gli Eldar possiedono tali artifizi e mai il nostro cuore è stato sfiorato dall’idea di possederne uno, sebbene molto i nostri regni abbisognino di essi; eppure, se cadessero nelle bieche e rapaci mani dei Naugrim, allora costoro si impadronirebbero delle nostre contrade e ove vi fosse l’albero in fiore, la loro cupidigia lo tramuterebbe in legna da ardere per le loro lugubri fornaci”.

Poco amore vi era nel cuore di Amdir per i figli di Aule e nella sua mente non era mai svanito il ricordo del sacco delle antiche dimore del Doriath perpetrato da costoro; eppure, egli era lungimirante e si avvedeva di quanto le parole che Oropher aveva pronunziato in preda alla collera, avrebbero procurato gravi lutti al suo popolo, se fossero state tramutate in azioni; pure, nel suo animo cresceva il timore per quanto Oropher gli aveva rivelato, e a fatica dissimulò, nel rispondergli, quanto il suo cuore nutriva:

“Se quanto dici corrispondesse al vero, pure molti dei Priminati perirebbero e non rivedrebbero più le scure sale di Lorien e di Bosco Verde il Grande; non ritieni che i nostri popoli avrebbero molto a soffrire per quanto accadrebbe se le nostre armate fossero sterminate e noi fossimo costretti a far ritorno alle nostre dimore come furtivi ladri nella notte, derubati dell’onore e della maestà dei Primogeniti?

“Ben dici, Amdir, allorché affermi che grande sarebbe la nostra vergogna se tornassimo alle nostre dimore simili a pallide ombre della gloria degli Elfi; eppure, maggior sarebbe il nostro disonore se dinanzi ai Cancelli Neri il nostro coraggio venisse meno e il timore si insinuasse nei nostri animi”.

“Vorresti dunque venire meno al giuramento stretto a Orthanc? Vorresti che Eru Iluvatar, sul quale abbiamo solennemente giurato, punisca la nostra arroganza e invidia? Perigliose sarebbero le conseguenze di un tale gesto, ché una morte ignominiosa piomberebbe sui nostri corpi ed essi si consumerebbero insepolti nella calura della steppa di Mordor”.

Per un attimo Oropher parve vacillare, infine parlò nuovamente e la sua mente fu ottenebrata dalla follia: “Pure, i nostri corpi altro non sono che il simulacro di gloriosi spiriti che nessuna punizione temono, eccetto la vergogna! Grande sarà la stima che i nostri atti acquisteranno dinanzi agli occhi dei Valar e di Colui che è Sopra Arda, ché non è venire meno al giuramento fatto conseguirlo percorrendo altri percorsi quali i vili Noldor non ambiscono seguire”.

Pallido, il volto di Amdir espresse il suo palese turbamento; allora, presa la mano di Oropher, egli pronunziò un ultimo accorato appello alla sua ragione: “Non credi che infausto sarebbe il destino di tuo figlio, se, morti i nostri corpi e allontanatisi i nostri spiriti, dovesse egli assumere la reggenza di una contrada quale le altre stirpi guarderanno sempre con astio, pronunciando aspre parole allorché ne percorreranno i segreti sentieri?”

A lungo esitò Oropher, ché invero amava il suo unico erede e mai avrebbe tollerato che il suo destino fosse segnato da un volere quale egli non avrebbe tollerato e vi fu chi, nei secoli successivi, affermò che mai nessuna sventura sarebbe caduta sul popolo dei Silvani se Thranduil non fosse improvvisamente apparso dinanzi a suo padre, in assetto di guerra: fosco era il suo volto e la consueta tunica che egli indossava era stata sostituita da una grigia cotta di maglia, mentre un bianco elmo ne copriva l’imponente capo. Gravi furono le parole che pronunziò in quell’ora buia il figlio di Oropher, ché esse decretarono la sorte di coloro che avevano permesso una simile follia:

“Non vi è soldato, o Amdir di Lorien, che potrebbe arretrare; non vi sarà, infatti, nessun’altra Osgiliath che potrebbe concederci tempo e speme sufficienti per poter ritenere che le armate del Nemico siano impossibilitate ad addentrarsi nelle nostre amene contrade; qui sarà la nostra difesa, qui il sepolcro di ogni speranza se il nostro destino sarà morte; eppure, ove altro potremmo trovare la salvezza se non nei nostri usberghi di maglia?”.

Cedette allora Amdir, ché egli non desiderava lo sprezzo dei suoi parenti e temeva che se avesse abbandonato Oropher maggiori sarebbero state le sventure per la sua stirpe, il cui marchio dinanzi agli altri popoli sarebbe stato quello della vergogna; allora, riluttante, chiamò a gran voce i suoi capitani, eppure un’ombra era scesa sul suo animo ed egli non osava mirare i volti dei Condottieri dell’Alleanza, costernati, sebbene non sorpresi per quanto stesse accadendo.

Squilli gravi furono uditi echeggiare in tutto l’accampamento e i Silvani presero ad armarsi; non una voce si levò nell’aria, eccetto quelle dei Capitani di tale stirpe e severi erano gli sguardi che volgevano a essi i Dunedain e i Noldor; pure, Elrond, non poté esimersi dal lanciare loro un ultimo accorato appello:

“Soldati di Lorien e delle contrade del Nord, prestatemi ascolto! Non comprendete quanto la volontà dei vostri signori sia divenuta folle? Con una mano costoro vi spingono verso la gloria, con l’altra vi gettano nell’Abisso di coloro che riposo non hanno! Restate presso coloro che non hanno ancora obliato saggezza e lungimiranza, ché il diritto al comando che i vostri sovrani hanno acquisito non è certo equiparato all’arte di comandare!”

