Ritratto di un principe

Concludo il racconto iniziato nell’ultimo articolo: la regina Miriel, ormai adulta e sposata con Ar-Pharazon, racconta al giovane Anarion, cresciuto con il “mito” del paladino Erfea, un episodio risalente alla loro adolescenza, nel quale emergono caratteri inediti dei due personaggi, ancora acerbi e in via di formazione. Per una migliore comprensione di questo racconto, suddiviso in due articoli, è bene tenere presente alcune premesse: Erfea ha 20 anni quando incontra per la prima volta Miriel, più giovane di lui di 5 anni; egli non sospetta ancora che la fanciulla di cui è innamorato sia la figlia di Palantir, perché ella è stata reclusa nel palazzo reale per paura di ritorsioni da parte dei sostenitori di Gimilkhâd (padre di Pharazon). La principessa, tuttavia, stufa di essere prigioniera nella sua stessa casa, di tanto in tanto, con la complicità delle sue dame, si allontana dalla sua dimora, indossando abiti semplici per non destare sospetti, per conoscere la sua gente e la sua terra: in una di queste fughe si imbatte in Erfea, al quale rivela di essere la figlia di un pescatore e di avere nome Earien. Per questa ragione, è sorprendente che Erfea abbia deciso di chiamarla Miriel, attribuendole, in realtà, il suo vero nome senza conoscere la sua reale identità. In questa seconda parte del racconto, Erfea deve mettere alla prova la sua giovanile impazienza nel tentativo di risolvere un enigma che gli pone il suo maestro Numendil, nonno di Elendil.

Buona lettura!

La Rosa e l’Arpa (parte seconda)

«Una settimana prima della Cerimonia dei Nomi [1], il mio Maestro Numendil, che all’epoca si mostrava ben poco nei corridoi e nelle aule dell’Accademia a causa dei palesi contrasti che erano fra lui e i principi dell’avversa fazione, chiamatomi in disparte, così mi parlò “Figlio di Gilnar, alcuni Maestri riferiscono che tu sei lesto nell’apprendere, sebbene disdegni gli altrui consigli e mostri insofferenza verso coloro che osano mettere in dubbio la tua preparazione”.

“Maestro – gli risposi io, non prima di essermi inchinato con referenza – dite piuttosto che l’insofferenza nasce negli animi di coloro che non scorgono altra Via se non quella che essi così stoltamente e pericolosamente percorrono.”

Numendil sospirò: “La Via è unica, tanto per i figli di Iluvatar, quanto per la prole di Morgoth e per quelli che segretamente lo onorano. Credi forse che i miei occhi siano ciechi, che non scorgano la corruzione che serpeggia in questi antichi corridoi? No, giovane Ëarel, tu hai colto solo un aspetto della Via e ti sei limitato ad apprendere quanto il tuo cuore desiderava fare suo. Sei abile con le armi e pochi possono tenere il confronto con la tua favella; eppure, pur essendo tu lesto con la mente, non lo sei altrettanto con il cuore ed esso disdegna il confronto. Il tuo sguardo è rapace nel cogliere le altrui debolezze, eppure questa è un’abilità di infima importanza, che non farà di te un Signore come un tempo ve n’erano a Numenor. Sai riconoscere le conseguenze delle azioni che tu ed i tuoi compagni compite, ma non sei in grado di cogliere l’origine di esse ed il tuo animo disdegna profondamente sentimenti come amore e pietà.”

“Mettetemi alla prova, Signore – lo provocai io, ferocemente – non vi deluderò”.

Numendil sospirò profondamente ed un’ombra di inquietudine parve occultargli il volto, infine parlò: “Sia dunque come tu desideri: ti affiderò il seguente Saitië [2].” Rifletté per un attimo, infine batté per tre volte le mani e parlò: “Tu puoi sentire il suono di due mani quando battono l’una contro l’altra. Ora mostrami qual è il suono di una mano sola.”

Inchinatomi in silenzio, abbandonai la sua aula e mi diressi nella mia dimora per meditare; quella sera, mio padre dava una festa ed i bardi trascorsero l’intero pomeriggio ad accordare gli strumenti: affacciatomi dalla balaustra ove ero intento a riflettere, mi avvidi che molti fra loro erano soliti compiere gli esercizi musicali con una mano sola; allora, certo di aver compreso, il giorno seguente tornai da Numendil e gli feci ascoltare i suoni che gli artisti il giorno prima avevano prodotto. Il principe di Andunie guardò i miei gesti, infine mi congedò con queste parole: “No, no, questo suono non corrisponde a quello che una mano sola sarebbe in grado di eseguire. Non hai compreso nulla, va’ a meditare ancora”.

Irato, lasciai che i miei passi mi conducessero altrove, nei grandi giardini della reggia di Armenelos, nei quali, già a quei tempi, non era solito recarvisi più alcuno fra i signori di questa terra: ancora furioso per lo smacco testé subito, mi sedetti su di un basso scranno di pietra consunto dall’umidità e dal tempo, e nel silenzio di quelli stessi luoghi nei quali oggi noi discorriamo, ebbi sentore dello sgocciolio dell’acqua lungo il mio sedile e ne fui affascinato; pian piano, esso entrò nella mia mente ed io esultai, perché mi parve di aver raggiunto la soluzione al quesito che il Maestro mi aveva posto. Non appena feci ritorno da lui, tuttavia, mi avvidi che egli non condivideva affatto il mio pensiero: “Cosa sarebbe, dunque, questo? La pioggia è il canto di Manwe, non quello di una mano sola! Va’ e medita ancora!”.

Confuso e ormai prossimo alle lacrime, fui colto dall’ira e sguainata la corta lama che pendeva al mio fianco, tranciai di netto una mano marmorea che apparteneva ad una statua lì situata: “Il suono che emette una mano sola – ringhiai allora, accecato dalla collera – è dolore e morte, ché se questa statua fosse stata costituita da carne e non da candida pietra, molto ne avrebbe avuto a soffrire.” Temevo – ora non ho esitazione nel confessarlo – che il mio Maestro avrebbe punito duramente il mio sfogo; con mio sommo stupore, al contrario, egli si limitò a sguainare la sua nobile lama e ad assumere la posa che tutti i Cynd seguono allorché sono intenti nella meditazione [3]. Confuso ed ignorando quale significato potesse avere il suo comportamento, abbandonai la sua dimora e mi diressi lontano, finché i miei occhi non riconobbero più i luoghi ove mi trovavo ed i miei piedi non furono troppo stanchi per proseguire oltre. Il capo chino su un costone roccioso, versai lacrime amare e mi abbandonai allo sconforto, finché il dolore per il mio comportamento errato non fu trascorso ed io non avvertii null’altro se non una grande tranquillità: per cinque notti meditai sul silenzio e mi parve che esso risuonasse al mio orecchio, più forte del grido di dolore che un uomo privato della sua mano avrebbe emesso, più forte dello sgocciolare dell’acqua sulle rocce, più forte della musica che i bardi creano nelle notti d’estate per alleviare i nostri animi dalle pene e dai dolori. Lieto in volto, corsi allora da Numendil e lo trovai nella sua dimora che chiacchierava piacevolmente con suo figlio Amandil, il quale sarebbe divenuto mio Signore allorché fosse giunta l’ora: allorché egli mi scorse, congedò con gentili parole suo figlio e si accinse ad ascoltarmi: “Mio Signore – esordì io prostrandomi a terra – poiché non vi era alcun suono che  potessi immaginare essere prodotto da una mano sola, ho superato il canto del gufo, lo stormire del vento tra gli alberi e il canto degli amanti nel giorno di mezz’estate ed ho raggiunto il suono senza suono.”

Numendil allora, con mia grande meraviglia, si levò dal suo scranno e dopo essersi inginocchiato dinanzi a me, alla maniera degli uomini di questa contrada, parlò: “Hai dunque udito il suono di una mano sola, il silenzio ed hai dato ad esso un nome: d’ora in avanti, esso non ti atterrirà più, perché saprà sempre parlare al tuo cuore e nel suo regno troverai conforto.”

Himel si arrestò un attimo, mentre la sua mano carezzava dolcemente il mio viso – e qui parve ad Anarion che Ar-Zimraphel seguisse con lo sguardo un movimento che era a lui invisibile – infine proseguì a parlare: “Puoi ben immaginare quanto fosse grande la mia felicità nell’apprendere che l’interpretazione era corretta; tuttavia, poiché la mia curiosità superava ogni altro sentimento, non riuscii ad esimermi dal domandare a Numendil perché mi avesse posto quel Saitië, pur sapendo che egli non avrebbe mai potuto rispondermi: “Giovane figlio di Gilnar, a questo punto dovresti aver compreso quale intento mosse il mio intelletto a porti una simile domanda. Non ti ha insegnato nulla questa esperienza?”

Riflettei a lungo, infine gli risposi: “Mio Signore, ho appreso come il Suono ed il Non Suono siano entrambi presenti e necessari alle nostre esistenze per conservare l’equilibrio e che se talvolta privilegiamo l’uno a favore dell’altro, questo non significa che quanto abbiamo escluso con la scelta venga meno.”

“Così è – rispose il sire di Andunie – eppure, bene sarebbe se tu rapportassi quanto hai testé pronunciato ad una realtà che ti è prossima: non ignorare quanto i tuoi sensi desiderano e non sacrificare l’unità del tutto in nome di una parte.”

Arrossii, infine compresi: “Voi sapete quale nome sceglierò domani, ché, ve lo leggo negli occhi, siete un uomo sì lungimirante come pochi altri potrebbero esserlo a Numenore: eppure, ora mi sovviene che esso non è adatto che ad indicare solo uno fra i piani della mia esistenza e non vorrei nel suo nome rinunciare a quanto è nel mio cuore; come il terzo appellativo è per le grandi occasioni, così il quarto lo è per tutte, piccole o illustri che siano. Non rinuncerò alla mia essenza più profonda ed essa darà luce al mio nome”. Riflettei ancora qualche istante, infine sussurrai all’orecchio sinistro del mio Maestro la mia scelta; egli acconsentì, infine, aperta una piccola scatola intarsiata che teneva sul massiccio tavolo di taek che troneggiava imponente nella sua dimora, ne trasse un gioiello, lo stesso che ora vedi brillare nel mio pugno e lo lasciò cadere nelle mie mani, pronunciando queste parole: “Diverrai un grande Paladino e l’indegna prole di Morgoth temerà a lungo il tuo nome; io temo, tuttavia, che i pericoli più grandi per te giungeranno non dall’esterno ma dal tuo cuore, ché esso sarà sottoposto a molte privazioni e non tutte saranno dovute alle tue incapacità. Prendi questo gioiello che secoli or sono la mia gente ricevette dagli elfi del Vespro e donalo a chi intreccerà il suo percorso con il tuo: possa essere la tua scelta giusta e saggia, perché in esso vi è intriso un grande potere.”

Pronunciate queste parole, Ëarel allora tacque e afferrata la catenina d’argento la cinse con dolcezza al mio collo e si approssimò a lasciare il luogo nel quale così a lungo avevamo discorso; prima che il suo nero mantello volgesse ad oriente, alla casa dei suoi padri, egli tuttavia si voltò e, sorridendo, pronunciò queste parole: “Hai dunque appreso il mio nome, signora dell’Andunie. Se il tuo cuore lo vorrà, io ti chiamerò Miriel, Colei che risplende ove ogni altra luce sembra perire”. Commossa ed intenerita da quelle parole, mi levai per sfiorargli ancora una volta il viso, ma egli era già sceso lungo il pendio boscoso e solo il pesante incedere dei suoi stivali riecheggiò ancora nella notte.

“Ignoravo questa storia, mia signora – interloquì allora Anarion, che affascinato dal suo racconto aveva ascoltato le sue parole in silenzio – eppure non sono sorpreso, ché Erfëa era solito parlare di voi in siffatti termini e riteneva che nessuna altra figlia di Iluvatar potesse eguagliare la vostra beltà e la vostra saggezza”.

“La saggezza l’ho perduta; quanto alla bellezza – rispose lei tristemente – non mi è oggi di alcuna utilità”. Sospirò, infine si congedò dal principe dell’Andunie con queste parole: “Oggi avete allietato il mio cuore: possano i Valar ricompensarti con quanto ambisci ottenere.” Ar-Zimraphel si voltò e si accinse a lasciar quel luogo; infine, ritornata su i suoi passi, si inginocchiò accanto ad Anarion e lo pregò di prendere il gioiello che un tempo era stato suo e di restituirlo ad Himel allorché l’ora fosse giunta: il figlio di Elendil, tuttavia, rifiutò, accompagnando il suo diniego con queste parole: “Il mio Signore lo affidò in voi in nome di un amore che il tempo e la lontananza non hanno eroso; a quale pro, dunque, rimetterlo nelle sue mani? Un simile atto indicherebbe ai suoi occhi che lo avete voluto dimenticare: è forse questo il vostro disio? Siete certa di quanto il vostro braccio ha intenzione di compiere?”

Stupefatta, Ar-Zimraphel mirò a lungo il bel viso del giovane Numenoreano, infine mormorò: “Sia così, dunque; anche quando la tenebra sarà intorno a me, la sua stella continuerà a brillare, come accadeva nei giorni che sono ormai fuggiti all’Occaso. Siete invero saggio, figlio di Elendil: in voi sopravvive la tempra del vostro Signore che i miei occhi sanno non poter più mirare per il resto della mia esistenza terrena”.

“In questa vita, forse – le fece eco Anarion – eppure, nessuno fra coloro che sono dei Secondogeniti ha appreso che cosa attenda i nostri spiriti allorché si compie il Fato di Mandos ed il mio cuore mi dice che non tutti i vincoli muoiono allorché giunge l’ora dell’addio.”

Ar-Zimraphel sorrise e per un istante parve ad Anarion che il fardello degli anni e del rimorso le fosse stato rimosso dal viso e dalle mani: infine si voltò e, mentre percorreva la strada che l’avrebbe ricondotta alla sua dimora, la stella di Himel brillò sì forte sul suo petto che Sauron, il quale fu l’unico a scorgerla allorché giunse a tarda ora al palazzo reale, ne fu sbigottito e si allontanò da qualche tempo da Armenelos, cercando la salvezza presso roccaforti e cunicoli che i suoi servi avevano edificato in gran segreto, ove punti o pochi uomini vi si avventuravano e ancor meno ne tornavano indietro per raccontare cosa vi avevano veduto.

Anarion, dopo aver a lungo meditato su quanto era accaduto quel dì, fece anch’egli ritorno alla sua città, ove alcuno gli pose domanda ed egli non pronunciò alcunché in merito a quanto era accaduto: nei giorni seguenti, sovente si avventurò al di fuori dei cancelli della contrada di Andunie, ove invano attese che Erfëa facesse ritorno alla sua patria; i venti del mondo erano però mutati ed egli non lo rivide più, ritto sul pontile della sua imbarcazione, giungere ad Andor come in passato e trascorsero molti anni prima che potesse scorgerlo, ancora fiero come nei giorni della sua gioventù, durante un mattino dorato, alle foci dell’Anduin, un giorno d’autunno».

Fine

[1] La Cerimonia dei Nomi (Arkhonator, nella favella dei Numenoreani) aveva luogo nell’Accademia Reale tra il decimo e l’undicesimo mese dell’anno e vi prendevano parte i giovani cavalieri allo scopo di essere consacrati secondo il nome che sceglievano e del quale, tuttavia, non avevano facoltà di parlare prima che fosse giunto il venticinquesimo anno di età. Non stupisce, pertanto, che Miriel abbia dimostrato un simile stupore dinanzi alla rivelazione che Erfëa fece riguardo al suo vero nome.

[2] I Saitië erano degli esercizi mentali che i Maestri ponevano agli allievi affinché fossero spronati a meditare e accrescessero la loro forza spirituale.