Sprezzante risuonò allora il riso di Oropher e la sua eco risuonò a lungo: “È concesso essere timidi e vili a coloro che possono far ritorno alle loro amene contrade, consci che la loro terra e i loro campi accoglieranno costoro nella fuga; voi, invece, siete costretti a essere soldati coraggiosi, ché non vi sarà altra scelta fra una gloriosa vittoria sulle schiere di Mordor o, se la sorte sarà contraria ai nostri voleri, una morte onorevole in battaglia, anzichè una fuga disperata. Sappiate questo, o schiere di Primogeniti: nessun’ altra arma i Valar hanno concesso ai loro figli per ottenere la vittoria se non il disprezzo della morte stessa”.

Pure – replicò Elrond – se tale fosse il vostro destino e il Fato vi sorridesse, dovreste sfidare le oscure schiere di Sauron racchiuse nella sua nera torre; non possedete altra arma se non il vostro folle coraggio, né i possenti manieri di Barad-Dur cederanno dinanzi alla vostra vanagloria”.

Avvampò allora il cuore di Thranduil ed egli spronò le sue schiere con parole di odio e arroganza intrise: “A lungo i Noldor vi hanno impedito di mostrare il vostro virile coraggio, ché essi credono la nostra stirpe inferiore fra quante si destarono sulle sponde del Cuivienen; eppure, se si eccettua il solo fulgore del nome della schiera di Finwe, che cosa rimane perché essi non possano essere paragonati a noi? Chi venne meno alla parola data, trucidando i nostri parenti nelle gelide acque di Valinor, allorché il mondo era giovane? Chi obbligò con la forza il padre mio ad abbandonare le ricche e fertili contrade dell’Eregion per favorire coloro che condussero alla rovina il Doriath? Non furono forse i Noldor, la cui stirpe è macchiata da innumerevoli crimini contro i Figli di Iluvatar? Poiché mi sembra chiaro che guerrieri valorosi come voi non abbiano alcuna tema di obbedire ai migliori – ché solo in questo, infatti, sta il vincolo della fedeltà – allora saldi saranno i vostri animi, ché essi saranno condotti alla vittoria da capitani valorosi quali sono i Signori dei Silvani!”

Alte grida di approvazione si levarono da entrambe le armate, e i guerrieri si apprestarono a schierarsi fuori le porte dell’accampamento; penoso era tuttavia lo sguardo che Amdir, sire del Lorien, rivolgeva ai comandanti dell’Alleanza e nei loro volti lesse la morte; allora si voltò un’ultima volta e a Gil-Galad rivolse queste parole di commiato: “Addio, Alto re dei Noldor in esilio! Non ti domando pietà e comprensione per i miei insensati atti, ché non ne comprenderesti i motivi, eppure vorrei che la mia gente trovasse ospitalità presso i Popoli Liberi, qualora la rovina dovesse piombare su di noi”.

Annuì lentamente il figlio di Fingon, infine così si rivolse al sovrano dei Silvani: “Alcuni fra noi sono soliti dire che sovente la verità è misconosciuta; sappi, tuttavia, che essa non si spegne mai. Colui che avrà disprezzato la gloria, otterrà la vera gloria. Lascia pure che invece di prudente ti chiamino vile, invece di riflessivo, pigro; invece di esperto capitano ti chiamino codardo. Non lasciar perdere l’occasione a te favorevole, ma non offrire a tua volta l’occasione al nemico”.

Parole non seppe adoperare Amdir per replicare al sovrano dei Noldor e il suo destriero si allontanò tristemente nelle brume dell’alba; silenziose e intimorite dalle lugubri ombre che dagli Ered Lithui si propagavano nelle piane di Mordor, le schiere dei Silvani marciavano spedite, ché esse non recavano seco carichi gravosi e nessun nemico si opponeva loro: eppure, Sauron era vigile, ché invisibili spie seguivano gli spostamenti degli Avari ed essi riferivano ogni cosa al Signore degli eserciti della piana di Udun e del Cancello Nero, Dwar di Waw, Terzo fra i Nove Spettri dell’Anello; costui, allora, condusse una grande armata di Orchi dinanzi alla pianura che si estendeva al di là degli oscuri cancelli di Mordor, premurandosi, tuttavia, di tenere alla retroguardia mille mastini e segugi da combattimento; altresì, diede ordini affinché i mumakil di Indur fossero schierati sul fianco destro, protetti e occultati dall’enorme mole degli Ered Lithui e attese che il nemico osasse avvicinarsi dinanzi ai neri cancelli.

Tre giorni durò la marcia delle schiere di Lorien e di Bosco Verde il Grande attraverso distese arse dal Sole e malsani acquitrini; infine, all’alba del quarto giorno, essi giunsero dinanzi alle fortezze del Morannon e ivi si arrestarono, impauriti, ché non pareva loro fosse possibile che Sauron avesse edificato simili manieri, la cui vetta lambiva le volte del remoto cielo, i cui colori erano offuscati dai miasmi e dai veleni che da levante si levavano; tuttavia, essendo profondamente radicata nei cuori dei condottieri la volontà di muovere guerra al Signore degli Anelli, essi mossero avanti e schierarono le armate secondo i propri desideri; i guerrieri di Oropher furono posti all’avanguardia, ché essi erano alti e feroci e la precisione delle loro frecce mortale; in seconda linea, Amdir dispose i suoi soldati, raccomandando ai suoi capitani di tenere salde le fila e di non temere l’oscurità incipiente; infine, l’esigua cavalleria fu schierata alla retroguardia, decisione, questa, che suscitò non poche sorprese e perplessità fra i soldati, ché essa solitamente era adoperata per proteggere i fianchi dell’esercito. Oropher, tuttavia, placò ogni loro timore, asserendo che le armate di Mordor, dopo essere state falcidiate dagli arcieri, sarebbero state travolte dall’impeto dei destrieri del Nord e il loro destino sarebbe stato segnato; né aggiunse, vi era possibilità che il Nemico attaccasse su uno dei fianchi, dal momento che il terreno era impervio e i Moriquendi avrebbero avuto il tempo di disturbare ogni azione fosse giunta dall’ala sinistra o destra, essendosi schierati su un altopiano che la lenta azione della natura aveva eroso nel corso delle ere.

Infine, allorché ogni discussione parve essere terminata, le trombe presero a squillare e le schiere degli Avari e dei Sindar attesero l’urto delle armate di Sauron; non dovettero tuttavia indugiare a lungo, ché tosto lugubri olifanti furono uditi riecheggiare in basso e comparvero Orchi imponenti, pesantemente armati e schierati su linee compatte; un presagio parve questo a Oropher, ché egli si avvide che le schiere del Nemico sarebbero state alla sua mercé; rapide, infatti, le frecce degli arcieri Elfici si abbatterono sui servi di Sauron trucidandoli in gran numero, sicché essi presero a sbandarsi e vi fu chi tra i Primogeniti sussurrò che la vittoria sarebbe giunta presto: allora un grande urlo si levò dalle schiere di Oropher ed esse avanzarono a passo di carica, venendo a scontrarsi con i soldati di Mordor; costoro, sbigottiti dalla rabbia che animava i Silvani e i Sindar, si dispersero e il sire di Bosco Atro diede disposizioni affinché la cavalleria caricasse i superstiti e inviò rapidi messaggeri all’Alleanza, ché, reso orgoglioso del suo immanente trionfo, desiderava condividere tale gloria con chi non l’aveva assecondato.

Il terrore si impadronì delle schiere di Sauron allorché compresero che la cavalleria del nemico era su di loro; esse si dispersero, consentendo all’avanguardia dei Sindar, comandata da Thranduil, di mirare le possenti fortificazioni del Morannon da una distanza quale mai nessuno fra coloro che avevano giurato a Orthanc aveva mai eguagliato; breve fu tuttavia il loro entusiasmo, ché, per la seconda volta, furono udite riecheggiare le lugubri fortificazioni del Morannon e nuove schiere del Nemico si avventarono su di loro; erano costoro i segugi di Dwar ed egli ora gioiva nel profondo del suo cuore nero, ché ogni cosa era andata realizzandosi secondo la sua volontà: infatti, giunti dinanzi al Morannon, i guerrieri dell’Alleanza furono travolti dai mastini che costui aveva allevato nella Terra Nera e nell’isola di Waw, né essi poterono opporre a tale armata alcuna difesa, ché le loro deboli lance furono frantumate dalle mandibole di tali bestie ed erano loro troppo vicini per poter adoperare gli archi; essi furono dunque costretti a retrocedere, subendo numerose perdite, ché i loro corpi non erano protetti da alcuna armatura in ferro, e, sebbene fossero stati i cavalieri i primi a imbattersi nei segugi del Nazgul e avendo, unici fra tutti, usberghi in maglia di acciaio, pure i loro cavalli furono presi dal panico e la loro carica si tramutò in una disperata ritirata, che travolse alleati e avversari.

Giunse la Tenebra e le voci degli Ulairi si levarono in tutta la loro orrida potenza, sicché Oropher condusse le sue armate sulle precedenti posizioni; saggia si rivelò allora tale manovra, ché gli arcieri di Amdir furono lesti a ricevere i mastini di Dwar, crivellandoli di colpi, sicché le bestie dovettero retrocedere, atterrite dalla furia delle schiere di Lorien; nuova speme sorse allora nel cuore di Oropher e di Amdir ed essi radunarono i loro fanti, mentre i superstiti cavalieri si schierarono ai lati, impedendo che i segugi di Mordor potessero cogliere loro alla retroguardia; per qualche tempo essi dunque resistettero, così assediati, e parve che nessuno fra i servi del Maia Caduto potesse loro impedire di tenere la posizione senza indietreggiare; pure, i piani di Dwar erano lungi dall’attuarsi, ché, verso la seconda ora della notte, egli inviò cavalcalupi a Indur affinché conducesse i suoi mumakil contro il fianco sinistro dei Primogeniti.

Nulla avrebbe potuto sospettare Oropher di quanto stava per accadere, né egli aveva mai mirato i possenti animali provenienti dalle remote contrade dell’Harad e del Khand; atterriti, i suoi soldati furono spazzati via dalla ferocia delle armate di Indur, quarto in possanza fra coloro che servono l’Occhio: egli stesso fu trafitto da un dardo che un capitano Haradrim aveva scagliato dal suo imponente baldacchino d’oro e avorio intarsiato e vacillò; lesta, la morte predatrice l’avrebbe colto, se in quell’ora oscura non fosse apparso – nessuno avrebbe potuto dire da quale contrada proveniente – Morwin, il fabbro sire di Edhellond in esilio.