[3] Quando un Cundo meditava, era solito sedersi con le gambe incrociate sulla nuda roccia ed appoggiare la fronte sull’elsa della propria lama, la quale era sguainata e posta fra il capo e l’incavo che la posizione degli arti inferiori veniva a configurare; questo comportamento era dettato dalla triplice necessità da un lato di mostrare quanto il Paladino fosse un tutt’uno con la sua arma, dall’altro di apprendere, tramite il contatto fisico, le virtù proprie della spada e infine di rimembrare a coloro che erano dell’Ordine dei Paladini quanto i loro corpi fossero caduchi, mentre i valori per i quali essi combattevano e che erano incisi su ogni lama, fossero immortali: essi erano, nell’ordine in cui erano riportati, Comprensione, Amore, Pietà e Perdono.

Ritratto di una principessa

Abbandono temporaneamente la narrazione dell’assedio di Gondor, sulla quale tornerò per spiegare in quale occasione Anarion sia stato ferito, per dedicarmi a uno dei personaggi più affascinanti dei miei racconti, nei confronti del quale ho un debito letterario: Miriel, principessa e poi regina di Numenor. Scrivo così, perché, dopo aver terminato il corpus principale dei miei racconti, mi sono reso conto di non aver approfondito particolarmente questa figura, sulla quale, invece, avrei voluto soffermarmi maggiormente. Inizialmente, infatti, la figura femminile di riferimento di Erfea avrebbe dovuto essere Elwen, la Mezzelfa: immagino di essere stato influenzato in questa scelta dall’interesse suscitato in me dalla storia di Aragorn e di Arwen, che avrei voluto capovolgere, mostrando le difficoltà di essere a metà fra gli Uomini e gli Elfi, fra la mortalità e l’immortalità. Una mattina, invece, casualmente, iniziai a leggere il mito greco di Ifigenia, figlia del re Agamennone, uccisa con un inganno per permettere alla flotta greca di salpare alla volta di Troia e iniziare così il celebre assedio. Naturalmente conoscevo già, a grandi linee, la vicenda di Ifigenia; rileggendola, tuttavia, fui colpito da un aspetto che sino a quel momento avevo trascurato: il senso di profonda tragedia insita nella sua vita, dovuta all’inganno del quale era stata vittima. Suo padre, infatti, per non confessare alla moglie e alla figlia che questa avrebbe dovuta essere sacrificata alla dea Artemide, aveva mentito ad entrambe, giustificando la necessità di avere Ifigenia al campo greco con una ragione di stato alla quale la figlia non avrebbe potuto sottrarsi: il matrimonio con il più forte (e bello) degli eroi greci, il prode Achille. Nella riduzione a prosa della sua tragedia, mi commosse il profondo senso di fiducia che Ifigenia mostrava nei confronti del padre, prima di conoscere la terribile verità: non si sarebbe sposata con Achille, ma la sua vita sarebbe stata presa in pegno per permettere ai Greci di raggiungere Troia. La mia commozione e il senso di pietà nei confronti della fanciulla, tuttavia, raggiunsero lo zenith, quando lessi della sua reazione alla condanna a morte che posava sul suo capo: mentre sua madre giurava di farla pagare ad Agamennone (realizzando il suo proposito dopo la fine della Guerra di Troia, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), Ifigenia accettava di essere vittima della «Ragione di Stato» con un coraggio pari solo al senso di profonda rassegnazione mostrata in quella circostanza.

Perdonate questa lunga digressione, tuttavia era necessaria per spiegarvi le ragioni che mi spinsero ad affiancare ad Elwen, bella, capricciosa, un po’ immatura forse, ma anche dotata di grande orgoglio e voglia di vivere, un personaggio femminile diverso, sul quale gravasse il senso di una tragedia che avrebbe colpito non solo lei, ma tutto il suo popolo e la sua terra. Come Ifigenia, anche Miriel è una principessa: entrambe, inoltre, sono figlie di due sovrani molto potenti (Tar-Palantir era il sovrano del più ricco regno umano, così come Agamennone era il re di Micene, considerata la più potente città degli Achei). Entrambe sono cresciute seguendo un rigido codice comportamentale, come accade di solito a quanti vengono educati per assumere, da adulti, posti da comando: entrambe, infine, non si sono opposte al destino di morte che aleggiava su di loro, finendo comunque col sacrificarsi invano. Miriel accetta il matrimonio con suo cugino, Pharazon, sperando di mitigare gli aspetti più «controversi» del suo carattere, senza successo, anzi finendo con l’annegare durante la caduta di Numenor; Ifigenia, d’altro canto, accetta di morire per permettere alla flotta greca di raggiungere Troia e perpetuare così un ciclo di massacri e vendette che non avranno termine neppure alla caduta della città di Priamo. Entrambe, infine, avranno una vita sentimentale che avrebbe potuta essere molto diversa da quello che accadde realmente. Ifigenia, la più sfortunata delle due (forse), non ebbe neppure il tempo di viverla, ma solo di immaginarla; Miriel, invece, ebbe almeno qualche breve momento di felicità intima prima di legarsi indissolubilmente a Pharazon.

Il brano che vengo qui a presentarvi è una sorta di lungo flash-back, narrato da una Miriel ormai adulta a un giovane Anarion, nel quale, forse, la regina di Numenor rivedeva il suo amore perduto. La seconda parte del racconto, intitolata volutamente «Ritratto di un principe» sarà pubblicata nei prossimi giorni. Buona lettura!

La Rosa e l’Arpa

«Ar-Zimraphel avrebbe dovuta essere la legittima sovrana di Numenor, ma cedette agli inganni del cugino e di Er-Murazor, il Signore dei Nazgul: aveva, dunque, abdicato al trono e condannato la sua patria all’infame schiavitù da parte degli Uomini del Re, che adesso si facevano chiamare Numenoreani Neri; vi erano pochi, perfino fra i Fedeli, che conoscevano le motivazioni che avevano spinto la figlia di Tar-Palantir a rinunciare allo scettro del regno e ancor meno numerosi furono coloro che compresero la sua scelta: tuttavia, poiché ferite che ella credeva si fossero ormai rimarginate erano state riaperte a causa dell’incontro con Erfëa e dalle notizie che costui le aveva comunicato, ed ella era invero infelice, prese la migliore tra le decisioni che le si prospettavano e decise di aprire il suo cuore a quanti erano della stirpe degli eredi di Silmariel.

Accadde così, dunque, che una sera Miriel giungesse al cancello di Andunië e chiedesse udienza presso i principi di quella contrada: non appena l’ebbe ricevuta, ella fu condotta lungo una bianca galleria che collegava il cancello con la piazza centrale della città: ivi, ella scorse due giovani guerrieri che sfidavano un ugual numero di automi e per lungo tempo i suoi occhi e la sua mente furono impegnati a seguire i rapidi movimenti con i quali essi si difendevano o, al contrario, attaccavano i loro avversari. Non appena i combattimenti cessarono, ella si approssimò ai due othar e chiese loro di abbassare la visiera che ne celava i volti; allora il più grande fra i due parlò e la sua voce fu dura come l’eog che i fabbri di Ost-In-Edhil lavoravano molti secoli or sono: “Orsù, donna, non vedi che io e mio fratello siamo impegnati in simili combattimenti? La cotta di maglia madida di sudore ed il sangue non si addicono a quelle della tua stirpe, ché esse, lo so bene, sono abituate ai ricchi cuscini degli altezzosi palazzi! Vieni meco Anarion, lasciamo che codesta dama si trastulli con le finzioni e con i trucchi che i cortigiani di palazzo agitano dinanzi ai suoi occhi al solo scopo di avere un cenno della sua approvazione!”

Sulle prime, Anarion non pronunciò parola, ché egli era rimasto alquanto turbato: la dama era simile ad un sole che tramonta, ché il rosso le adornava le chiare gote ed i suoi capelli color dell’oro erano rischiarati dall’ultima luce morente che l’astro reca seco quando si diparte da Endor. Saggezza e lungimiranza erano in lei, sebbene un velo di malinconica bellezza le coprisse i chiari occhi e rendesse la sua voce simile ad un eco remoto che giunga dalle profondità di Osse. Lesto, il secondo figlio di Elendil si chinò dinanzi alla donna, non prima di aver calato il suo elmo: il suo volto, che mai nessun nemico aveva atterrito era ora rosso come il rame che adornava i tetti della dimora paterna; stupefatto lo mirò il fratello maggiore, che così aspramente gli si rivolse: “Cosa significa, dunque, questo comportamento? Mai avrei detto che mio fratello sarebbe stato così codardo da obbedire ad una donna. Non ricordi cosa il nostro Signore e Maestro ebbe a dirci allorché riprese la strada per l’esilio? Egli esortò i nostri spiriti a concludere le imprese senza che alcuna distrazione potesse impedirci di portarle a termine: così, dunque, tu verresti meno all’amore che egli ha dimostrato per noi in innumerevoli occasioni, per ottenere le lascive attenzioni di una pallida dama?”

“Fratello mio, i tuoi occhi sono divenuti sì ciechi da non riconoscere colei che è dinanzi a noi? Ella è la regina di Numenor, dama Ar-Zimraphel, sicché dovresti mostrarle maggior rispetto”.

Isildur sostenne a lungo lo sguardo della sovrana e a Miriel parve simile ad Himel allorché questi era giovane ed il fardello degli anni trascorsi in esilio non gravava ancora sulle sue spalle; infine parlò e la sua voce fu sì tagliente da risultare simile alle spade che Maeglin forgiava in Gondolin nei Giorni Remoti: “Come il cervo riconosce il lupo allorché fiuta il suo lercio umore nella boscaglia, così l’uomo probo avverte il pericolo che si cela nelle tenebre di questi giorni ancor prima che questo si manifesti. L’identità di tale donna non mi è sconosciuta, né potrebbe essere altrimenti, che dalla sua sopravvivenza è dipesa la dipartita del nostro Maestro. Rammenta quanto ti dico: ella conduce seco grandi disgrazie”.

Incerto, Anarion chinò il capo dubbioso: poco o punto note gli erano all’epoca le vicende del principe degli Hyarrostar ed egli non aveva ancora conseguito la maggior età quando il conflitto tra Fedeli e seguaci di Pharazon imperversava nella sua patria e nelle colonie; infine, poiché riteneva il silenzio ben più grave di qualunque offesa ed il suo era un animo incline al perdono e alla clemenza, così rabbonì il fratello:

“Amico mio, quanto tu affermi io non posso negare, ché all’epoca ero troppo giovane per ricordare simili eventi e sovente la memoria produce inganni ben più di gravi di quelli che conducono seco le parole pronunciate frettolosamente: lascia, dunque, che la regina parli dinanzi a noi o se non vuoi ascoltare quanto ella intende rivelarci, lascia che io rimanga in sua compagnia”.

Isildur mirò il fratello ed il sospetto che aveva dipinto sul volto fu sostituito dall’affetto, senza che esso, tuttavia, trovasse modo di scalfire la dura maschera che il principe di Andunie recava onde indurre i nemici a temerlo; speranza fugace si dimostrò questa negli anni a venire, che egli confuse arroganza con orgoglio e fece della sua rabbia una forza che non seppe controllare a lungo e che, al termine della sua vita, non gli giovò affatto; tuttavia, poiché altrove si narra di quanto accaduto al termine della seconda era, qui non si troverà altro cenno.

“Dal momento che la tua clemenza si è dimostrata di gran lunga superiore alla tua – e qui parve che la voce di Isildur si incrinasse per un attimo – comprendo perché il Maestro nutra una tale fiducia nei tuoi riguardi, fratello mio. Puoi rimanere, se tale è il tuo desiderio; io perseverò nell’allenamento, ché non sarà lontano il giorno in cui le Orde che costei ha così impunemente introdotto nel nostro reame saranno nuovamente affamate ed il loro Signore reclamerà quanto in passato non è riuscito ad ottenere con l’inganno e con la corruzione”.

“Nostro padre non condivide il tuo parere, fratello” mormorò Anarion e l’eco delle sue parole si perse nella bruma della sera.

“Elendil della casa di Andunie ignora molte cose – adesso il tono di Isildur era divenuto nuovamente cupo – né dovrò attendere a lungo prima che possa mutare parere”. L’erede di Silmariel sospirò, infine parlò nuovamente prima di prendere congedo: “Mostra cautela nei confronti di codesta dama, ché non si dica che tu sia caduto nel medesimo errore di chi in passato mostrò infinita stima ed amore nei suoi confronti”.

Non si era ancora spento l’eco delle sue parole che la lieve, ma stanca voce di Ar-Zimraphel si levò: “Figlio di Elendil, sei molto simile al tuo Maestro nel portamento e nella fierezza e se la mia lungimiranza non è del tutto scomparsa, dirò che verrà il tempo in cui lo supererai per fama e per abilità nelle arti del combattimento; tuttavia non sembri aver ereditato da lui la medesima cortesia e comprensione”.

“Così è – replicò lui fiero – dove l’hanno condotto, infatti, simili pregi? In tale epoca di terrore e di disperazione, io li considero poco più che lussi per quanti non possono o non vogliono rinunciare a qualcosa che non esiste o che è stato tale solo molti anni fa”.

“Non conosci gli avvenimenti di cui così impunemente discuti con me e con tuo fratello!” replicò lei, irata per la risposta che suo cugino aveva pronunciato.

“Conosco quanto il mio cuore sa essere vero; le tue menzogne non hanno presa sul mio animo, né la mia mente intende farle sue: credi, forse, che io abbia obliato quando accadde diversi anni fa? Ero giovane, è vero, eppure sufficientemente abile a discernere il vero dal falso, la mente dal cuore: se un tempo colui che rivolse i suoi pensieri a te fosse stato ispirato da un volere simile al mio, forse il destino di quanti oggi vagano per questa terra martirizzata dalla guerra sarebbe stato diverso”.

“Sei abile nelle parole, giovane othar – gridò Ar-Zimraphel, e nei suoi occhi comparve la rossa fiamma della collera – ma vi sono ancora molte abilità che ti sono precluse e che forse lo saranno fin quando Mandos non recederà i fili della tua vita!”

Isildur impallidì, ché egli temeva la morte sopra ogni altra cosa; tuttavia, poiché non desiderava che il suo avversario approfittasse del suo stato d’animo, fattosi forza replicò: “L’ora in cui Mandos reclamerà il mio spirito è sconosciuta ad entrambi, donna; mostri ipocrisia reclamando un simile dono di lungimiranza, ché esso è quanto di più lontano da te adesso ed io questo non lo ignoro.” Rise a lungo e dopo averle rivolto un inchino beffardo, si allontanò svelto.

Anarion gli rivolse un ultimo sguardo prima che sparisse, infine sospirò a lungo: “Perdona mio fratello per le parole avventate che ha pronunciato dinanzi a te; il suo animo non ha trovato più pace dal momento in cui Erfëa ha abbandonato questa contrada ed egli cova nel suo animo vendetta contro chi l’ha tradito.”

Sulle prime Ar-Zimraphel nulla ribatté, infine parlò e la sua voce fu compassata come lente sono le foglie a cadere nel grigio meriggio di un giorno d’autunno: “Non è l’ira di Isildur che io temo, ché egli poco o punto conosce di me ed i suoi ricordi sono distorti dal rancore di chi più non è qui e vaga lontano, in contrade remote”.

“Mia signora – rispose Anarion dolcemente – quanto più cara fu la persona che inferse la ferita, tanto più essa procura dolore in chi la riceve”.

“Cosa credi, dunque? – e la collera della regina fu nuovamente visibile – che il mio cuore non sanguini per quanto accaduto? Solo perché la sua ferita è visibile, tuo fratello riceve i conforti che nessuno ha mai rivolto al mio animo: tutto in questa terra mi è ostile, compresi quanti dovrebbero tutelare la mia esistenza!”.

Il secondogenito di Elendil le prese la mano destra e portandola al cuore, pronunciò sagge parole di conforto: “Non conosco bene quali timori e quali angustie turbino l’animo della mia regina, tuttavia ella potrà trovare in me un amico con il quale dissipare i propri dubbi. Suvvia, dunque, raccontatemi dei giorni passati, allorché colui che adesso chiamano il Principe Ramingo era il Signore di una contrada oggi abbandonata”.

Stupita, Ar-Zimraphel mirò a lungo il giovane uomo che infinita premura aveva mostrato nei suoi riguardi e per lunghi istanti solo la voce del ricordo parlò in lei: infine, quasi che fosse stata risvegliata da un lungo torpore, ella si mosse e gli cinse le forti spalle ed il robusto petto, ed essi rimasero a lungo l’uno nelle braccia dell’altro, trovando quel conforto che altrove era stato loro negato.

“Himel, che voi chiamate Erfëa, era abile con le parole così come lo era con la spada, né voi siete da meno: la mia gratitudine nei vostri confronti in questo momento supera il dolore che a lungo ha attanagliato il mio cuore. Ho da rivolgervi, dolce amico, una preghiera: sapreste allietare il mio animo con l’ausilio di un dolce strumento? In cambio, io accompagnerei la vostra musica con il mio canto”.

Sorrise a lungo Anarion, ed il suo fu tuttavia un triste gioire, ché egli era lungimirante e capiva che altro la sovrana non vedeva in lui se non un’ombra di colui che era stato in passato il suo Maestro: non volle, tuttavia, declinare il suo invito, ché egli sapeva quanto ella fosse volubile e temeva che la pazzia latente che covava nel suo sguardo sarebbe divenuta tosto un morbo che avrebbe finito con il divorare quanto ancora serbava dell’amore che aveva ricevuto un tempo; era ancora un giovinetto allorché Erfëa aveva ottenuto il titolo di paladino che gli spettava di diritto e sebbene di quei remoti giorni avesse preservato un pallido ricordo, pure era stato fra coloro che avevano rifiutato di prestare giuramento a Pharazon ed aveva appreso molto dal suo Maestro allorché era stato ospite di Amandil nei mesi trascorsi.

Lesto, un servo della dimora condusse al suo Signore l’arpa che un tempo era stata di Gilnar e che Erfëa gli aveva regalato allorché si era congedato da lui, ed Anarion suonò una ballata che gli elfi di Gil-Galad avevano insegnato ai suoi avi: lesta, la chiara voce di Ar-Zimraphel intonò un canto triste sulla caduta del Doriath: incuriositi ed affascinati da quanto si udiva riecheggiare tutt’attorno, uomini e donne, infanti ed anziani, aprirono i loro usci che la saggezza di quei tristi giorni consigliava tener ben chiusi e si diressero, dapprima incerti ed inquieti, verso il mare, ed i loro silenti sguardi furono testimoni di quanto più non avrebbero visto nel corso delle loro pur lunghe vite. L’erede minore di Elendil sedeva sulle rocce che la furia di Ulmo aveva smussato nel corso dei lunghi secoli ed i lunghi capelli neri che egli ora recava sciolti parevano ondeggiare seguendo il ritmo delle note che dalla sua arpa si sprigionavano: accanto a lui, la voce della sovrana di Numenor si librava chiara nell’aere e le sue tristi lacrime si mescolavano con quelle fiere e rabbiose di Ossë. Non vi era pietà, né cordoglio negli sguardi di coloro che erano del popolo di Andunie, ché essi erano dei Fedeli ed erano cresciuti in numero negli ultimi anni, da quando il decreto di Ar-Pharazon aveva costretto quanti erano di quel partito ad abbandonare le loro avite dimore per trasferirsi nel feudo degli eredi di Silmariel: con loro erano anche quanti dello Hyarrostar erano sopravvissuti alla guerra civile e non avevano ancora abbandonato i lidi a loro cari, non obliando tuttavia il ricordo di quei giorni infelici, né la fedeltà ad Erfëa; essi, ad ogni modo, compresero che il dolore di colei che un tempo chiamavano Miriel e che amavano sopra ogni altra dama della casa reale, era quello di chi aveva ceduto la sua libertà per preservare l’esistenza di una persona a lei cara. Non avevano, forse, anch’essi rinunciato a quanto avevano di più caro, accettando di trascorrere i loro giorni nell’amara agonia del rimorso? Non avevano, forse, respinto quanto i loro cuori agognavano per prestare fede al giuramento che nessun sovrano, per quanto crudele fosse, avrebbe mai potuto spezzare, neppure con la più crudele delle torture? Non era, forse, vero che anch’essi avevano amato Erfëa quanto la loro sovrana ed erano in questo accomunati dalla perdita? Dapprima esitarono, che il cantare era reputato disdicevole in simili giorni di terrore, infine, alcuni, fra i più giovani, acquisirono coraggio e così rimproverarono quanti ancora erano incerti sul da farsi: “Orsù, dunque, voi che combatteste contro colui che si fece tiranno calpestando le leggi e la tradizione di questo regno, avete obliato il ricordo della felicità dei tempi passati? Cantate, ché nessuno possa dire i Fedeli essere sì prostrati da aver tema di esprimere simili sentimenti! Cantate, voi che sovente avete narrato a noi giovinetti quanto forse i nostri occhi mai mireranno! E forse, giacché la nostra vista mai si soffermò su giorni più felici, il nostro cuore può fare a meno di ignorare il desiderio di inneggiare a quanto ci sarà per sempre negato? Cantiamo, dunque, ché i tiranni odano l’eco delle nostre voci e seppur indaffarati nel tetro gozzovigliare delle loro orge, temano il nostro canto come un tempo temevano le nostre lame!”

In principio, dunque, fu solo un giovane a levare il suo canto ed Anarion, che pure aveva udito poco o punto di quanto i Fedeli avevano discusso, comprese che la sua musica non era più consona ai sentimenti che egli, di gran lunga il più lungimirante fra i principi presenti, comprese essere vivi nei cuori dei suoi sudditi e mutò gli accordi sull’arpa, levando una melodia che egli non sapeva donde derivasse e che in seguito non seppe più riprodurre: Ar-Zimraphel, che era discesa lungo il crinale della scogliera, lasciando che la brezza marina le scompigliasse i lunghi capelli e l’acqua le lambisse i lembi inferiori del lungo abito grigio, resasi conto, seppur in ritardo rispetto al cugino, del mutamento che il canto del popolo aveva indotto nel suo cuore, mutò il proprio canto di dolore in uno che fosse colmo della medesima letizia che aveva colto gli animi che erano con lei e le sue lacrime cessarono di scorrere sulle gote che il vento percuoteva con forza. […]

Anarion, il quale era intento a pizzicare le corde della sua arpa, pur non riuscendo a scorgere l’oscuro sembiante dell’erede al trono di Numenor, né ad ascoltare le parole che costui aveva pronunziato a bassa voce, ebbe però il cuore turbato da un improvviso male, sicché abbandonò lo strumento ed il suo canto tosto tacque: Ar-Zimraphel, che era in basso ed aveva il mente ed il cuore colmati dalla possente voce di Ossë, se ne avvide in ritardo e stupita gli si volse con codeste parole: “Perché hai dunque arrestato il tuo canto? Perché le tue forti dita non stringono più le corde della tua arpa? Vi è forse qualcosa o qualcuno che turba il tuo cuore?”

“Sì – replicò dopo un lungo silenzio il figlio minore di Elendil – tuttavia non desidero farne parola con colei che tollera un dolore ben più forte del mio”.

Ar-Zimraphel, tacque, a sua volta irretita dalle parole che suo cugino aveva adoperato; infine, dopo che il popolo si ebbe ritirato nelle sue dimore, ella prese per mano Anarion e lo condusse nei pressi di un’isolata cala, ove solo gli uccelli e le foche osavano disturbarne la quiete: sospirò, infine parlò: “Non credere che io ignori quanto il tuo cuore crede di essere l’unico a conoscere, né che io non comprenda la tua ritrosia nel parlarne: sii felice, piuttosto, di non essere stato turbato allo stesso modo e di non dover rimembrare, ogni dì ed ogni notte, i terribili spasimi e le atroci sofferenze che accompagnarono la sua nascita”.

Anarion, profondamente infelice, volse il suo sguardo al mare, ed esso gli parve terribile a vedersi: sconvolto da tale paura, egli si risolse ad osservare una grigia foca che pareva fissarlo intensamente da uno scoglio; la sovrana, alla quale non era sfuggito il timore che il suo giovane amico aveva tosto mostrato nei confronti del mutevole dominio di Ulmo, sorrise e mirò lungi all’orizzonte: “Scorgo nei tuoi occhi il medesimo timore che agitava lo sguardo di Himel  allorché egli era giovane ed insieme percorrevamo i sentieri degli ormai abbandonati giardini della reggia di Armenelos”.

Anarion, al quale non era sfuggita la malinconia che pareva impossessarsi della sovrana allorché discorreva del suo antico amante, non poté tuttavia sorprendersi dalla domanda che pose alla sua interlocutrice: “Per quale motivo Himel mostrava inquietudine allorché scorgeva il mare?”

“Al tempo in cui avvennero i fatti di cui ti racconterò adesso, Himel non era ancora maggiorenne e, sebbene io lo chiamassi con il medesimo nome con il quale ancora oggi lo rievoco, pure egli era ancora noto con il patronimico[1]”.

La regina arrestò per un istante la narrazione, quasi che la sua mente andasse a quei lontani tempi, indi parlò nuovamente:

“All’età di quindici anni, per alcuni mesi, fui solita trascorrere le mie giornate in compagnia di Himel e credo che egli fosse felice della mia presenza, sebbene non fosse solito rivelarmi apertamente i suoi sentimenti: nessun altro si univa a noi ed il tuo Maestro non rivelava inquietudine per quanto accadeva e, sebbene io fossi più giovane di lui di alcuni anni, pure il suo viso esprimeva grande letizia allorché gli porgevo la mano perché lui la baciasse dolcemente. Accadde, dunque, che un caldo giorno di primavera, avendo intenzione di mirare le prime navi di pescatori che giungevano ai porti occidentali dopo aver trascorso in mare aperto la prima settimana di pesca, lo pregassi di seguirmi lungo lo stesso sentiero che abbiamo percorso questa mattina; egli era esitante e, per la prima volta dacché l’avevo conosciuto, sembrò intimorito: ancor più bello mi parve il suo sembiante, tuttavia, ché egli, finalmente, si mostrava a me senza che i suoi pensieri reali fossero stati occultati dalla maschera che era solito indossare. Himel, tuttavia, non comprese il mio sguardo, o forse, al contrario, lo intese fin troppo bene ed andò in collera: “Perché mi guardi così? Credevi forse che io non fossi un Uomo e che in me non scorresse lo stesso sangue che è nelle tue vene? Ho timore delle distese di Ulmo e nel mio cuore è forte il timore che esse, sollevandosi un dì, cancelleranno quanto vi è di più caro su questa isola ed i giorni di Numenor termineranno bruscamente. Non desidero che i tuoi occhi si posino sulle acque oscure che la luce di Anor non riesce a penetrare, né gradisco che il tuo animo sia preso dal desiderio di solcarne le remote vie che i Secondogeniti non dovrebbero mai voler percorrere.”

“I miei occhi, che in principio erano stati ricolmi delle lacrime che la durezza di quelle parole avevano suscitato in me, furono infine colmi di amore, ché mi avvidi per la prima volta – sebbene in me il dolce sospetto fosse presente già da qualche tempo – che Himel mi amava a tal punto da temere che qualche sciagura potesse abbattersi sul mio capo; allora, intenerita, gli presi la mano e la portai al mio volto da fanciulla, ove la mia pelle l’avvertii calda al tatto: per lungo tempo rimanemmo immobili lì ove gli oleandri affondano le loro radici nelle grigie scogliere che dai monti corrono al mare e non udimmo altro suono che l’eco delle onde infrangersi sulla battigia. Eppure, ben presto, avvertii un altro suono più dolce ad udirsi e mi avvidi che i battiti del mio cuore si susseguivano senza tregua l’uno dietro l’altro: arrossii allora e feci per svincolarmi dalla mano di Himel, eppure egli non intendeva lasciarmi andare via; avvicinò la sua bocca al mio capo e mi parlò dolcemente: “Perdona il mio accesso d’ira: era la paura a parlare in me, ché forte sarebbe nel mio cuore il dolore se dovessi perderti ed io non avrei voluto che tu abitassi sì vicino ai feudi di Ossë; tuttavia, poiché tale mio disio non è per il momento realizzabile, vorrei che tu potessi trovare in me sostegno ed affetto: Himel è il mio nome ed io ti chiamerò Miriel, ché non vi è altra fanciulla su questa isola in grado di eguagliare la tua bellezza.”

Arrossii in volto, sebbene le luci del tramonto occultassero, almeno in parte, il mio imbarazzo e risi, nel vanto tentativo di smorzarlo: “Il principe dello Hyarrostar è invero un uomo astuto, ché vuole cancellare dalla mia mente il ricordo della sua ira, sostituendo a tale eccesso un altro non meno falso, figlio della sua gentilezza: egli non abbisogna, tuttavia, di simili mezzi per ottenere il mio perdono, ché altrimenti sarebbe vana ogni mia parola ed essa suonerebbe alle sue orecchie niente altro che una cortese replica alle osservazioni che mi ha rivolto.”

Gli occhi di Himel, la cui luce splendeva nelle tenebre più chiara di quella che un diamante emette quando un raggio di sole vi si posa sopra, erano su di me ed io avvertii, per la prima volta nella mia vita, ritrosia mista ad una profonda eccitazione: arrossii nuovamente, tuttavia incrociai le braccia in segno di diniego e cercando di mostrargli quanto forte fosse il mio orgoglio, serrai le labbra ed assunsi un espressione certo buffa a vedersi; Himel rise, ma non vi era malizia nella sua voce, ché il suo volto aveva assunto la stessa tonalità del mio ed era vittima dello stesso artificio, sicché si limitò a pormi questa domanda: “E se invece ogni parola si fosse rivelata vera ed in me non avesse parlato la cortesia, bensì un sentimento più profondo, quale sarebbe stato il tuo parere?”

Esitai a lungo prima di rispondergli, perché avevo tema di quanto potere le parole che avrei potuto pronunciare in quella ora avrebbero potuto esercitare nei nostri animi, così timorosi eppure infinitamente inebriati dal nettare che il caldo vento del sud recava seco; infine, avvedendomi che la mia volontà di resistere veniva meno e che le mie braccia tendevano al suo forte e aggraziato collo, gli posi una domanda che non avevo mai avuto il coraggio di porgli, essendo stata fino a quel momento la mia paura superiore alla curiosità.

“Himel – gli domandai, assaporando lentamente quel nome mentre lo pronunciavo – all’Accademia Reale sono soliti chiamarti Erfëa, che nella lingua degli Eldar significa “Spirito Solitario” e corre voce che tu, anziché disdegnare questo nome, ne vada fiero, al punto tale che lo preferisci a quelli che tuo padre e tua madre ti hanno assegnato allorché eri in culla. Se tali voci sono veritiere, perché adesso hai rivelato il tuo vero nome alle mie orecchie, conscio del valore che esso ha presso il tuo popolo e, ancor più, presso di me?”