“Elwen, Elwen!” urlava il Noldo e i servi di Mordor indietreggiavano innanzi a lui, ché grande era la sua furia ed essi temevano la maestria con cui manovrava la sua nera lama; logori erano ormai divenuti i suoi abiti, ché aveva trascorso innumerevoli anni nelle steppe e nei deserti di Endor e il suo sembiante era spaventoso a vedersi. Morwin sollevò con forza il corpo di Oropher e lo trasse fuori dalla mischia, infine abbatté con un colpo portentoso un mumakil che incombeva minaccioso sopra il suo capo: in preda al panico, Orchi e altre creature abbandonarono la preda. Non fuggì tuttavia Dwar, ché odio sorse nel suo nero animo e, celere, levò la sua mazza forgiata nell’acciaio di Hent sovra il capo del principe Noldo, il quale, impegnato a sostenere l’attacco di un Troll, non si avvide del Nazgul alle sue spalle; con violenza si abbattè allora la pesante arma di colui che i suoi seguaci chiamavano Signore dei Cani, sicché l’elmo e il capo di Morwin furono frantumati ed egli perì, non prima di aver inferto un mortale colpo al basso ventre del Torog; allora il suo corpo fu dilaniato dalle bestie di Dwar, ché costui provava avversione verso colui che gli aveva impedito di ottenere la vittoria.

Oropher, sopravvissuto alla freccia dell’Haradrim, si avvide tuttavia che essa era stata intinta in un veleno quale mai la scienza del suo popolo avrebbe saputo curare; amaro rimorso provò allora nel suo morente cuore, ché si avvide che la fine era prossima e ogni sua azione destinata a fallire; lesto, allora, convocò a sé Thranduil, il quale resisteva con la forza della disperazione alle armate di Indur e Dwar e, ponendo la corona sul suo capo, così si congedò da lui: “Vani sono stati i nostri intendimenti e ancor più vana è stata ogni nostra azione; conduci, dunque, i superstiti del tuo popolo all’accampamento dell’Alleanza e pentiti di quanto il tuo cuore ha nutrito e nutre ancora, ché non vi sarà possibilità di vittoria, se non affronterete le schiere di Sauron uniti negli intenti e negli atti; troppo grande è infatti la ferocia e il numero delle schiere di Mordor e ben m’avvedo quanto sia stato folle il mio volere. La mia vista si annebbia e il ricordo di quanto fu svanisce lentamente dal mio cuore, tuttavia sappi che la salvezza giungerà da parte di coloro che noi a lungo odiammo”. Infine spirò e Thranduil fu chiamato re dai suoi sudditi e dagli Elfi del Lorien, ché nessuno sapeva quale fosse stato il destino di Amdir; si narra, tuttavia, che egli, gravemente ferito da un segugio di Dwar, fosse stato avvistato da Gilhith, un cavaliere della sua casa e che a costui avesse rivolto tali parole: “Addio, fratello! Ferito è il mio corpo ed esso non sopravvivrà alla notte incombente!”. Pietà sorse allora nel cuore del suo suddito e volentieri gli avrebbe ceduto il destriero, ché potesse salvarsi e condurre il suo popolo alla salvezza; ogni preghiera fu tuttavia vana, ché così gli parlò il sovrano del Lorien: “Innumerevoli vite sono state oggi spezzate a causa della mia debolezza d’animo, sicché non desidero che in vece mia debba sacrificarsi un altro Elfo”. Addolorato in volto, Gilhith allora gli si prostrò, e, presagli la mano, lo rincuorò con simili parole: “Mio signore, ben m’avvedo come crudele sia il fato, ché invano ti opponesti alla follia di Oropher e se lo seguisti fu solo per amore della sua stirpe; tuttavia, se tale sarà il tuo desiderio, ti condurrò ove le tue ferite saranno sanate e i tuoi giorni rinnovati”; fermo nel suo proposito restò però il sovrano del Lorien e lo congedò con amare parole: “Fuggi via da questo campo di battaglia e avvisa Gil-Galad, ché egli fortifichi il suo accampamento e si prepari allo scontro. Quanto a me – soggiunse pallido in volto – lascia pure che il mio corpo perisca in questa strage dei miei guerrieri, ché non si dica che io sia sopravvissuto laddove caddero Elfi ben più valorosi di me, o che io sia divenuto l’accusatore di un congiunto per difendere la mia innocenza con la colpa di un altro”. Restio ad abbandonare il corpo del sovrano era Gilhith, tuttavia il suo cavallo si impennò e lo condusse lontano dalla pugna, ché i destrieri Elfici, non avvezzi al penetrante odore dei possenti mumakil, non ne tolleravano la vicinanza; Amdir fu invece travolto dai corpi di costoro e la sua salma non fu mai più recuperata.

Feroce era divenuta la battaglia, ché ora gli Elfi combattevano non già per conquistare i Cancelli Neri, ma per difendere le loro stesse vite; a centinaia cadevano, trafitti dal ferro degli Haradrim o dai morsi crudeli dei mastini di Dwar; resosi conto di quanto accadeva, Thranduil condusse allora le schiere superstiti a Nord, seguendo un’antica strada che conduceva all’Anduin e di lì agli accampamenti dell’Alleanza: suo intento, infatti, era quello di far ritorno dal Re dei Noldor e di chiedere il suo perdono, ché aveva compreso quanto dolore avesse comportato la follia paterna. Lentamente, dunque, i Primogeniti presero a ritirarsi, confidando nella loro acuta vista per orientarsi nella notte; saggia era stata la manovra dell’erede di Oropher ed egli avrebbe condotto alla salvezza il suo popolo, se, improvvisa a oriente, non fosse sorta una Tenebra quale mai occhio Elfico avrebbe saputo penetrare; allora le schiere dei Silvani che erano alla retroguardia, disorientate e impaurite per quanto accadeva, smarrirono il percorso e si rifugiarono nelle paludi che si estendevano tra l’Anduin e gli Emyn Muil, illudendosi che i servi del Nemico non avrebbero mai avuto il coraggio di seguire le loro tracce in una contrada sì impervia, appesantiti com’erano dalle armature che recavano seco; speranza fallace fu tuttavia questa, ché, sebbene i mumakil non osassero approssimarsi alle paludi, temendo di sprofondare in esse, pure i segugi di Dwar si addentrarono nei canneti che si estendevano ovunque, seguiti da Orchi minuti nell’aspetto ma feroci nei comportamenti: ivi, caddero dunque quindicimila Elfi e tale strage non fu inferiore a nessun’altra, ché le armate di Lorien e di Bosco Verde il Grande furono decimate e solo un terzo di quanti avevano abbandonato le terre natie sopravvisse alla trappola che Dwar aveva teso loro».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 319-335

Il Messere di Endore

Tom Bombadil costituisce uno degli argomenti più controversi tra i lettori di Tolkien: numerose teorie sono sorte sulla sua reale natura, ma nessuna di queste è mai stata universalmente accettata, dal momento che lo stesso autore non hai mai offerto una definizione certa di questo personaggio. Personalmente, come ho avuto modo di spiegare in altra occasione, ritengo che Tom Bombadil sia un Maiar legato strettamente al continente di Endore, una sorta di «genius loci» che incarna in sè stesso la Terra di Mezzo. Un essere che non ha alcun potere al di fuori del minuscolo territorio che ha scelto come sua dimora; all’interno dei suoi confini, tuttavia, i più potenti artefizi del Mondo esterno mostrano caratteristiche anomale: l’Unico Anello, per esempio, diventa invisibile al dito di questo bizzarro personaggio, quasi a simboleggiare l’annullamento di ogni suo potere al cospetto di Tom Bombadil. Anzi, potrei azzardare un’ipotesi suggestiva, anche se priva di riscontri: la sopravvivenza di questo personaggio, mai toccato né da Morgoth, né da Sauron, potrebbe spiegarsi proprio alla luce del profondo vincolo che lo lega alla Terra; se fosse venuto meno, chissà, la stessa Terra di Mezzo ne avrebbe avuto a soffrire, in un modo tale da spaventare perfino i suoi più pericolosi dominatori. È una speculazione, ben’inteso, ma in grado di spiegare la sua esistenza in Endore fin dal principio della sua creazione e il rispetto che tutti – Elfi, Nani e Uomini – sembrano attribuirgli, giungendo a dargli un nome diverso in base alle diverse lingue parlate nella Terra di Mezzo.

Qualunque sia la verità, non ho saputo resistere all’idea di far incontrare Tom Bombadil e Dama Baccador con un giovane e ancora arrogante Erfea…aspetto i vostri commenti per capire se l’incontro sia riuscito o meno. Buona lettura!

«Erfea vagabondò per contrade che poco o punto conosceva, finché non trovò quanto il suo cuore desiderava: tracce fresche nella neve che aveva ricoperto le colline e le brughiere tutte intorno a lui. Fremette il suo spirito, ché egli aveva appreso essere quelle le impronte di un mostruoso warg, un servo di Morgoth nella Prima Era, fuggito alla rovina di Angband allorcé l’armata dei Valar l’aveva rasa al suolo: codeste creature di malizia e perfidia dotate, erravano ancora in quelle terre che un tempo si estendevano per miglia a occidente, mentre ora sono sommerse dalle profonde acque del Belagaer. Per lunghi giorni Erfea inseguì il servo di Morgoth, inoltrandosi nelle vaste e silenti distese dell’Eriador; all’epoca in cui si svolsero questi eventi, vi erano ancora selve e boscaglie in tali contrade e numerosi esseri avevano preso dimora nelle valli che si esten- devano all’interno di queste distese selvagge; creature che poco o punto i Numenoreani conoscevano e di cui finanche gli Eldar del Lindon conservavano solo un pallido ricordo, ché, sebbene fossero invero potenti, pure non prendevano parte alle vicende dei Figli di Iluvatar, limitandosi a osservare quanto il mondo mutasse e preservando gli antichi confini che essi avevano fissato ancor prima che i figli di Feanor giungessero alla Terra di Mezzo.

Nulla sapeva Erfea di tali esseri, la sua mente intenta a tendere una trappola cui l’orrida bestia di Angband non sarebbe potuta sfuggire: essa, tuttavia, era accorta e spietata, sicché tese un agguato al Dunadan allorché questi prendeva riposo sulle radici di un antico albero, quale a Numenor più si vedevano, essendo stati abbattuti per fabbricare i possenti vascelli della flotta del Re degli Uomini; alto si levò l’urlo di Erfea allorché il warg gli trafisse la coscia, pure, egli fu sì lesto da afferrare il coltello e conficcarglielo nella gola sicché la bestia rimase avvinghiata al suo corpo, tentando di piantare le sue mostruose fauci nel suo cuore. Le orribili grida della bestia agonizzante e i lamenti del giovane Numenoreano furono uditi da un essere che vagava in quei boschi. Un Uomo lo avrebbero definito coloro che l’avessero osservato saltare da un fosso all’altro, mentre intonava filastrocche e rime antiche quanto gli Alberi di Valinor o forse anche più: eppure, non era un Figlio di Iluvatar, ma uno spirito sorto dal suo pensiero allorché Arda non era ancora stata creata e Melkor non aveva ancora scelto la via della perdizione e del dolore; pochi fra gli Eldar e gli Edain conoscevano il suo nome ed essi ignoravano le sue origini, né erano noti i suoi padri, sicché presero a chiamarlo Iarwain Ben-Adar, il più anziano e il senza padre, mentre i Naugrim lo chiamarono Forn e gli eredi di Hador Chiomadoro, Ornald; pure, egli non rivelò a nessuno quale fosse il suo vero sembiante, né lasciava che i suoi rari ospiti lo chiamassero con altro nome che non fosse quello di Tom Bombadil, l’allegro vagabondo dei boschi.