Anarion annuì, infine parlò a sua volta: “Se davvero hai posto un simile quesito a Morluin, allora egli ha amato l’unica donna che avrebbe potuto comprenderlo. Ignoravo che fossi a conoscenza del suo nome reale, ché egli ha sempre taciuto su ciò e parlava raramente del suo triste passato, se non quando rimembrava a me e a mio fratello le storie che aveva appreso presso lontani popoli che ancora oggi dimorano, forse, in contrade che nessun altro Numenoreano sarebbe più in grado di rintracciare; della sua vita privata, tuttavia, era sempre molto restio a parlare ed egli non si confidava né con mio padre né con mio nonno: fu con me, allorché fece ritorno alla terra natia, che aprì il suo cuore. Ignoro per quale motivo abbia agito in siffatta maniera, ché non sono sì lungimirante da intendere quanto è nell’animo del mio Maestro: tuttavia, egli ebbe a dire che sovente intravedeva nei due eredi di Elendil i propri figli e, sebbene abbia trascorso poco tempo con noi, non è mai stato parco di affetto o di consigli nei nostri confronti”.

Ar-Zimraphel sorrise e parlò dolcemente: “Ignoravo quanto testé la tua voce ha pronunciato dinanzi a me, ché Himel di rado si confidava con qualcuno e quando ciò avveniva era a causa di grandi turbamenti”.

Anarion annuì, sebbene non osasse rivelarle che a nessun altra donna od elfa, neppure ad Elwen, che pure godeva di infinita stima nel cuore del Principe e della quale molto aveva sentito narrare dalla sua bocca, era stato rivelato il proprio nome segreto e ciò per tema che l’animo della sovrana, da tempo provato dal dolore e dall’infelicità di quei giorni amari, avesse a soffrirne ulteriormente, rimpiangendo con maggior forza la sua folle scelta; trattenuta a stento, dunque, la sua curiosità giovanile, egli domandò ad Ar-Zimraphel cosa avesse risposto Erfëa al quesito che gli aveva posto.

“Egli rimase in silenzio per lunghi istanti – proseguì allora la figlia di Tar-Palantir – ed io, seppure non sapessi presagire che tipo di reazione avrebbe avuto, pure non venni meno alla mia domanda e non distolsi lo sguardo dai suoi occhi; infine, il suo volto, che ascoltando le mie parole era divenuto scuro e silente, parve rischiararsi ed egli parlò, dapprima con tono di voce basso, infine riacquistando la sicurezza che gli era propria: “Non avrei mai immaginato – rispose – che tu mi avessi posto un simile quesito e questo non perché dubiti del tuo coraggio o della tua lungimiranza, ma a causa della diffidenza che il mio corpo sembra alimentare in coloro che mi circondano e della quale, tuttavia, tu sembri essere esentata: possa la tua fiducia nei miei confronti non venire mai meno negli anni successivi”.

Ar-Zimraphel si interruppe e proruppe in un grido angoscioso da udirsi, piangendo a lungo: “Himel, Himel, manan hehtanelyen?[2] Infine, la fresca brezza dell’oceano parve giovarle ed ella si riprese, sebbene fosse riluttante nel proseguire la sua narrazione; tuttavia, poiché in Anarion scorgeva molto della gentilezza e della mitezza del suo signore – ché egli, invero, sapeva essere dolce come miele, sebbene il suo carattere abituale stridesse palesemente con tale affermazione – si fece forza e proseguì il racconto: “Himel, dopo aver accarezzato più volte il mio viso, sorrise e mi invitò ad osservare la volta celeste, che nel frattempo era stata rischiarata dalla luce degli astri notturni: restammo a lungo vicini, il mio capo appoggiato alla sua spalla ed egli infine, mi domandò se sapessi per quale motivo Ithil fosse sì pallido rispetto ad Anor.

Non sapevo per quale motivo mi avesse posto una simile domanda ed ero al momento decisa ad ignorare l’indecisione che mostrava nel rispondere al mio quesito iniziale, sicché mi limitai a sorridere ironicamente; egli allora mi sollevò il mento ed approssimò il suo volto al mio: “Ithil è pallido perché Amore lo indebolisce, mentre Anor è rosso, ché è divorata dalla gelosia nei confronti del congiunto: quaggiù, infatti, vi sono astri che brillano a tal punto da confondere le menti degli Ainur.”

Arrossii; infine, ignorando il disio più grande che avevo nel cuore, gli chiesi perché esitasse a rispondere alla mia domanda, tuttavia egli non parve inquietarsi e riprese a parlare: “La mia risposta poteva attendere ancora qualche istante, né era nel mio animo la volontà di ignorare quanto desideri apprendere; sappi, infatti, che da lungi desideravo tu mi ponessi un simile quesito. Sospirò per un istante, infine aprì una tasca all’interno del suo mantello e ne trasse un minuscolo gioiello: la chiara luce di Ithil ne rischiarava la superficie ed esso brillava intensamente. Himel lo accarezzò a lungo, infine, con un lesto movimento della sua mano, lo mostrò ai miei curiosi occhi ed io non potetti trattenermi dal lanciare un piccolo grido. Nessun occhio femminile, mi rivelò, aveva scorto quel gioiello, ché non dalla fucina di un uomo di Numenor o dai porti elfici nella Terra di Mezzo proveniva, bensì da Tol-Eressea o, forse, dalla gloriosa Valinor che si ergeva al riparo della sua mole; rimasi in silenzio a fissare quanto la sapiente arte dei Vanya aveva creato ed esso mi parve risplendere della luce di tutte le stelle di Varda, né tale pensiero mi parve inappropriato: appesa ad un’esile catenella di fine argento, come solo Celebrimbor nei giorni remoti sarebbe stato in grado di forgiare, vi era infatti una bianca stella. Affascinata, sfiorai l’oggetto con le mie dita e mi accorsi, con sommo stupore che, nonostante la gran quantità di luce che essa emanava, la sua superficie era fredda come l’Oceano ed il mio cuore ne fu turbato: tali erano i miei pensieri, in quell’ora incerta, che in principio non mi avvidi delle parole che Himel prese a pronunciare dinanzi a me, dapprima a bassa voce, indi con tono crescente».

Fine (I parte)

[1] Presso i Numenoreani, che avevano mutuato questa tradizione, come molte altre, dai figli di Fëanor, era consuetudine assegnare ad ogni nascituro non solo il nome del quale il padre se ne serviva per riconoscerlo come proprio figlio e attraverso il quale avrebbe esercitato la patria potestà fino al compimento della maggior età di costui, ma anche il matronimico. Giunto alla maggiore età, il Numenoreano aveva la facoltà di confermare il patronimico o di mutarlo a suo piacimento; accanto al nome “pubblico” che egli sceglieva in tale occasione, vi era anche il suo nome “privato”, che secondo alcuni rappresentava il vero nome e che veniva segretamente custodito, sicché non compariva neppure nei registri reali, per tema che qualcuno potesse scoprirlo; esso, di norma, veniva confidato solo agli amici più intimi e al proprio coniuge, dopo che con questo avesse trascorso la prima notte di nozze. Per tale ragione, dunque, è da ritenersi un atto di estrema fiducia quello che Erfëa compì nei confronti di Miriel, allorché le rivelò il suo vero nome; secondo le scarse testimonianze sopravvissute alla Caduta e che furono raccolte da Meneldil, quartogenito di Anarion, i nomi dell’ultimo principe dell’Hyarrostar furono questi: Ëarel (patronimico) Mîrmoth (matronimico) Erfëa (nome pubblico) Himel (nome privato ossia vero nome).

[2] “Himel, Himel, perché mi hai abbandonata?” nella favella degli Elfi Noldor.

 

In difesa di Osgiliath (III parte)

Prosegue la narrazione dell’assedio di Osgiliath. In queste pagine Erfea e i suoi compagni discutono intorno alla follia della guerra, capace solo di recare lutti a quanti la combattono e riflettono sulle colpe dei Numenoreani nell’aver spinto i popoli del Sud e dell’Est ad allearsi con Sauron. Buona lettura!

«Infine l’oscurità opprimente disparve dal cuore dei liberi popoli ed essi accorsero ad armarsi: manipoli di fanti furono formati e i cavalieri montarono sui loro destrieri, mentre gli arcieri correvano a schierarsi lungo le mura e incoccavano nere frecce dalla punta acuminata. Simili a un’oscura marea, simili a una fiamma destatasi a oriente che nel suo percorso consumi ogni cosa che incontri, così le truppe di Mordor mossero all’attacco e il secondo assedio di Osgiliath ebbe inizio; possenti macchine da guerra, spinte da bestie senza nome, furono avvicinate alle bianche mura che nessun nemico aveva mai oltrepassato, mentre cavalieri provenienti dalle remote contrade del Khand e dall’Harad cavalcavano rapidi attorno alla città, scuotendo corte aste sugli scudi guarniti di punte acuminate in bronzo e di oscene figure in oro; crudeli capitani aizzavano le loro truppe e l’eco delle loro alte voci giungeva alla città. Esterling, armati da pesanti mazze e da scuri in ferro, si inerpicavano sulle rozze passerelle che dalle alte torri d’assedio sporgevano, mentre arcieri giunti dalle terre dei Chey a meridione e frombolieri delle isole di Wolim bersagliavano di proiettili avvelenati i soldati dell’Alleanza. Nessun Orco, né Uomo fu risparmiato dal Re Stregone durante il suo attacco alla città; eppure, la forza e il coraggio dei Figli di Iluvatar non vennero meno e nel cuore del condottiero delle schiere di Mordor crebbe l’odio per coloro che si opponevano con tenacia e successo ai piani del suo padrone: algidi arcieri elfici, la cui maestria è divenuta leggendaria nel corso dei secoli, colpivano senza esitazione i fanti delle schiere di Mordor e nessuna freccia mancò il bersaglio; Nani, il cui spirito battagliero era stato temprato da innumerevoli scontri con le schiere del Maia Caduto, impedivano agli Orchi di stabilire una testa di ponte sulle mura e questi trovarono la morte in gran quantità, i loro miseri corpi squarciati dalle asce dei Figli di Aule o fatti precipitare dalle scale da abili tiri degli arcieri elfici e gondoriani. Gli Eothraim si disposero lungo le mura di Osgiliath, sì larghe da poter consentire a tre Uomini a cavallo di manovrare e finanche di caricare, facendo strage di quanti, risparmiati dalle frecce, riuscivano ad approdare sugli spalti; fanti gondoriani, armati di lunghe spade e possenti scudi trucidavano i soldati di Mordor e sovente riuscivano a incendiare le massicce torre mobili; allorché una di queste prendeva fuoco, coloro che erano all’interno perivano a causa del grande calore che esse sviluppavano e l’assedio subiva una pausa. Per giorni e notti si combattè nella Città delle Stelle e le schiere di Mordor erano sbigottite dalla resistenza che i Popoli Liberi opponevano loro; esigua, tuttavia, era l’armata dei difensori e sebbene il valore compensasse l’inferiorità di numero, pure essi si ridussero progressivamente, né giungevano altri rinforzi a Osgiliath. Erfea Morluin non si era risparmiato negli aspri combattimenti che erano sorti sulle mura e nei pressi del cancello, sì che il suo mantello era stato marchiato in più di un’occasione dal vermiglio marchio del coraggio; pure, egli esortava sovente i suoi Uomini a resistere, ché era conscio di quale valore avesse per il nemico la presa della città: conquistato il passaggio del fiume, infatti, le sue armate si sarebbero impadronite con facilità di Minas Anor e le truppe dell’Alleanza, posto che avessero ancora avuto la forza di radunarsi e di correre in soccorso delle genti del Sud, non avrebbero trovato altro che rovine e morti.

Una mattina di giugno, il Sovrintendente di Gondor si inerpicò sugli spalti del cancello orientale, mentre l’assedio subiva una pausa e gli Orchi e le altre creature dell’Oscuro Signore erano rintanate nei loro bivacchi, festeggiando quella che pareva essere loro una vittoria prossima; nessun altro era con lui, ché Groin e Bor erano intenti a verificare quali danni avessero subito gli edifici e le mura, mentre Edheldin e Glorfindel assistevano i feriti ricoverati nelle Case di Guarigione con l’ausilio dell’Antica Arte Medica dei Noldor in esilio, e Herim ed Herugil si occupavano dell’addestramento dei nuovi soldati e dell’approvvigionamento delle truppe. Stupore dunque si dipinse sul volto di Erfea, allorché egli scorse Ariel e Aldor affacciati alla balaustra dell’ampia terrazza che circondava il palazzo reale; i loro visi non erano visibili, né le affettuose parole che si scambiavano erano echeggiate nell’orecchio del Dunadan, ché il vento soffiava da ponente e conduceva con sé ratto ogni suono proveniente dalla città. Lesti si voltarono tuttavia i due capitani allorché percepirono il pesante passo del Numenoreano e la luce che brillava nei loro volti tradì quanto i loro cuori non osavano confessare: “Quali notizie, Erfea, dal capezzale del sovrano? Riuscirà Anarion a sopravvivere al triste fato che l’ha colpito?” gli domandà Aldor Roch-Thalion.

A lungo inspirò il figlio di Gilnar, prima di rispondere a tale quesito, la mente e il cuore immersi nel ricordo di giorni perduti e ormai remoti; infine egli rispose, pronunziando stanche parole: “Un grave morbo ha debilitato il nostro sire ed egli vaneggia, senza tuttavia riuscire a recuperare lucidità e vigore; sovente l’ho udito nelle notte gemere e Meneldil, erede del sovrano, si erge accanto a suo padre, scuro in volto, senza pronunciare parola alcuna; nessuno fra coloro che conoscono l’antica Arte delle Erbe comprende l’origine del male che ha colpito Anarion, figlio di Elendil, anche se vi è chi suppone possa essere stato colpito da una lama infetta di un qualche veleno quale la nostra arte e quella degli Eldar non è in grado di curare”. Triste, il volto di Erfea mirò la pianura sotto di sé, infine esclamò: “Quanta morte mirano i miei occhi! Infiniti sono i corpi che giacciono abbandonati nel campo della battaglia, oltraggiati dagli uccelli rapaci e dai cani famelici; eppure, io credo che massima offesa provenga non già da simili bestie, feroci per natura e istinto, bensì dalla follia degli Uomini che ha condotto tanti dei loro simili a codesto triste sentiero”. Silente Ariel osservò il volto del sire Dunadan e scorse pietà e rimorso nel suoi occhi; stupita allora lo osservò, perché aveva sempre creduto che egli fosse un Uomo d’arme e non già depositario di una saggezza come pochi fra i Secondogeniti potevano vantare di possedere; timore e reverenza sorsero nel suo cuore e sebbene il suo spirito fosse quello di una rude guerriera del Nord, poco avvezza alle cortesi parole che sovente i Dunedain erano soliti scambiare fra loro finanche in tempi oscuri, pure ella gli sfiorò il viso, commossa. Sorrise allora Erfea e per un istante la malinconia che attanagliava il suo cuore parve scomparire; tosto, tuttavia, egli si incupì nuovamente e il suo sguardo si diresse lungi da Osgiliath, fino ai contrafforti montuosi dell’Ephel Duath; oscure nubi, prodotte dalle continue eruzioni che scuotevano in quei giorni l’Orodruin, lambivano il cielo a oriente e occultavano alla vista del Dunadan numerose legioni del Nemico; invisibili sembravano costoro, eppure, tale era la malvagità che le animava, che Erfea non poteva ignorarne la presenza. Al suo fianco, Aldor Roch-Thalion si ergeva silente; non paventava lo scontro con le schiere del Nemico, ché il suo popolo era spietato e molto lo temevano gli Orchi e gli altri servi di Sauron: guerriero implacabile, pure nel suo cuore l’Alto Theng del Rhovanion desiderava che tale guerra si concludesse quanto prima, ché molto la sua gente aveva sofferto e, sebbene egli non comprendesse appieno le parole che il Numenoreano aveva testé pronunciato, pure il suo animo era sconvolto dalle inaudite crudeltà che le schiere del nemico avevano inflitto ai prigionieri e ai caduti, torturandoli senza pietà alcuna e lasciandone i miseri resti agli aberranti lupi di Dwar e alle altre fameliche bestie di Sauron.

“Ben dici, Sovrintendente di Gondor, allorché affermi che tali Uomini sono periti a causa della follia e dell’arroganza; eppure, concorderai con me che essi sarebbero morti comunque e che tale fato rappresenti quanto di più nobile un guerriero possa desiderare. Nella spada e nella lancia, ogni soldato trova il compimento del proprio destino”. Erfea sospirò, infine così gli rispose: “Veritiere sono le tue parole, eppure non dimenticare che coloro i cui corpi giacciono desolati sulla pianura avrebbero potuto interprandere un percorso differente, se l’Oscuro Signore fosse stato sconfitto molti secoli prima e il suo spirito giacesse ora nelle Aule al di fuori del tempo e dello spazio. Forse é vero che il miglior giaciglio per un guerriero sono lo scudo e il lacero manto di cui è ricoperto, tuttavia io non credo che tale dovesse essere il destino ultimo dei Figli di Iluvatar, ché se non fosse stato per la vile azione di Morgoth e dei suoi servi, nessuna lama avrebbe baluginato nell’oscurità, né una freccia sarebbe stata scagliata imperiosa”. “Sagge sono le tue parole e non sarò io a metterle in discussione – interloquì allora Ariel – ché sei invero un Uomo savio e lungimirante; tuttavia, mi chiedo se tale responsabilità non sia da attribuire anche a coloro che seguirono la stolta volontà dei Signori della Tenebra: giorni fa, ci narrasti quali vicende condussero coloro che un tempo erano Uomini rinomati per la loro fama e forza a cederle all’Oscuro Signore, nell’illusoria promessa di ottenere da costui immortalità e gloria eterna; eppure costoro gli cedettero l’anima e rinunciarono al libero arbitrio, divenendo in tal modo i Nazgul, gli Schiavi dell’Anello. Non furono forse costoro malvagi fin da quando erano mortali, e non fu forse l’insana arroganza a condurne i destini verso una schiavitù eterna?”.“Quanto dici corrisponde solo in parte al vero, Ariel figlia di Aran; sappi, infatti, che neppure i Nazgul erano malvagi fin dalla nascita e che i loro animi furono corrotti dalla inopportune scelte che essi compirono. I racconti tramandataci dai Noldor affermano che finanche Sauron non si erse dal principio del mondo come seduttore dei Figli di Iluvatar, ché, in verità, egli era del popolo di Aule: quanto poi gli accadde in seguito, dimostra che nessun spirito è stato creato malvagio da Iluvatar, ché fu Melkor a desiderare che il tema della Musica fosse mutato a beneficio della sua gloria e della sua fama, ché molto desiderava creare la vita; eppure, sappiate questo, capitani dei Popoli Liberi, che solo Eru Iluvatar è il custode della Fiamma Imperitura, la stessa dalla quale ogni forma di vita su Arda ha avuto origine, e che neppure lo stesso Morgoth è stato in grado di conquistare. La vita e il dono del libero arbitrio sono stati affidati dall’Uno agli Uomini perché fossero adoperati come doni; eppure, sovente Morgoth e i suoi servi hanno ispirato nel cuore dei Secondogeniti angoscia e timore e reso tali doni una schiavitù che a molti è parsa insopportabile e intollerabile”. Aldor allora parlò: “Se quanto tu affermi corrisponde a verità, allora il potere del nemico è invero grande, se riesce ad attrarre a sé un gran numero di servi; poca pietà prova tuttavia il mio cuore per loro, ché molta sofferenza arrecarono ai nostri popoli e i loro nomi sono maledetti. Non rechi nel tuo cuore il medesimo astio che anima i miei sentimenti in tale ora oscura?”.“Signore del Rhovanion, davvero credi che le schiere dei Secondogeniti siano composte solo da Uomini che desiderano la distruzione dell’Ovest? Se tale è il tuo pensiero, allora sappi che è mendace, ché molti fra gli Uomini che servono Sauron sono stati attratti da menzogne infide; grave responsabilità hanno avuto, nell’aver contribuito a tale seduzione degli Uomini da parte di Sauron, gli scellerati atti che i Numenoreani fedeli al Partito del Re compirono a danno di tali popolazioni; molti fra coloro che oggi combattiamo, non hanno obliato i massacri che i loro padri subirono a causa della follia delle schiere di Tar-Ciryatan e dei suoi figli, e adesso la sete di vendetta si agita nei loro cuori. Quanto a me – soggiunse, scuro in volto – nel mio cuore provo pietà per codesti Uomini, ingannati da colui che ora noi combattiamo”. A lungo rifletté Ariel sulle parole che il Sovrintendente di Gondor aveva adoperato, infine così gli rispose: “Forse vuoi dire che il tuo animo e la tua mente sono colmi di tristezza per il destino di coloro che hanno oltraggiato le donne del tuo popolo e che hanno condotto alla perdita di Minas Ithil? Forse non vi è dolore nel tuo cuore per i guerrieri figli del tuo popolo che ora giacciono nella piana?” Furente era in volto il capitano delle Amazzoni ed ella si attendeva una veemente risposta da parte di Erfea: nessuna parola, tuttavia, fu pronunciata dalla bocca del Sovrintendente, che si limitò a osservare con i suoi chiari occhi la sua interlocutrice, finché questa, colma di vergogna e dolore, non abbassò lo sguardo e le lacrime ornarono le sue gote; allora Erfea parlò, ma non vi era rabbia nelle sue tristi parole: “Non una sola vita, ma due, a me infinitamente care, furono infrante dalla crudeltà delle armate di Sauron e nessuna vittoria sulla gente dell’Avversario potrà restituirmi Miriel di Numenor ed Elwen di Edhellond, il cui destino ultimo è noto a me soltanto; tuttavia, sebbene il ricordo di tali vicende non abbandoni mai il mio animo, ritengo che un cuore provato dalla malvagità e dalla follia degli Uomini, sia sovente condotto ad analoghe azioni infami. Nessuno, fra coloro che chiudono il proprio cuore ai saggi moniti che provengono da Valie, può sperare che simili avversità non colpiscano anche loro; e se non vi è dubbio che gli Haradrim e gli Esterling siano da condannare per la loro adesione alla causa del Nemico, pure, non meno grave è la colpa delle armate numenoreane dei secoli trascorsi, che molto sparsero sangue nella Terra di Mezzo, rendendo gli animi degli altri Secondogeniti deboli, perché permeati dal desiderio di vendetta, e succubi ai voleri di colui che fece dell’inganno il suo strumento di dominio sulle altre stirpi”.

Più discorso fu pronunciato quel giorno e per lungo tempo Erfea non scambiò parola con alcuno dei capitani, la mente e il cuore rivolti altrove; infine, una mattina, furono uditi squillare numerosi corni nella piana e gli eserciti di Mordor si prepararono ad avanzare nuovamente; leste squillarono le trombe nella città e i soldati dell’Alleanza corsero ad armarsi, consapevoli che tale assedio avrebbe potuto essere l’ultimo per la Bianca Città, ché erano state fatte avanzare le possenti macchine d’assedio forgiate nell’oscurità delle fucine di Barad-Dur dai Nani appartenenti alla stirpe di Bavor; i poderosi trabucchi, i cui imponenti bracci erano assicurati alle massicce strutture in legno e acciaio che ne sorreggevano l’enorme peso, furono condotti avanti da bestie senza nome, quali mai erano state avvistate fino a quel momento. Presagendo in cuor suo gravi sventure, il figlio di Gilnar accorse al cancello, mirando, stupefatto e atterrito, l’enorme arsenale di guerra che il nemico muoveva contro la Città delle Stelle; al suo fianco era Glorfindel, Signore dei Noldor in esilio, la cui bionda capigliatura strideva palesemente con la tenebra che colmava l’aria attorno a loro. “Maledetta sia la stirpe di Bavor l’Infame, ché le sue creazioni belliche molti danni provocheranno alla nostra città; se il mio cuore avesse presagito che saremmo giunti a tale ora buia e senza speme, mai avrei desiderato che Iluvatar avesse concesso perdono ad Aule allorché costui forgiò dalla roccia i sette Padri dei Nani”. “Gravi sono le tue parole ed ecco che il mio animo teme per te, Glorfindel di Rivendell, ché mai ti avevo sentito parlare in maniera sì stolta – gli rispose Erfea, scuro in volto – Non obliare che fra coloro che servono l’Oscuro Signore di Mordor vi è anche un rinomato artista della tua stirpe, e, sebbene egli sia così vile da non desiderare incrociare la sua spada con coloro che appartengono al suo lignaggio, pure ha preso parte a innumerevoli malvagità dacché Sauron corruppe Celebrimbor e si appropriò dei segreti di forgiatura dei Noldor dell’Eregion; non solo i Naugrim di Bavor servono nei suoi eserciti, ma anche Numenoreani e altre stirpi di Uomini: codesto ti sembra forse un motivo opportuno per desiderare la distruzione di tali razze? Non essere sì drastico nei tuoi giudizi, ché nessuna stirpe fu creata da Iluvatar per servire il Nemico e coloro che ne seguono l’insegna in battaglia non possono invocare sui loro lignaggi la maledizione delle Libere Genti, ché molti fra i Naugrim, gli Eldar e gli Edain combattono per la nostra causa e mai hanno compiuto atti di fellonia”. Profondamente pentito per quanto la sua bocca aveva testé pronunciato, Glorfindel fece un breve inchino, infine si rivolse a Erfea: “Ti chiedo perdono, Signore dei Dunedain, ché non ero io a pronunciare tali parole ricolme di odio e rancore, ma la paura che parlava in me; ora m’avvedo quanto la speme non sia smarrita nei cuori degli Uomini, ché, se perfino in tali giorni di terrore i loro cuori rimangono saldi, allora nulla è perduto e il volere di Iluvatar sarà seguito; molti anni dovranno tuttavia trascorrere prima che il mondo appartenga ai Secondogeniti e numerose canzoni allieteranno ancora il mio popolo”. “Triste sarà il giorno in cui l’ultima nave abbandonerà i lidi orientali; tuttavia, poiché tale destino è ancora lungi dal compiersi, affrontiamo adesso il male che affligge il nostro mondo, ché fratelli siamo stati creati e a unico scopo destinati, né, finché in Arda il nome dei Valar sarà benedetto, la grazia e la possanza dei figli dell’Unico saranno obliate!”. Lieti, i due capitani si strinsero la mano e si ritirarono ciascuno alle proprie posizioni, onde evitare che i servi di Sauron si impadronissero del ponte e del cancello; tuttavia, sebbene numerosi atti di valore fossero compiuti in quei giorni e le schiere di Mordor subissero gravissime perdite, pure numerosi edifici della città furono rasi al suolo dai proiettili che i trabucchi dell’Avversario scagliavano con notevole precisione al di là del muro di cinta».

 

Il Ciclo del Marinaio, pp. 281-289

La difesa di Osgiliath (II parte)

Questo articolo prosegue la narrazione iniziata nel contributo precedente. Continuano ad arrivare rinforzi ad Osgiliath, ma saranno sufficienti per fermare l’avanzata delle truppe di Sauron? Buona lettura!

[Illustrazione gentilmente concessami da Emanuele Manfredi Gallery. Tutti i diritti riservati. https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/photos/a.696568877024130/3429349947079329/?type=3&theater]

«Quella sera più parole furono pronunciate tra i comandanti e le luci si spensero nella città; Erfea, tuttavia, ritto sul pinnacolo della torre più alta, vigilò per tutta la notte, ché il suo animo non avrebbe certo trovato scampo alle preoccupazioni che lo angosciavano negli incubi notturni. Lesto il mattino sorse all’orizzonte e Aldor comparve sugli spalti recando con sé una coppa: “Bevi, mio signore – tali furono le sue parole allorché scorse Erfea nella bruma mattutina – ché lunga è stata la veglia e le sentinelle hanno scorto il tuo luminoso elmo per tutta la notte”. Accettato con gratitudine il dono, Erfea così si rivolse all’Alto Theng del Rhovanion: “Questa notte ho scorto decine di luci a Est. Migliaia di luci a Est; le truppe del nemico sono pronte alla pugna e lesta la tempesta si abbatterà sulla Città delle Stelle”. “Cosa temi dunque, figlio di Numenor?” Lenta echeggiò la risposta di Erfea tra gli argentati minareti e i dorati vessilli: “Gli Eothraim hanno scorto la potenza di uno degli Ulairi, servi immortali di Sauron; mai nessuno fra voi, tuttavia, ha mirato il terribile sembiante del Signore dei Nazgul, luogotenente di Sauron e comandante degli eserciti di Mordor; mortale è la sua voce e letale il suo lungo braccio, ché egli è possente nel corpo e nello spirito; bada alle sue schiere, principe del Rhovanion, ché esse sono tra le più feroci e malvagie tra quante servono l’Occhio di Mordor”. Brevemente soppesò tali parole Aldor, infine rispose: “Innanzi a me scorgo tuttavia uno dei figli di Elenna, terrore dei servi di colui che noi non nominiamo; si dice che egli non oblii nessuno dei torti subiti e se tale pensiero corrisponde al vero, ebbene, Erfea Morluin, i suoi servi molto temeranno il tuo nome e la tua lama”. Sorrise lievemente Erfea, infine discese lungo le mura e voltatosi, così gli parlò: “Non credere che io abbia dimenticato quanto accadde a Edhellond molti anni fa; possa Sulring colpire svelta, quando egli calerà su di noi”. Improvviso nella pianura, tuttavia, squillò un corno, poi seguito da molti altri ancora; leste le guardie chiamarono a gran voce il Sovrintendente di Gondor e gli altri capitani ed essi accorsero al cancello, ché a ponente si scorgeva una minuta schiera avanzare. Glorfindel cavalcò fino a un miglio dalla città per ricevere tali stranieri; con lui era anche Herim, il quale aveva stretto profonda amicizia con il Noldo: grande era la curiosità che muoveva gli animi dei due ed essi per lungo tempo non pronunciarono parola; infine il Capitano degli Orientali parlò: “Glorfindel, i racconti della mia gente narrano che la vista degli Elfi è invero lungimirante; cosa scorgono, dunque, i tuoi occhi in tale ora?” Per qualche istante Glorfindel non pronunciò parola; infine rise, e il suono della sua letizia colmò di stupore l’animo dell’Uomo: “Amazzoni! Le donne guerriere del Rast Vorn giungono a Osgiliath!” Veritiere si dimostrarono tali parole, ché codeste guerriere erano le eredi di quanti fra il popolo di Haleth non si erano allontanati dalle spiagge della Terra di Mezzo al termine della Prima Era e avevano trovato nuova dimora tra i boschi della penisola del Rast Vorn, ove oggi nessun Uomo vive. A lungo i superstiti della Seconda Casa degli Uomini avevano dimorato in quei boschi e nessun servo di Morgoth era mai giunto per disturbarli, ché presso gli Orchi si narrava che spiriti feroci infestassero tale contrada; vi era del vero in tali voci, ché il popolo di Haleth era maestro delle Arti del legno e della pietra, avendole apprese dagli Elfi di Thingol, prima che il suo reame sprofondasse sotto le gelide acque del Belagaer ed essi tendevano innumerevoli trappole fra gli alberi, sicché l’incauta creatura che si fosse addentrata nella foresta si sarebbe smarrita in breve tempo e con altrettanta rapidità avrebbe trovato la morte. Finanche i Numenoreani non avevano mai osato approssimarsi a tali boschi onde sfruttarli per farne legname da costruzione per le loro navi, ché grande era in loro la paura delle guerriere del Rast Vorn e, sebbene freccia o lancia non fossero stati mai scagliate contro gli Edain dell’occidente, pure essi si tenevano alla larga da tale contrada e nessun Uomo, Elfo o Nano era mai stato ospite del popolo di Haleth, fin dal termine dei giorni Remoti; grande fu dunque la meraviglia, in città, allorché giunsero le schiere del Rast Vorn e gli sguardi dei presenti esprimevano tacita ammirazione e sincera meraviglia per coloro che ora marciavano lungo il ponte rialzato e si approssimavano a fare il loro ingresso a Osgiliath; giunte innanzi al Sovrintendente, così gli si rivolse il loro capitano: “Ariel io sono, figlia di Aran del Rast Vorn; un’aquila si presentò al nostro popolo quando ancora la Luna era giovane nel cielo, e riferì di gravi e luttuose notizie riguardanti i nostri cugini del Sud; tristi furono quel giorno i nostri cuori, ché, sebbene siano trascorsi innumerevoli secoli da allora, pure nessuna fra noi ha obliato la malvagità di Morgoth e il nome di Sauron l’Aborrito non è mai stato venerato dalla nostra gente. A lungo abbiamo percorso contrade sconosciute ai nostri occhi, ove il vento e gli astri erano i nostri unici compagni di viaggio, ché il messaggero di Manwe aveva fatto il nome di colui che i nostri aiuti molto avrebbe gradito e che sconosciuto risultava alle nostre orecchie: sei tu dunque Erfea il Numenoreano, colui che chiamano il Morluin, Sovrintendente del Regno di Gondor?” “Sì, lo sono e questa ove siete giunti è la dimora di Isildur e Anarion, re di Gondor e figli di Elendil l’Alto, Sovrano dei reami in esilio”. Allora Ariel si inchinò e sguainata la spada dal fodero, ne porse l’elsa a Erfea e fece giuramento: “In nome di Eru Iluvatar e delle potenze di Arda, giuro che il mio popolo sosterrà l’Alleanza delle Libere Genti contro l’Oscuro Signore di Mordor e i suoi schiavi, fino alla fine del mondo o fin quando l’ultima di noi non cadrà sotto i colpi del nemico; possano la Morte e la Vendetta cogliere me e la mia stirpe se tale giuramento verrà infranto”. Lieto Erfea le si inchinò e squillò nel suo olifante per tre volte, sicché i guerrieri corsero da lui, credendo fosse imminente un attacco del nemico e che la città abbisognasse delle loro spade e delle loro vite; eppure, squillante risuonò la voce del Dunadan ed egli parlò loro: “Mirate, popoli che non venerano la malizia dell’oriente e non prestano orecchio alle menzogne di Mordor e del suo oscuro signore! Mirate, ché è giunto il giorno in cui i Figli di Iluvatar sono nuovamente riuniti per un sol scopo e ogni rivalità fra noi è cessata! Mirate lo splendore e la beltà delle nostre terre della cui visione i vostri occhi e i vostri cuori serbano memoria! Mirate, ché la pugna si approssima e lesta verrà l’ora in cui combatteremo l’uno accanto all’altro, fratelli nell’oscurità che avanza, spada accanto a lancia, ascia accanto all’arco! Come un sol individuo combatteremo e mostreremo agli schiavi di Sauron quanto sia ancora forte la tempra di coloro che non si piegano al loro dominio!”