Egli vagava per quelle selvagge contrade, badando che i sentieri che aveva tracciato anni prima fossero liberi dalle creature di Yavanna che sovente ne occupavano il percorso; grande fu, tuttavia, la sua sorpresa, allorché egli udì alte grida spezzare il naturale silenzio di quelle contrade, sicché, incuriosito si recò ove gli pareva che avessero origine tali echi; ivi, scorse un giovane uomo e un mostruoso lupo giacere fianco a fianco, avvin- ti in una mortale lotta. Il figlio minore di Iluvatar, tuttavia, era sopravvissuto e Tom, che era invero uno spirito gaio e avverso ai servi di Morgoth – sebbene costoro ne ignorassero l’esistenza – lo sollevò dal luogo in cui giaceva e lo condusse alla sua dimora, la quale era occultata agli sguardi esterni da un’impenetrabile barriera di arbusti: questi, tuttavia, allorché ascoltarono le melodie di Tom Bombadil – suoni che i Numenoreani avrebbero definito senza alcun dubbio bizzarri – si aprirono, richiudendosi allorché egli fu passato.

Una dama era sull’uscio della sua minuscola dimora ed ella lo chiamava a gran voce, ché il Sole era calato all’orizzonte e il desco era apparecchiato; gaia, risuonò la risata del Messere della foresta allorché udì la voce della dama richiamarlo a sé ed egli le si inchinò sorridente in volto, dopo aver avuto premura di deporre il suo ospite su pesanti coltri intrecciate di lana e di parole quali mai gli Uomini avevano ascoltato e che lenivano il dolore in chi le udiva.

“Tom, hai forse obliato la dama del fiume? Un ospite hai infatti condotto alla nostra mensa, pure non hai avuto premura di avvisarmi: cosa offriremo, dunque, al giovane che giace esamine?”. Rise il Messere della foresta, ché nulla sfuggiva al suo lesto sguardo e invero conosceva il pensiero di colei che gli aveva testé parlato: “Mia cara Baccador, Tom è forse stanco, ma i suoi occhi sono ancora vispi! Ben m’avvedo che tu abbia preparato il desco anche per il nostro ignaro ospite, sicché non dovresti trarmi in inganno”. Lesta fu la risposta di Baccador: “Il grande sparviero è giunto stamani alla mia finestra, avvertendomi che vi era nella foresta un Uomo, sicché credetti che fosse scortese da parte nostra non invitarlo a prendere parte alla nostra cena”. Rise ancora Tom, infine osservò, quasi distrattamente, colui che aveva tratto in salvo dalla morte e sospirò: “Egli è uno degli uomini di Numenor, mia cara, giunto in siffatta contrada per trucidare uno dei lupi servi della grande oscurità che un tempo aveva la sua fortezza a Nord”. “Non sembra pericoloso – osservò la dama, posandogli sulla fronte la sua affusolata mano – pure, avverto che egli è stato a lungo sofferente nel corpo, e lo spirito è ancora lungi dall’essere guarito del tutto”. Tom allora sospirò e così le rispose: “Sono fragili i Figli Minori di Iluvatar, eppure sappi, Figlia del fiume, che Arda apparterrà a loro quando sarà giunta l’ora; però il momento è ancora lungi dal giungere e costui non prenderà parte a tali vicende”. Si alzò dalla seggiola che aveva posto dinanzi al camino e fischiettando un motivo allegro, prese a scuotere leggermente il Dunadan. Con un gemito, Erfea si scosse dal profondo sonno in cui era piombato e sul suo viso erano dipinti smarrimento e una gran pena: “Credevo di averla persa per sempre” furono le uniche parole che riuscì a pronunciare per molto tempo, finché egli non ebbe posato il suo sguardo sulle due figure che gli erano accanto, domandando loro chi fossero.

Risero a lungo i suoi anfitrioni, infine Tom gli rispose: “Chi siamo? Io sono il Messere e questa è la dolce dama del fiume; non temere alcunché, giovane uomo, ché ora sei nella dimora di Tom Bombadil ove nulla può entrare, a meno che non sia io a desiderarlo”. Gemette Erfea, infine si levò dalle graziose trapunte che l’avevano avvolto e parlò nuovamente: “Dov’è il lupo di Morgoth che trafisse le mie carni? A lungo vagai in queste contrade inesplorate, eppure codesta creatura si rivelò invero infida, sicché mi tese un agguato, e io, provato dalla stanchezza, non seppi evitarlo”. Amare risuonavano queste parole alle orecchie di Tom e della sua dama, tuttavia essi non replicarono nulla, sicché Erfea parlò nuovamente: “Ebbene, la creatura non è più qui, sicché immagino che il suo corpo giaccia obliato nella medesima raduna ove realizzò l’infame agguato”. Lento, il Dunadan tentò di alzarsi e una volta che le sue gambe, ancora malferme per il dolore e la fatica, furono in grado di sorreggerlo, egli si inchinò, ché aveva compreso essere quell’uomo l’artefice della sua salvezza; goffo gli parve il suo tentativo, tuttavia, con sorpresa, si avvide che i suoi anfitrioni mostravano di gradire il suo gesto, sicché si inchinarono a loro volta e lo invitarono a consumare la cena. Grato per l’attenzione che costoro mostravano nei suoi confronti, per lungo tempo Erfea non parlò, ché mai aveva visto nel corso della sua effimera esistenza una simile dimora: minuta poteva apparire allo sguardo degli Alti Uomini di Nmenor, eppure, le sua ampie finestre e i suoi graziosi camini la rendevano calda e accogliente, nonostante le ombre proiettate dalle fiamme sulle scure pareti confondessero lo sguardo del visitatore; cortesemente, Tom e Baccador attesero che il loro ospite si fosse rifocillato, infine, allorché lessero sul suo volto ampia soddisfazione per la cena consumata, lo invitarono a prendere posto accanto a loro, dinanzi al grande braciere posto al centro della sala.