Soffiò nuovamente nel suo corno il figlio di Gilnar e il coraggio fece breccia finanche nei cuori più pavidi; allora, rosso sorse il Sole all’orizzonte e Sulring brillò di luce propria, rischiarando Erfea, ed egli sembrava simile a Tulkas il paladino dei Valar a occidente e tutti coloro che erano con lui sguainarono le proprie armi e diedero fiato ciascuno al proprio olifante, si ché fu udito un concerto quale non si udiva dalla Battaglia delle Innumerevoli Lacrime e il suono delle trombe dei Nani di Khazad-Dum si mescolò con quello degli Elfi di Gil-Galad; alti furono issati i vessilli delle stirpi che lottarono contro l’Oscuro Signore ed essi furono visibili per molte miglia. “Aure entuluva!” gridò Erfea, pronunciando le medesime parole che Hurin molti secoli prima aveva esclamato; e tutti coloro che erano nella città fecero echeggiare le loro voci nel medesimo urlo: “Aure entuluva”: il giorno risorgerà!” e, sebbene numerose calamità e lutti si verificarono nei giorni successivi, pure nessuno dei presenti obliò quell’ora e invero fu un momento molto glorioso per i Figli di Iluvatar. Rapidi trascorsero i giorni successivi, mentre i capitani discorrevano delle strategie che avrebbero dovuto escogitare per affrontare i servi di Sauron ed Erfea ripeteva loro quanto i nemici non fossero da sottovalutare, ché essi erano guidati da una mente crudele e votata al massacro. Amicizie durature furono strette in quei giorni amari, ove gli incubi delle sempre più lunghe veglie si mescolavano ai sogni angosciosi che le rare ore di sonno partorivano: di Glorfindel ed Herim così come di Erfea e Aldor si è già detto, tuttavia essi non furono i soli, ché analoghi sentimenti di stima e di affetto sorsero fra Herugil e Edheldin, mentre Bor, accompagnato da suo figlio Groin, era sempre reperibile dal Sovrintendente di Gondor al quale mostrava i segreti di tecniche di lavorazione dei metalli ignoti agli Uomini, ché egli era lungimirante e s’avvedeva che sebbene mortali fossero le armi degli eredi di Numenor, pure avrebbero potuto essere migliorate, e invero eccelsa era in quei giorni l’Arte dei Naugrim. Solidi divennero dunque i rapporti fra i Capitani delle Libere Genti, eppure nessun legame fu sì forte come quello che sorse fra Aldor e Ariel, ed essi sovente discorrevano nei parchi della città, lieti in volto, sebbene la tempesta fosse ormai prossima e più il Sole splendesse nel cielo, ché un’oscura nube proveniente dalla Terra dell’Ombra sembrava aver avvolto nel suo mortifero abbraccio la Città delle Stelle.

Una notte di maggio, Herim si recò dal Sovrintendente della città, ché il sonno tardava a giungere e una grave minaccia era sorta nel suo cuore; lesto raggiunse dunque Erfea presso la terrazza dalla quale il Dunadan scrutava silente la piana che si estendeva sotto di lui; una pallida Luna ornava il tenebroso cielo, né la sua moribonda luce rischiarava le figure dei soldati che percorrevano in silenzio gli spalti della mura; eppure, nessuno fra coloro che erano sulle mura in quella ora abbisognava di luci, perché l’intera sponda orientale dell’Anduin era rischiarata da centinaia di migliaia di fiaccole: poco o punto potevano scorgere gli scuri occhi dell’Orientale, eppure, nel suo cuore, il fremito di paura che l’aveva costretto a destarsi dal suo sonno agitato si tramutò in un grido che a stento fu soffocato dall’Uomo. A lungo Herim rimase accanto a Erfea, senza pronunciare alcuna parola, infine il Dunadan parve cosciente della sua presenza e gli parlò: “Le schiere del nemico sono ora molto vicine alla città; entro domattina, le acque dell’Anduin saranno rese torbide dall’avanzare impetuoso degli schiavi di Mordor, né tali invasori sono giunti alla città soli”. Herim annuì, senza tuttavia comprendere realmente cosa il Sovrintendente avesse voluto dirgli; infine, egli voltò il suo sguardo a Nord e la paura si tramutò in orrore, ché i fumi di numerose fiaccole si stagliavano come fredde colonne nell’aria della notte finanche in tale direzione: lentamente, come se il raziocino ancora presente nel suo animo rifiutasse di credere a quanto ormai era palese, egli si voltò verso Sud, ove il suo udito fu attratto dal rapido sciabordare di centinaia di lunghi remi nelle profonde acque del fiume, ché una possente flotta giungeva dal Grande Mare, preceduta dallo stormire degli avvoltoi e di altri uccelli da preda. Leste suonarono le campane quella notte, ma il suono che echeggiava tra le scure mura dei minareti e i flosci vessilli era spento, quasi che un sortilegio di Mordor impedisse loro di squillare; rochi echeggiavano dalla pianura i barriti dei mumakil, le possenti bestie dei feroci Haradrim e sovente si udiva la stridula risata di un Orco salire dal fiume: cupi divennero gli animi dei Numenoreani ed essi non presero più riposo, né una voce si udiva all’interno della città, che gli Uomini si armavano in silenzio e se le donne piangevano, le loro lacrime e i loro singulti erano attutiti da bianchi fazzoletti. Tardivo sorse il Sole, eppure nessuno fra coloro che difendevano il regno di Gondor dall’assedio delle schiere di Sauron parve accorgersene, perché infiniti fumi, come malefici serpi che volessero oltraggiare la maestà di Manwe, salivano dagli accampamenti delle schiere di Mordor e un’ombra minacciosa era calata sulla città. Triste e minaccioso era lo spettacolo che adesso si scorgeva dalle mura: la sponda orientale dell’Anduin era stata invasa dalle schiere di Mordor, ed esse ora si ricongiungevano con i loro alleati giunti dal Nord e dal Sud; Numenoreani Neri erano sbarcati dalle navi che la notte precedente avevano risalito il corso del fiume e ora scaricavano a terra una grande quantità di vettovaglie e di armi; ivi il guerriero affilava una lama; ivi il capitano impartiva ordini ai suoi luogotenenti; ivi erano montate tende e issate rozze palizzate, ché la potenza di Mordor era all’opera, e i suoi servi, come instancabili formiche, realizzavano quanto il loro signore e padrone desiderava ottenere. Nessun canto si levava dalle schiere di Mordor, né alcun vessillo era stato innalzato per sfidare la signoria delle liberi genti: il brusio delle voci provenienti dalla pianura, tuttavia, si accrebbe nei giorni successivi, finché esso non si tramutò in un urlo spaventoso a udirsi; molti fra coloro che militavano nell’Alleanza si chiesero allora se non fosse giunta la fine di Arda e nei loro cuori la paura regnò sovrana; altri si chiedevano quando sarebbero giunti gli eserciti degli alleati dal Nord e interrogavano a proposito Glorfindel, quasi che egli potesse scongiurare nei loro animi la paura, l’arma più efficace che il nemico possedeva per far breccia nelle mura di Osgiliath. Lenti trascorsero i giorni per i difensori della città e nessuna nuova giungeva loro dagli eserciti di Mordor; una mattina, tuttavia, la Guardia levò un possente grido di allarme e i capitani corsero alle mura, ché erano visibili movimenti sulla pianura: Uomini, le cui fattezze erano impossibili da distinguere, si erano inerpicati lungo una ripida collina che si ergeva dinanzi al ponte e al cancello orientale di Osgiliath e ivi avevano innalzato nove lugubri stendardi. La bruma, tuttavia, lesta ricoprì l’accampamento delle schiere di Mordor e per lungo tempo non fu possibile scorgere alcunché: infine, essa disparve e fu visibile a tutti quanto tali vessilli mostravano. Disposti su di un’unica fila, nove stendardi garrivano al vento che possente si era levato dall’oriente: otto erano stati posti alla stessa altezza e uno si ergeva più in alto di tutti gli altri: intimorita, la gente di Osgiliath stentava a decifrarne il significato, ché mai, dacché la città era stata fondata, erano stati avvistati simili vessilli. “Destriero nero, fuoco oscuro, luna morente, nera serpe, saetta rossa, grigio olifante, fauci del segugio, drago dorato: i Nazgul sono dunque giunti a Osgiliath” pronunciò Erfea, rivolto ai capitani che erano con lui; non si era ancora spento l’eco di tali parole, che la Tenebra cadde sulla città e per alcuni istanti non fu possibile scorgere alcunché; molti guerrieri furono colti da nausea e finanche tra gli Eldar e i Naugrim, ché pure non temono l’oscurità, alcuni furono colti dal panico e dal dubbio. Per lunghi istanti parola non fu pronunciata; infine Erfea parlò e nessuno dei presenti obliò le sue parole in quell’ora sì oscura: “Gli Orchi hanno innalzato lo stendardo con l’effige dell’Occhio avvolto dalle fiamme dell’Orodruin. Il Signore dei Nazgul è giunto a Osgiliath e i suoi eserciti lo seguono bramosi della preda, ché invero possente è il suo braccio. Lungi dall’essere in trappola è tuttavia la fiera, ed essa lotterà finché la speme regnerà nel suo cuore”. Infine l’oscurità opprimente disparve dal cuore dei liberi popoli ed essi accorsero ad armarsi: manipoli di fanti furono formati e i cavalieri montarono sui loro destrieri, mentre gli arcieri correvano a schierarsi lungo le mura e incoccavano nere frecce dalla punta acuminata».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 273-281.

In difesa di Osgiliath (I parte)

Negli Annali del Signore degli Anelli e nel Silmarillion si fa cenno alla difesa di Osgiliath da parte dei Gondoriani durante l’assalto finale che Sauron mosse contro quella città alla fine della Seconda Era. Si tratta, come dicevo, di poco più di un accenno, che segue alla caduta di Minas Ithil nelle mani dei servi dell’Oscuro Signore. Ho colto questo accenno per sviluppare un racconto che narra dei popoli che accorsero in difesa di Osgiliath: nel mio libro, infatti, Erfea, ormai anziano, occupa un posto di grande responsabilità all’interno dei Regno in Esilio, svolgendo una figura molto simile a quella che avrebbero incarnato i Sovrintendenti della Terra di Mezzo; per conto di Elendil, supremo re di Arnor e Gondor, infatti, egli si occupa di monitorare il governo dei figli Isildur e Anarion. Tornando alla questione della difesa della capitale di Osgiliath, ho immaginato che, in attesa della costituzione dell’Ultima Alleanza, i cui tempi di mobilitazione sarebbero stati molto lunghi (considerato che non esisteva un servizio di leva permamente presso i Popoli Liberi e che le milizie dovevano dunque essere addestrate di conseguenze), alcune schiere (oggi li definiremmo di soldati di professione) accorressero a Gondor per prendere parte alla battaglia in sua difesa. A questa scelta mi ha spinto l’apprezzamento verso una sequenza di immagini molto intense del film delle “Due Torri”: l’arrivo al Fosso di Helm delle truppe comandate da Haldir. Come sanno i lettori del Signore degli Anelli, in realtà questo evente non si è mai verificato: restava comunque, a mio parere, un’idea promettente, che avrebbe potuto essere sviluppata in altro momento storico, del quale si conosce poco, allo scopo di non creare una contraddizione con il corpus del legendarium tolkienano. Lascio giudicare ai miei lettori se la scelta sia o meno riuscita. Il brano citato inizia dopo la caduta di Minas Ithil e dopo che le armate di Sauron hanno condotto un breve attacco a Osgiliath per testarne le difese. Nell’estate di quell’anno Erfea ricevette la visita del Re delle Aquile…Buona lettura!

«L’Estate trascorse come se nulla nel vasto mondo fosse mutato, eppure così non era, ché i servi del nemico erano ovunque e nell’ombra che si addensava sugli Ephel Duath, crescevano in numero e in potenza; nessun araldo del Nemico era giunto sprezzante da Minas Ithil ormai caduta per sfidare la potenza di Osgiliath, e ogni cosa sembrava remota e silente; eppure, Orchi e Uomini malvagi si adunavano a levante e vi erano scorribande di cavalcalupi nelle vaste e desolate piane del Rhovanion e nell’Anorien, ché Sauron non aveva perduto nulla della sua antica possanza e mirava a distruggere ogni reame della libera gente.

Furtivi e occultati dalla coltre di tenebra che le eruzioni dell’Orodruin rendevano grigia e fosca, i servi del Nemico si andavano adunando in gran numero; ed ecco che al termine dell’Estate, Ar-Thoron apparve a Erfea, che, ritto sul pinnacolo della torre più alta di Osgiliath, era immerso in profonda meditazione.

“Salute a te, paladino di Gondor! La guardia della città riposa, cullata dal dolce canto del fiume, eppure ben m’avvedo che il suo capitano non prende riposo neppure in giorni che paiono privi di pericolo alcuno”.

“Salute a te, signore dei venti! Vi saranno altre occasioni per dar sollievo alle stanche membra, ché il mio cuore mi dice che il Signore di Mordor non ha dimenticato l’affronto che le sue armate hanno di recente subito, né ha smesso di odiare i Dunedain e le altre liberi genti”.

“Sagge parole le tue; forse, allora, meno gravi ti sembreranno i miei consigli in quest’ora del bisogno, se tali erano i tuoi pensieri prima del nostro incontro. Sappi infatti, figlio di Gilnar, che il tuo antico avversario, il Signore degli Stregoni, è intento a radunare un esercito in confronto al quale ogni altra armata potrebbe impallidire; chiusi in quella che un tempo fu la gloriosa Città della Luna, gli Ulairi addestrano centinaia di migliaia di fanti e cavalieri del nemico; oscuri fumi si levano dalle fornaci di Barad-Dur e antichi e oscuri sortilegi sono all’opera”.

Nessun sorpresa si poté leggere nel volto di Erfea, eppure la sua fronte si corrugò, ché la sua inquietudine crebbe ed egli, in qualità di Sovrintendente della Città e del Regno aveva la responsabilità di difenderla strenuamente qualora fosse giunta l’ora della pugna. Parche e lungimiranti furono le parole che egli pronuncià in quell’ora oscura, e, non fosse stata per la tempestività con le quali vennero formulate, la speme degli Uomini sarebbe venuta meno ed eventi infausti avrebbero condotto alla perdizione Endor:

“Ar-Thoron, messaggero di Manwë, sii l’araldo di coloro che si apprestano a lottare contro colui che un tempo fu servo del nemico del tuo signore! Porta tale messaggio di sventura ai sovrani che sostengono la nostra causa, affinché possano qui giungere Uomini forti e valorosi, pronti a sostenere la nera marea, quando sarà giunta l’ora! Possano i venti sostenere le ali di quanti gioveranno alla causa dei Figli di Iluvatar, ché molte vite dipenderanno dalla rapidità con cui tali messaggi di aiuto giungeranno lì ove il nome di Manwe e di Varda sono ancora cari. Va’, dunque; possa la speme restare presso il tuo popolo, anche quando ogni scudo sarà infranto e prossima sembrerà la fine dei regni degli Eldar e degli Edain”.

Il sire delle aquile chinò il capo, ché mai nessun Secondogenito gli aveva parlato in modo tanto accorato e sincero; lesto volò via e la richiesta di aiuto di Gondor pervenne a quanti avevano contratto l’Alleanza in Giugno e a molti altri popoli ancora, ché sotto le vaste fronde delle foreste di Endor dimorano stirpi di cui poco noti sono lignaggio e signori.

Per primi giunsero gli Elfi di Edhellond; costoro, grati per l’aiuto che Erfea aveva fornito loro durante la difesa del bianco porto dalle armate del Re Stregone, accorsero lesti a Osgiliath, suscitando meraviglia e stupore tra gli Uomini, ché, sebbene i Dunedain fossero avvezzi alla compagnia degli Eldar, pure codesti guerrieri Primogeniti, equipaggiati ancora secondo l’uso degli eserciti elfici della Prima Era, non mancavano di suscitare sorpresa tra le Alte Guardie del Cancello che assistettero stupefatte al loro ingresso in città; giunti che furono dinanzi a Erfea, essi si inchinarono e il loro capitano, Edheldin, prestò giuramento e dichiarò che il suo popolo avrebbe servito nell’Alleanza finché la vittoria non fosse stata riportata o l’ultimo guerriero fosse stato in grado di brandire la spada: lieto, il Sovrintendente di Gondor li accolse con tali parole: “Siate i benvenuti, fratelli degli Edain! Con voi trionferemo o periremo, ché i destini delle Libere Genti saranno decisi dal coraggio e dalla forza con cui le nostre braccia reggeranno l’impugnatura dell’arma con la quale ci ergeremo dinanzi agli schiavi di Mordor!”.

Canti gioiosi furono ascoltati in quei giorni a Osgiliath, ché gli Eldar non erano solo possenti soldati, ma anche sapienti ed eruditi, e le loro arti molto alleviarono le miserie degli Uomini infermi e le lacrime delle vedove; meno di mille erano, eppure, quando l’ora del confronto giunse, mostrarono al Nemico una tal ferocia, che essi parevano diecimila, e mai le loro frecce mancarono il bersaglio.

Altri aiuti giunsero a Gondor nell’ora del bisogno, gli uni inaspettati, gli altri attesi; alcuni giorni dopo l’arrivo della schiera di Edhellond, giunse alla città dei re una grande molti- tudine di gente; leste, le guardie della città accorsero al cancello, temendo che le armate degli Uomini del Rhun avessero sopraffatto le guarnigioni di Gondor e del popolo degli Eothraim; grande fu invece la loro sorpresa allorché compresero essere costoro le schiere dell’Alto Theng del Rhovanion, Aldor Roch-Thalion, Signore dei Cavalli; tuttavia, sebbene essi venissero accolti in città con grandi acclamazioni e squilli di tromba, pure coloro che erano al comando si resero conto che il fronte Nord-orientale aveva definitivamente ceduto e tosto sarebbero giunti a Osgiliath le medesime schiere che avevano sconfitto gli Eothraim. Nuova inquietudine sorse nel cuore di Erfea ed egli a lungo discorse con Aldor, assicurandogli che Gondor avrebbe posto sotto la sua bandiera gli anziani e gli infanti del suo popolo; presso codesta stirpe, infatti, le donne sono addestrate nell’arte della lancia e della spada fin da tenera età e non temono alcun nemico, eccetto il disonore, e benché tale costume fosse noto agli esuli Numenoreani, pure a loro parve bizzarro e curioso.

Quindicimila lance aveva con sé Aldor allorché varcò il cancello di Osgiliath e numerosi erano le donne e i bambini; quarantamila erano in tutto, eppure costoro non erano che i supersiti di una grande confederazione di popoli che pascolavano il loro bestiame nelle vaste e silenziose piane del Rhovanion, dai confini della grande foresta fino al fiume Celudin a oriente: molto avevano in onore il popolo dei Dunedain, che essi chiamavano i figli del mare, reputandoli simili agli Elfi nelle arti e nelle tradizioni. Fieri e impetuosi, pronti alla collera e all’amicizia sincera, codesti Secondogeniti, discendenti di coloro che della stirpe di Hador Chioma d’oro non erano mai giunti a occidente, resero grandi servigi alla Città delle Stelle, sostenendo impavidi l’urto delle armate di Mordor. Aldor Roch-Thalion era il loro comandante supremo e re della confederazione; suo avo era Imracar Folcwine, colui che aveva stretto amicizia con Erfea allorché aveva partecipato, in qualità di ambasciatore della sua terra, ai festeggiamenti in onore della principessa Miriel. Grato, così Aldor parlò al Sovrintendente di Gondor: “Note mi sono le tue imprese contro colui che noi non nominiamo ed è stata fonte di immensa letizia per me sapere che non cadesti durante l’assedio alla Città della Luna; sei invero un possente guerriero, Erfea, figlio di Gilnar, e il mio popolo ti seguirà, cavalcando con te verso la vittoria o la morte, allorché giungerà l’ora del confronto. Noi non siamo avvezzi alle belle arti degli Uomini del mare, né siamo soliti dimorare in simili palazzi intessuti di sogni e luce, tuttavia sappi che la nostra parola é la nostra vita e che mai verremo meno alla nostra alleanza: già in passato udisti la mia voce fiera e possente pronunciare un solenne giuramento; lascia che ora io, secondo l’usanza del mio popolo, tramuti le parole in fatti, ché essi possano condurci alla vittoria sulle schiere del Nemico”.

Invero Erfea fu commosso dalla semplicità con cui Aldor offriva la sua spada alla loro causa e un forte abbraccio tra i due Uomini suggellò tale patto; nei giorni successivi la stima e l’affetto del Sovrintendente per questo rude Uomo, la cui risata era pronta a tuonare a ogni ora del giorno si accrebbero ed egli spesso discorreva con lui, aprendogli il suo cuore; molto apprese l’Alto Theng degli Eotrahim dal Numenoreano e il suo animo fu ricolmo di meraviglia, ché la maestà dei Dunedain non era ancora scemata e nei loro grigi occhi brillava vivida la fiamma dell’Occidente perduto.

Il giorno seguente, altre schiere risposero all’accorato appello del Sovrintendente di Gondor ed egli fu chiamato innanzi al Cancello di Osgiliath da una voce possente: stupiti furono gli eredi di Numenor, ché mai avevano veduto simili genti dacché avevano fatto ritorno alla Terra di Mezzo sulle ali dei fortunali che spiravano da ponente: disposti su tre schiere, cinquemila cavalieri avanzavano verso la capitale di Gondor, intonando canti sconosciuti alle genti di quella città.

Poderosi erano i neri stalloni di codesta armata e molti cavalieri galoppavano in sella a bizzarre creature che attrassero la curiosità dei gondoriani: più piccole dei cavalli della Terra di Mezzo, erano tuttavia più massicce e lente; chiaro come la sabbia dei deserti che si estendono nel lontano Harad era il loro pelame ed essi lasciavano nella soffice terra dell’Anduin profonde impronte. Coloro che tra i Numenoreani erano accorsi per primi al cancello, si avvidero che le selle poste su codesti animali erano situate sopra una grande gobba che si ergeva sul dorso dell’animale; muggiti mai uditi prima si levarono da tali cavalcature e non pochi fra i Dunedain furono colti da inquietudine e timore, credendo che costoro fossero l’avanguardia della cavalleria del Nemico; eppure, i savi e gli eruditi di Gondor non avevano obliato molte delle storie che gli Eldar avevano insegnato loro ai primordi della Seconda Era, e nella loro memoria erano ancora impressi i dolorosi ricordi della Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, allorché vi fu il tradimento di numerose schiere degli Uomini venuti dal levante e il nemico ottenne una vittoria che in caso contrario mai sarebbe giunta.

Tale episodio, tuttavia, era ben noto e molti fra i Dunedain sapevano che tra le schiere che avevano in principio servito l’Oscuro Nemico del Mondo e in seguito il suo luogotenente Sauron molte erano quelle costituite dai Secondogeniti reietti, discendenti di quella laida schiatta che tradì l’alleanza con i figli di Feanor, venendo meno alla parola data; tuttavia, poiché spesso la mente degli Uomini è debole e oblia molto di quello che è stato, pochi, finanche tra i Saggi del regno, ricordavano che vi era stata un’altra stirpe di Uomini venuta dell’oriente che mai aveva tradito l’alleanza con gli Eldar: costoro erano i figli di Bor l’orientale e in seguito alla distruzione del Beleriand erano fuggiti lontano, recandosi nelle contrade meridionali di Endor ove erano cresciuti in numero e gloria, sempre rimembrando l’alleanza con gli Eldar; sovente i loro prodi cavalieri avevano sfidato gli Haradrim e i Variag, servi dell’Oscuro Signore, difendendo strenuamente le contrade a Sud di Gondor dalla perfidia dei servi dell’Occhio. Imponenti e maestosi, codesti Uomini procedevano ritti sulle loro cavalcature, non temendo alcunché; giunti che furono innanzi al cancello di Gondor essi si arrestarono e colui che ne conduceva le schiere, scese da cavallo e si inchinò al Sovrintendente, porgendoli l’elsa di una scimitarra finemente intarsiata e parlò, fra lo stupore di quanti lo ascoltarono, nella favella degli Elfi Grigi:

“Giungiamo nell’ora del bisogno, accomunati dal medesimo destino e della medesima necessità per prestare servizio nelle fila degli Uomini del mare”.

“Chi sei tu dunque e da quale contrada provieni?” gli rispose Erfea, inchinandosi a sua volta.

“Io sono Herim l’Impavido, erede di Bor l’Orientale che mai obliò l’alleanza con gli Eldar e gli Edain stretta molti secoli fa. A lungo la mia gente ha difeso le contrade a Sud del reame degli Uomini dell’occidente e a Nord della città di Umbar dalla ferocia dei servi di Sauron l’Impostore, colui che già i miei avi combatterono. Lo scorso Inverno, tuttavia, fummo battuti, ché il Nemico ha reclutato mercenari provenienti da levante e gli eserciti dei signori della guerra del Khand e del Nuriag, superandoci così in numero; non furono tuttavia tali spregevoli esseri a determinare la nostra cattiva sorte, ché vi erano due creature quali mai i nostri occhi avevano scorto e dinanzi alle quali il coraggio dei nostri migliori cavalieri fu vano; terrore pareva sprigionarsi dalle loro nere armature e oscure risuonavano ai nostri orecchi le parole che esse declamavano a gran voce. Lesto, il panico si impadronì dei cuori dei nostri guerrieri più valorosi ed essi, gettate le armi, perirono tra le paludi e i pantani che si estendono alla foce del Grande Fiume; allorché si avvidero della disfatta delle nostre schiere, i servi del Nemico si lanciarono alla carica: molto sangue quel giorno bevve la Madre Terra – e così dicendo accarezzò la lama della sua scimitarra – eppure ogni difesa fu vana, ché la stridula voce dei servi del nemico sembrava atterrire gli animi di tutti. Non più tardi di quattro giorni fa guadammo il fiume a Nord della città di Pelargir per raggiungere la possente capitale degli Uomini del mare, ché un messaggero del cielo ci aveva avvertito del pericolo che correte”.

“Grati e inaspettati sono i vostri aiuti, ché non credevamo fosse sopravvissuta all’inabissamento del Beleriand la stirpe di Bor l’Orientale e gravi erano i cuori dei Saggi questa mattina; eppure, non fu forse detto che il destino di Arda è stato occultato ai Figli di Iluvatar e che finanche il più savio ed erudito fra noi non potrebbe conoscerlo e interpretarlo? Se tale si prefigura il corso degli avvenimenti, allora la speme ha trovato una nuova ancora alla quale aggrapparsi, nel fragore della battaglie che lesto inizierà. Vi porgo dunque il benvenuto a nome del re Anarion che ora giace nelle Case di Guarigione; possano le vostre lame vendicare coloro che ora più non sono fra voi, quando sarà giunta l’ora”.

Piacquero a Herim l’Impavido le parole che Erfea, Sovrintendente di Gondor aveva pronunziato: profonda stima egli nutrì nel suo cuore per il Dunadan e, allorché Osgiliath parve soccombere alle orde degli schiavi di Sauron, mai lo si vide indietreggiare, ché era invero un possente guerriero e nessuno lo superava in maestria nell’arte della guerra; esperto dell’antica scienza della guarigione e dell’osservazione delle stelle, Herim prestò valido servizio nel Consiglio degli Uomini durante tutta la durata della guerra e mai le sue parole furono pronunziate per invidia o arroganza.

Codeste stirpi di Uomini accorsero dunque in aiuto dei Dunedain nell’ora del bisogno e i loro nomi furono scritti su bianche pergamene che ora giacciono dimenticate, ché molta è cresciuta nel cuore degli Uomini l’incuria ed essi poco si curano di apprendere la storia dei loro padri; tuttavia, poiché i Savi non sono venuti meno finanche in tale giovane epoca, coloro che combatterono per la libertà e la salvezza delle stirpi degli Uomini liberi sono ancora ricordati con stupore e meraviglia, ché grandi furono invero le loro imprese e nessuno ne ha mai compilato un elenco preciso.