“Perdonate la mia ingordigia, signori del bosco, ché non è corretto per l’ospite non mostrare alcunché a colui che l’ha accolto all’interno della sua magione, eccetto la propria fame e il proprio sonno; permettetemi, dunque, che vi riveli il mio nome, ché io sono Erfea, figlio di Gilnar, principe dello Hyarrostar in Numenor”.

Risero graziosamente i suoi anfitrioni, eppure non vi era derisione nella loro letizia, ché essi erano stupiti di sentirsi chiamare signori: “Sappi, figlio di Numenor, ché nessuno ospite ha mai reso tale onore ai nostri spiriti e ai nostri corpi!”. Risero ancora e a Erfea parve che gli alberi del bosco condividessero la medesima letizia di costoro; pure, Tom parlò nuovamente, rivolgendosi a sé stesso, più che al Numenoreano: “Sarebbe invero un compito troppo gravoso per le mie membra, né io desidero imporre alcuna legge su quanti dimorano nelle selve e nelle radure di questa contrada: io sono il Messere, non il Signore”. Fischiettò allegramente alcune strofe, le quali parvero a Erfea intrise dell’acqua di rapidi ruscelli e dello stormire delle fronde degli alberi: il dolce torpore, cui fece seguito il sonno ristoratore, prese il figlio di Gilnar e il suo spirito fu per lunghi istanti vittima dell’oblio. Infine, allorché il Messere più non cantò, egli si destò e mirò nuovamente colui che l’aveva accolto nella sua dimora: lieto pareva il suo volto, né su esso erano impressi i crudeli artigli del tempo corruttore, pure Erfea avvertì che era anziano; con sgomento e sorpresa, si rese conto che Tom lo fissava a sua volta ed egli non riuscì a reggerne lo sguardo; tremante, il Dunadan chinò il fiero capo, ché aveva compreso essere quello uno spirito quale mai nessun Uomo della sua stirpe sarebbe stato in grado di comprendere; rabbrividì, nonostante il calore del fuoco si propagasse attraverso le sue giovanili membra, ché mai gli era capitato di scorgere all’opera un simile potere.

Sorrideva Tom, la mente immersa nel ricordo di eventi remoti; infine, egli ascoltò la voce del Dunadan cantare un canto quale mai il suo udito – che pure aveva compreso i feroci barriti degli orsi e il quieto ronzare delle api nei meriggi estivi – aveva ascoltato; profonda e malinconica si levava la voce del Dunadan ed egli cantava di coloro che erano al di là delle sponde del Lindon; infine, allorché la voce del suo ospite si fu acquietata, così gli parlò Erfea: “Perdonate il mio ardire, signore, tuttavia, non avendo altro da offrirvi ed essendo il mio cuore preso dalla malinconia che spira dall’Occaso, ho voluto tributarvi un simile canto”.

“Invero, principe di Numenor, voi avete portato alla dimora del Messere della foresta un omaggio quale mai nessuno aveva recato seco: Tom non oblierà le vostre parole e le custodirà nei profondi recessi del suo animo”.

Baccador, la quale era intenta a filare, levò allora il grazioso capo e parlò dolcemente: “Giovane uomo, molti cuori ha visto la Figlia del fiume affidare le proprie passioni alle cristalline acque che lambiscono le contrade dei mortali; non temere la malinconia, ché essa altro non è che il dolce nettare istillato dalla nostalgia negli animi dei Figli di Iluvatar”.

A lungo Erfea ponderò tali parole, infine parlò nuovamente: “Mia graziosa dama, ho compreso quanto mi avete testé rivelato e il mio spirito è stato lenito dalla saggezza che esse hanno ispirato nel mio animo”. Esitò per un istante, infine si rivolse a Tom: “Mio signore, perdonate il mio ardire, eppure non posso fare a meno di notare quanto voi siate simile a una donna che un tempo era presso di noi”.

Una curiosa luce baluginò nello sguardo del Messere ed egli posò il suo sguardo sull’ospite, infine rise allegramente: “Simili e dissimili allo stesso tempo sono le creature che hanno preso dimora in Arda allorché Sauron ancora dormiva e nessun Elfo si era destato nelle contrade orientali”.

Annuì Erfea, sebbene non comprendesse appieno quanto il Messere gli avesse rivelato e il dubbio si insinuò nel suo cuore. “Non nutrire nel tuo animo simili sentimenti, figlio di Gilnar! Se anche tu fossi un uomo quale mai le vostre stirpi hanno ancora visto nascere e la tua lungimiranza fosse simile a quella di Manwe il Luminoso, pure la mia risposta sarebbe la medesima che ho pronunziato dinanzi a te! Molto sono note alla tua mente le vicende e le cronache dei tempi remoti e invero potresti apparire saggio, secondo il giudizio dei Figli minori di Iluvatar: sappi, tuttavia, che hai discernimento solo su quanto i tuoi sensi mortali hanno appreso nel corso della tua breve esistenza, e molto ti è ancora ignoto. Non dolerti per aver mancato la preda, ché avventato fu il tuo gesto e questo tu lo sai bene; gioisci, piuttosto, perché ti è stato concesso di apprendere una simile lezione, ché, altrimenti, mai i tuoi sensi avrebbero accettato”.
Chinò il capo Erfea ed egli infine comprese: “Messere, veritiere sono le vostre affermazioni, ché invero il mio cuore ha mostrato infinita arroganza e scarsa umiltà: lasciate, dunque, che io vi doni le spoglie del servo di Morgoth, affinché voi possiate esibirle come trofeo, ché, invero, senza il vostro soccorso, ora il segugio del Nord pasteggerebbe con le mie carni”.