Molto si è detto dunque degli Uomini e dei loro condottieri, eppure non furono i soli a soccorrere Osgiliath nell’ora più buia che la città avesse conosciuto fin dalla sua fondazione, ché Eldar e Naugrim non mancarono di rispondere all’accorato appello lanciato dal Sovrintendente di Gondor e recarono alla Città delle Stelle schiere di indubbio valore; degli Elfi di Edhellond e della loro devozione a Erfea molto è stato scritto e non solo in tale sede; pure, vi furono altri tra i Primogeniti che soccorsero i Dunedain, ché quattro giorni dopo l’arrivo delle schiere di Herim l’Impavido, giunse la cavalleria dei Noldor e dei Sindar proveniente dal regno del Lindon e dalla dimora di Elrond il Perelda nel remoto Nord; luminosi erano i guerrieri Eldar e i loro destrieri elfici, abbigliati di bianco e argento, risplendevano nella oscurità della sera: imponente si ergeva alla loro testa Glorfindel il Valoroso, colui che aveva a lungo combattuto contro le schiere di Morgoth nel corso della Prima Era e ora giungeva, simile a un messaggero di Manwe, quale immagine della maestà dei Valar e degli Eldar che ancora dimorano al di là del mare a ponente.

Lieto lo accolse Erfea, ché, sebbene avesse discusso con lui solo alcune settimane prime, pure sapeva che nessun altro guerriero fra coloro che erano giunti a Gondor era più valoroso del Principe di Rivendell.

“Alto risuona l’olifante dei cavalieri di Gil-Galad ed ecco, essi accorrono in aiuto di coloro che ne abbisognano; il mio signore ti invia parole di conforto, perché il tuo animo non debba cedere all’oscurità di questi giorni, e spade, perché la Città degli Uomini non sia distrutta dalle armate dell’Oscuro Sire”.

“Giungi sulle ali di un vento tempestoso, amico mio – gli rispose Erfea, stringendogli la mano – ché la bufera si scatenerà lesta a Est e la furia dei fortunali temo si abbatterà su di noi quanto prima; nessuna speme abbiamo perduta, ché ora, innanzi a me, vi è colui che le schiere del nemico temeranno sovra ogni altro condottiero che difenderà la nostra causa”.

Quattromila Elfi attraversarono al crepuscolo il cancello occidentale di Osgiliath, accompagnati da molti canti e benedizioni, ché la gente era scesa in strada e acclamava il nome del loro capitano: “Glorfindel! Glorfindel Chiomadoro è con noi” e per una notte l’angoscia abbandonò i cuori degli uomini e delle donne della città.

Il mattino successivo, un suono che mai prima di quel momento era stato udito dacché gli esuli Numenoreani avevano costruito le loro dimore su entrambe le rive dell’Anduin, fu udito riecheggiare nella valle e gli sguardi di tutti furono rivolti a ponente; a lungo regnò il silenzio nella città, ché il popolo si domandava quale stirpe giungesse in suo soccorso.

Erfea, silente sul ponte che conduceva al cancello, scrutava le piane che si estendevano a ponente; non dovette attendere tuttavia a lungo, ché lesta apparve all’orizzonte una schiera di soldati, il cui stendardo era però occultato dalla bruma del mattino: infine, a meno di cinquecento passi dal cancello, esso apparve in tutto il suo splendore e il popolo di Gondor riconobbe il vessillo della stirpe di Durin il Senza Morte, ché vi erano ricamate sette stelle e un’incudine.

Senza attendere che la schiera giungesse al cancello, Erfea si fece loro incontro e lieto era il suo volto, ché egli non aveva dubbi sull’identità del capitano di tale armata e il suo cuore gioiva, ché egli era molto caro al Sovrintendente; Bor era il suo nome, ma la sua gente lo chiamava Naug Thalion in onore del suo valore e della forte amicizia che lo legava agli Eldar; accanto a lui, si ergeva un Nano che molta fama aveva acquisito ad Amon-Lanc, ché egli era Groin Hroa Sarna, Nano della stirpe di Durin e impavido combattente.

Commossi i tre amici si strinsero in un caloroso abbraccio, ché mai Naug Thalion aveva obliato l’aiuto che il Khevialath, come i Nani chiamavano Erfea, aveva offerto loro durante i numerosi viaggi che costui aveva intrapreso; lesto era stato egli a mettersi in viaggio con quanti della sua gente desideravano seguirlo, ed erano giunti solo poche ore dopo i guerrieri di Glorfindel che pure erano a cavallo; stupefatti gli Uomini e le donne della Città delle Stelle osservarono i figli di Durin, ché, sebbene costoro sovente si fossero recati nei domini dei Numenoreani per offrire la loro maestria di tagliatori di pietre e vendere i preziosi manufatti forgiati nelle fucine di Khazad-Dum e altri mirabili artefatti destinati finanche ai bambini, pure non erano mai giunti in veste di soldati, essendo i reami di Gondor e Khazad-Dum alleati e non temendo alcunché i suoi figli, fuorché la fatica e le intemperie dei lunghi viaggi.

Ogni Nano indossava una cotta di maglia in mithril, ché codesta schiera era costituita prevalentemente dalla Guardia dell’Abisso e in essa servivano solo i più possenti fra i Figli di Aule; possenti asce e larghe spade dalla doppia lama essi recavano con sé e nei loro spietati occhi si poteva leggere il fuoco della fiamma di Mahal dalla quale erano sorti.

“Settecento Nani sono riuscito a condurre con me in questa buia ora, Erfea, figlio di Gilnar: essi sono prodi guerrieri e hanno combattuto in più di una occasione contro le schiere dell’avversario e nessun Orco è mai sopravvissuto per testimoniare la loro furia in battaglia”.

“Sono giunti aiuti superiori in numero alle mie previsioni, Bor – rispose Erfea inchinandosi – tuttavia, se le notizie che giungono in città corrispondo solo alla metà del vero, le schiere del Re Stregone sono superiori a noi del valore di dieci a uno”.

Annuì Bor, scuro in volto: “Sarà dunque innanzi alle mura della capitale di Gondor che verrà deciso il destino di questa era e di quanti verranno dopo di noi”. Tacque un attimo, infine riprese a parlare: “Le fondamenta della città, tuttavia, sembrano solide e potrebbero resistere a un assedio quale mai nessun Uomo o Elfo o Nano ha ancora mai visto”.

“Il tuo coraggio e la tua saggezza mi confortano, figlio di Durin – disse Glorfindel, sopraggiunto in quel momento – ché non giungeranno altri aiuti alla città e dovremo fare affidamento su codeste schiere”.

Herim, che era con il Signore dei Noldor, tuttavia replicò: “Può essere che i nostri occhi non debbano scorgere alcun vessillo amico per mesi, o forse per anni in tale pianura; tale è il mio pensiero, però, che mi spinge a credere che altri soccorsi inaspettati giungeranno; il vento dell’Ovest si è infatti levato possente e il domani porterà novità”».

 

Il Ciclo del Marinaio, pp. 263-273

I Signori degli Anelli prima di Sauron: un identikit impossibile?

Rileggendo il ciclo di articoli che avevo dedicato nei mesi estivi alle origini degli Anelli del Potere, mi sono reso conto che avevo dimenticato di approfondire un capitolo molto importante della loro storia, ossia la possibile identità di coloro che avrebbero dovuto essere i possessori dei Grandi Anelli.

Si tratta di una questione molto oscura e di grande interesse, sulla quale, tuttavia, a causa della scarsità del materiale documentario lasciotoci in proposito da Tolkien, è difficile andare al di là di ipotesi più o meno convincenti.

Cominciamo dagli elementi certi in nostro possesso. Durante il Consiglio di Elrond, questi raccontò ai presenti la storia dei Grandi Anelli: riporto qui il brano di riferimento, per commentarlo in seguito:

«A quell’epoca Sauron non era ancora d’aspetto malvagio, ed essi accettarono il suo aiuto e diventarono potenti nella loro arte, mentre egli apprese tutti i loro segreti e li tradì, e forgiò di nascosto nella Montagna di Fuoco l’Unico Anello per dominarli. Ma Celebrimbor se ne accorse, e nascose i Tre che aveva fabbricato; allora vi fu la guerra». (SDA, p. 198).

Stando a questa prima descrizione della storia, si ignora come Celebrimbor abbia appreso della forgiatura dell’Unico Anello da parte di Sauron: ciò che appare chiara è la corruzione dei Noldor dell’Eregion da parte di Sauron.

Nel corso del Consiglio di Elrond, tuttavia, apprendiamo altri particolari illuminanti in proposito: quando Gandalf – nel tentativo di convincere un riluttante Galdor che l’Anello portato a Rivendell da Frodo sia l’Unico – pronuncia la celebre frase incisa sull’Anello, conclude ricordando come «dagli Anni Neri escono le parole che i Fabbri di Eregion udirono, scoprendo di essere stati traditi» (SDA, p 207). Questa frase fornisce un importante elemento alla ricostruzione di quanto avvenne nella Seconda Era: le parole pronunciate da Sauron al termine della forgiatura dell’Unico Anello, nel bel mezzo della voragine dell’Orodruin, furono ascoltate a oltre mille leghe di distanze dagli elfi di Eregion. Dobbiamo dunque dedurne che quella celebre frase fosse in realtà un incantesimo, oppure una sorta di monito a tutti i portatori degli altri Anelli perché comprendessero l’identità del loro Signore? Sia la prima che la seconda ipotesi, tuttavia, per essere verificate, dovrebbero premettere un uso degli anelli elfici da parte dei fabbri dell’Eregion. È questo un punto di fondamentale importanza, sul quale intendo soffermarmi, allo scopo di avvalorare la mia tesi: prima dei portatori «storici» dei Tre Anelli degli Elfi (Galadriel, Gil-Galad/Elrond, Gil-Galad/Cirdan/Gandalf), ve ne furono altri, la cui identità, tuttavia, è destinata a restare nell’impossibilità di essere svelata. Esaminando la Cronologia della Seconda Era, posta alla fine del romanzo del Signore degli Anelli, notiamo che trascorrono circa 10 anni dal 1590 – quando vennero forgiati gli Anelli elfici – sino al 1600 quando Sauron creò l’Unico. Anche in questo caso, tuttavia, la descrizione cronachistica si limita a ricordare che Celebrimbor intuì gli intenti di Sauron.

Estendendo la ricerca al Silmarillion, in particolare al capitolo intitolato «Gli Anelli di Potere e la Terza Età», si apprende un elemento importante, in grado di avvalorare la mia ipotesi sulla presenza di possessori dei Grandi Anelli prima di quelli sopra citati:

«Ma non era facile mettere gli Elfi nel sacco. Non appena Sauron si infilò al dito l’Unico Anello, essi ne furono consapevoli; d’altro canto, lo conoscevano e si rendevano conto che voleva essere il loro padrone e il dominatore di tutto quanto forgiassero. Sicché, irati e impauriti, si sfilarono gli anelli. Sauron però, accortosi che il suo tentativo era stato smascherato e che gli Elfi non si lasciavano ingannare, montò in collera; e mosse loro guerra aperta, esigendo che tutti gli Anelli gli fossero consegnati, dal momento che gli Elfi fabbri non avrebbero potuto giungere a costruirli senza la sua sapienza e il suo consiglio. Ma gli Elfi gli sfuggirono e salvarono tre dei loro anelli, che andarono a nascondere» (Silm., p. 363).

Dalla lettura di questo brano è possibile apprendere un dettaglio fondamentale, che spesso viene ignorato, sia a causa delle vicende successive, sia a causa del prologo della trilogia cinematografica che mostra una suddivisione netta dei Grandi Anelli per popolo: al contrario, sembra dunque evidente che gli Artigiani elfici non avessero forgiato gli Anelli suddividendoli in base alle diverse razze, quanto in base alla loro potenza; per questa ragione, gli ultimi tre, quelli ai quali Celebrimbor in persona si era dedicato, furono da lui messi in salvo e Sauron non potè prenderli. La suddivisione classica – Tre Anelli agli Elfi, Sette ai Nani e Nove agli Uomini – risale dunque a tempi successivi al saccheggio dell’Eregion, quando Sauron, dopo aver torturato a morte Celebrimbor affinché gli rivelasse il nascondiglio degli Anelli, si impadronì di sedici fra questi, provvedendo a distribuirli secondo i suoi piani ai Nani e agli Uomini. In verità, stando poi alla tradizione della casa di Durin, dovremmo correggere la cifra precedente in quindici: sembra, infatti, che in nome della grande amicizia che legava il popolo di Khazad-Dum con quello dell’Eregion, Durin III avesse ricevuto un anello direttamente dalle mani degli ambasciatori dell’Eregion e non già da Sauron o dai suoi agenti. Secondo la tradizione nanica, si tratterebbe dello stesso anello che sarà poi sottratto a Thrain II durante la sua prigionia nelle segrete di Dol-Guldur. Un altro elemento importante che si apprende è la scoperta della reale identità di Sauron, celata sotto la maschera benevola ed accattivante di Annatar: nel momento in cui questi forgia l’Unico Anello, i portatori dei Grandi Anelli si rendono conto della sua reale identità e trovano la forza per sfilarseli dalle dita. Questo punto della narrazione, secondo me, è di straordinaria importanza: gli Elfi, infatti, avevano la forza di opporsi all’Oscuro Signore, perfino quando questi era all’apice della sua forza. Certamente, resta tuttavia una domanda senza risposta: perché Sauron decise di «dichiararsi» agli altri portatori degli Anelli in modo così palese? Non avrebbe potuto insuinarsi nei loro pensieri in modo più subdolo, cercando di influenzare le loro volontà perché soddisfacessero i loro voleri? Non è semplice cercare di offrire una risposta a questo interrogativo. Si può ipotizzare che Sauron volesse alimentare il suo ego a dismisura (un po’ come certi cattivi dei film che non resistono all’idea di rivelare i loro piano ai buoni credendo ormai di avere vinto la partita), pensando che con l’ausilio dell’Unico nessuno sarebbe stato in grado di opporgli resistenza. Resta al di là di ogni ipotesi, poi, immaginare come abbia reagito Durin III, l’unico altro portatore di Grandi Anelli (oltre agli Elfi) in quel momento: sentì anche lui la voce di Sauron pronunciare il suo incantesimo, e ignorò deliberatemente quella minaccia? Non è possibile escludere alcuna ipotesi a priori, in questo caso: sappiamo tuttavia che i Nani si tramandavano i loro Anelli di padre in figlio senza soluzione di continuità e non rivelavano ad altri il possesso di questo oggetto, ragion per cui sembra che nessun Nano avvertisse il peso di portare seco l’Anello. Ma, ripeto, questo dettaglio non può aiutare a dare una risposta alla precedente domanda.

Quanto all’identità dei possessori elfici, possiamo avanzare almeno un nome: Celebrimbor stesso. Chi, più di lui, infatti, avrebbe potuto avere uno dei Grandi Anelli? Avevano costituito la sua più grande creazione, doveva dunque andarne molto fiero. Sugli altri elfi, invece, è praticamente impossibile fare delle ipotesi: l’unico dato certo è che essi dovevano essere i compagni di Celebrimbor, altri fabbri che come lui, avevano contribuito alla forgiatura degli Anelli. Di più, non si può dire.

Ancora più difficile diviene immaginare a quali eventuali sovrani avrebbero dovuto essere destinati gli altri Anelli. Una cosa sola è sicura, e nasconde una grande amarezza: non credo che gli Uomini del Re (ossia i Numenoreani ostili agli Elfi) e i popoli nemici degli Haradrim e degli Esterling sarebbero stati fra questi. Quanto agli anelli dei Nani, è plausibile immaginare che Sauron intendesse distribuire uno ad ogni stirpe dei figli di Durin; ma gli Elfi dell’Eregion conoscevano tutti i popoli nanici, anche quelli che abitavano nelle regioni più remote della Terra di Mezzo? Oppure si sarebbero limitati a distribuirli ai Nani di Khazad-Dum, con i quali avevano stretto un forte rapporto di collaborazione e amicizia? Io credo più realistica questa seconda ipotesi.