Risero Tom e Baccador, infine il primo parlò: “Il vecchio Tom Bombadil non conserva simili cimeli, ché nella sua dimora sono accolti solo coloro nei quali il soffio vitale ancora spira, e non già coloro che più non sono; tuttavia, Erfea, sono certo che altri gradirebbero un simile trofeo”.

Annuì il Dunadan, e lieto si inchinò: “Grato è il mio animo, ché ora conosco il nome di colui che mi ha salvato la vita non già una volta, bensì due”.

Risero ancora i suoi anfitrioni, infine lo invitarono a prendere riposo, ché l’ora era tarda e le sue membra bisognose di sonno ristoratore; lesto, il principe di Numenor cadde preda del dolce oblio e il suo riposo non fu turbato da alcun suono orribile a udirsi.

Al mattino, egli prese congedo dal Messere e dalla sua dama, inchinandosi profondamente dinanzi a loro, allorché giunse l’ora dell’addio; lesta, tuttavia, Baccador porse al Numenoreano una veste che ella aveva intrecciato con le sue abili mani e sulla quale erano ricamati delicati intarsi; seta pareva, eppure Erfea ignorava con quale arte era stata tessuta, ché non erano visibili punti di giuntura ed essa riluceva alla calda luce di Anor; bianca pareva, tuttavia, allorché l’ombra di un vetusto albero o di una nube passeggera si posava su di essa, mutava colore e assumeva tonalità scure; se questo mutamento fosse dovuto al tessuto o ad altra causa, Erfea non era in grado di affermare.

Stupito, il principe dello Hyarrostar la ripose con grande cautela nella sacca che egli aveva seco, infine domandò alla dama del fiume a chi dovesse destinare un simile dono: “Nulla posso dirti a riguardo, giovane Uomo, eppure sono certa che il tuo cuore saprà rispondere a tale quesito meglio di quanto non possa fare la mia voce”. Grato, Erfea allora le prese la mano e la baciò dolcemente, parendogli la creatura più graziosa sulla quale avesse posato lo sguardo e non osando domandargli il suo nome; tuttavia, la Figlia del fiume parlò nuovamente e sussurrò queste parole: “Baccador io sono, custode della Selva e del Fiume: addio, Erfea di Numenor, possa il nostro ricordo accompagnarti lungo il tuo cammino, ché esso sarà arduo e difficile da percorrere; tuttavia, se il tuo cuore sarà saldo, giungerai sin dove Iluvatar ha decretato che tu debba spirare”».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 31-39.

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Per la biografia dell’ultimo Nazgul mi sono ispirato a un modello fin qui assente: quello dell’assassino fine a sè stesso, educato in un clima di estrema violenza e abituato a fare uso di questo unico «linguaggio» in qualunque occasione. Volevo che questo Nazgul simboleggiasse la degradazione umana allo stato più abietto, l’incapacità di essere empatici propria di alcuni tristi protagonisti della storia umana. Non a caso, perciò, si narrerà di un uomo la cui tribù risultava già essere tributaria di Sauron, venerato come una divinità. Buona lettura!

«Il nono Nazgul nacque nel 1970 della Seconda Era, nelle cave di Olbamar nel Khand orientale con il nome di Uvathar Achef; egli era il figlio di un principe esiliato e l’infelicità di suo padre presto divenne la sua. Uvathar trascorse i primi dieci anni della propria esistenza nelle steppe del Khand, ove apprese le arti della caccia e della guerra, le uniche che riscuotessero il suo interesse; feroce e orgoglioso divenne il suo animo e ancor prima di aver compiuto sedici anni si era macchiato del sangue di numerosi uomini e sapeva cavalcare come nessun altro Variag. Diciottenne, chiese e ottenne il comando dell’esercito del padre, portandolo a ottenere svariate vittorie, che gli procurarono il trono del Khand superiore: non soddisfatto da tale successo, il giovane Uvathar sconfisse il re del Khand inferiore, Urig Urpod, unificando per la prima volta nella sua storia l’intera nazione dei Variag sotto un’unica corona: all’età di venticinque anni, in seguito alla morte del padre, Uvathar divenne il nuovo signore della guerra del Khand, attirandosi l’attenzione dell’Oscuro Signore, il quale gli offrì l’ultimo degli Anelli del Potere degli Uomini nell’anno 2006. Uvathar accettò senza esitazione alcuna, ché il suo popolo era stato da sempre tributario di Mordor, e molti fra loro veneravano Sauron come una divinità: nei secoli successivi, Uvathar mutò il proprio nome in quello di Uvatha secondo la lingua nera di Mordor, e conquistò vaste contrade a Sud di Mordor, con l’aiuto delle armate di Ren il Folle; nell’anno 3262, dopo la cattura del suo mentore, Uvatha si rifugiò a Mordor, nei pressi del lago di Nurn, ove addestrò numerose armate. Dopo la Caduta di Numenor, Uvatha partecipò, come gli altri otto Nazgul all’assedio di Osgiliath, non riuscendo tuttavia a impadronirsi della città; egli allora si recò al passo di Cirith Ungol ove impedì ai Dunedain di condurre nuove forze contro Mordor. Troppo tardi Uvatha giunse con i suoi eserciti alla Barad-Dur, ché Sauron era caduto ed egli svanì nelle ombre».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 395-396.

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Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo