Una vittima di fake-news? Balin e la fallita riconquista di Moria

Dal momento che il prossimo racconto del «Ciclo del Marinaio» sarà ambientato a Khazad-Dum, ho pensato di dedicare questo articolo a uno dei nani più importanti della linea di Durin, lo sfortunato Balin, cugino di Thorin Scudodiquercia e primo signore di Moria dopo che i nani fuggirono via dalla loro ancestrale dimora nel 1981 della Terza Era, spaventati dal risveglio del Balrog.

Balin dimostra fin dal principio dello «Hobbit», romanzo nel quale appare per la prima volta, una grande umanità e disponibilità a collaborare con Bilbo: è l’unico nano, infatti, al quale l’hobbit si rivolge senza adoperare la consueta formula di saluto che adotta con gli altri nani (Bilbo Baggins servo vostro). Scioccato dall’apparizione di quegli ospiti non previsti nella sua casa, Bilbo risponde al suo saluto con un semplice «grazie». Balin, tuttavia, non sembra prendersela a male: per avere un’idea di paragone con la reazione di un altro nano, ossia Thorin, considerate che al suo arrivo Bilbo dovette scusarsi «tante di quelle volte che alla fine egli grugnì un «per favore, non importa», e spianò il suo cipiglio» (Lo Hobbit, p. 23).

Al termine della fuga dalle Montagne Nebbiose, Bilbo, che è riuscito a sgaiattolare dinanzi alla guardia di Balin grazie ai poteri dell’Anello, ha modo di chiudere l’imbarazzante scenetta che l’aveva visto protagonista durante il primo incontro con questo nano. «Be’, è la prima volta che perfino un topo mi è passato proprio sotto al naso facendo attenzione e in silenzio, senza che io l’abbia avvistato» disse Balin «e ti faccio tanto di cappello». E così fece. «Balin al vostro servizio» disse. «Baggins, servo vostro» disse Bilbo (Lo Hobbit, p. 113). Anche in questo caso, come si può notare, Balin non reagisce in modo stizzito dinanzi all’abilità dimostrata da Bilbo, anzi ne riconosce in modo sportivo la bravura. In seguito, durante la prigionia nelle segrete di re Thranduil, è Balin, il più anziano della compagnia dopo l’apparente scomparsa di Thorin (che è stato, in realtà, imprigionato dagli elfi prima dei suoi amici) a provare a difendere se stesso e i suoi amici dall’accusa di aver commesso un crimine nel territorio degli elfi silvani: «Ma che cosa abbiamo fatto, o re? […] È forse un crimine perdersi nella foresta, avere fame e sete, essere intrappolati dai ragni? I ragni sono dunque i vostri animali domestici o vostri cari amici, che ucciderli vi fa infuriare?» (Lo Hobbit, p. 198).

Dopo aver con successo ritrovata e aperta la porta segreta sul fianco della Montagna Solitaria, è ancora Balin «che aveva molto simpatia per lo hobbit» (Lo Hobbit, p. 243) a offrirsi, unico fra i suoi compagni, per accompagnare Bilbo all’interno del passaggio segreto che conduceva alla grande sala di Thror, ove dormiva Smaug. Ed è sempre Balin che cerca di confortarlo dopo che Smaug lo aveva quasi ucciso e soprattutto, dopo che aveva instillato nell’animo di Bilbo il dubbio che i Nani lo avessero ingannato riguardo alla spartizione del tesoro (Lo Hobbit, p. 260). Dopo l’attacco di Smaug a Pontelagolungo, è ancora Balin a cercare di aiutare Bilbo, disperso nel buio della Montagna (Lo Hobbit, p. 271). Al termine della Battaglia dei Cinque Eserciti, è Balin che, a nome di tutti i nani superstiti della compagnia di Thorin, saluta Bilbo e gli augura di ritornare da loro per visitare il regno restaurato (Lo Hobbit, p. 328) ed è, ancora, l’unico nano che, accompagnato da Gandalf, torna a fare visita a Bilbo alcuni anni più tardi (Lo Hobbit pp. 341-342).

Nel «Signore degli Anelli» Balin non è più presente fisicamente, ma compare solo nel ricordo dei personaggi che lo conoscevano, primo fra tutti, Gloin, membro della compagnia di Thorin, e poi divenuto ambasciatore del Regno sotto la Montagna, che accenna alla sua figura prima in un colloquio con Frodo, poi, in modo più dettagliato, durante il Concilio di Elrond.

«Son già passati molti anni – disse Gloin – da quando un’ombra inquietante cadde sul nostro popolo. Sulle prime non ci rendemmo conto da dove venisse. Parole incominciarono a sussurrarsi in gran segreto: si disse che eravamo intrappolati in una terra stretta e scomoda, e che nel resto del mondo avremmo trovato maggiore splendore e ricchezza in quantità. Alcuni parlarono di Moria: le imponenti opere dei nostri padri, chiamate nella nostra lingua Khazad-Dum; essi sostennero che ormai eravamo finalmente abbastanza potenti e numerosi per ritornarvi. […] Ma ora se ne parlava di nuovo con nostalgia, eppur con timore, perché nessun Nano ha osato varcare le porte di Khazad-Dum da molti e molti anni. […] Infine, comunque, Balin prestò orecchio ai sussurri e decise di partire; e benché Dain non fosse molto entusiasta di vederli andar via, portò con sé Ori ed Oin e molti dei nostri, e si misero tutti in cammino verso sud. Questo avvenne all’incirca trent’anni fa. Per un certo tempo giunsero notizie che parevan buone: messaggi comunicavano che essi erano entrati a Moria, e avevano messo in opera grandi lavori. Poi vi fu il silenzio, e da allora non abbiamo più ricevuto una sola parola da Moria» (Il Signore degli Anelli, p. 197).

Come si può notare da questa lunga citazione, Tolkien descrive molto bene il meccanismo delle fake-news, anche se immagino non fossero molto diffuse ai suoi tempi: nessuno fra i Nani è in grado di indicare con precisione chi abbia iniziato a diffonderle, eppure non può ignorarne l’esistenza; come ogni fake-news che si rispetti, inoltre, è stata costruita in modo da non apparire palesamente falsa all’interno di uno specifico uditorio; in terzo luogo, si dimostra in grado di spaccare la comunità fra coloro che vi prestano ascolto (Balin & Co.) e quanti mantengono perplessità e riserve, come Dain e lo stesso Gloin. Quanto alla seconda condizione, vorrei sottolineare come una fake-news che avesse sottolineato la liberazione di Moria dal Balrog sarebbe stata troppo grossolana per essere creduta, dal momento che avrebbe suscitato diversi interrogativi, come questi che riporto di seguito: «Quando è stato ucciso?» e soprattutto «Qual è stato l’eroe in grado di misurarsi con un avversario così temibile?» La fake-news, invece, deve dimostrarsi credibile, facendo, allo stesso tempo, leva sull’orgoglio e sull’ambizione di chi l’ascolta: sono i Nani ad essere divenuti troppo numerosi e potenti per restare confinati nella Montagna Solitaria, non è il resto del mondo ad essere cambiato. Balin, nonostante tutta la sua esperienza e saggezza ci casca: probabilmente, si può immaginare che alla base della sua valutazione errata, ci fosse il ricordo dello sfortunato tentativo di Thor, che aveva cercato, inutilmente, di reclamare il trono di Moria, e la necessità di rintracciare alcuni cimeli della casa di Durin, come l’Ascia di Durin I il Senzamorte e l’ultimo anello dei Nani che, erroneamente, credeva fosse stato nascosto in una delle tombe regali di Khazad-Dum, mentre, come sappiamo, era stato estorto da Sauron a Thrain II nelle segrete di Dol-Guldur molti anni prima.

La storia della colonizzazione di Moria da parte di Balin e dei suoi compagni avrebbe meritato un’appendice a parte: è davvero un peccato, a mio parere, che Tolkien non abbia scritto altro su questo valoroso, ma sfortunato tentativo di riacquistare il controllo di Moria da parte dei Nani. Si può ragionevolmente supporre che nel libro di Mazarbul fosse narrata questa vicenda in modo approfondito: giustamente, tuttavia, la Compagnia non poteva dedicarvi il tempo necessario per esaminarlo nella sua integrità, sia perché le sue condizioni materiali erano penose, sia perché mancava il tempo per farlo (anzi, si potrebbe aggiungere che averne lette alcune pagine abbia fatto correre il rischio di portare al fallimento l’intera missione, facendo cadere la Compagnia nell’agguato degli Orchi e del Balrog). Pur non essendo l’argomento principale di questo articolo, mi preme sottolineare un dettaglio che spesso sfugge ai lettori e agli appassionati in genere del «Signore degli Anelli» in merito all’incantesimo che protegge i cancelli occidentali di Moria. Molti fan, infatti, sia sui blog che sulle pagine facebook dedicate alla Terra di Mezzo, si sono chiesti perché Sauron, ai tempi delle guerre contro i Nani e gli Elfi dell’Eregion, non sia riuscito a superare le difese delle porte di Moria, nonostante la possibilità di risolvere, come fece Gandalf, l’enigma intorno alla parola di comando del cancello. Si dimentica, invece, a questo proposito, che le lettere tracciate sulla porta del reame nanico, a differenza di quanto mostrato nella prima opera cinematografica di P. Jackson, non sono «automaticamente» richiamate dalla luce dei raggi della luna e delle stelle, ma dormono sin quando non sentono «il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo» (SdA, p. 246), e che Sauron, a differenza di Gandalf, evidentemente non conosceva.

Chiusa questa piccola parantesi, cerchiamo di comprendere quale possa essere stata la storia della colonia: sappiamo, in primo luogo, che Balin fu accompagnato da molti nani. È difficile però stabilire il loro numero: proprio in alcuni paragrafi successivi alla descrizione del libro di Mazarbul, infatti, Tolkien dichiara che Aragorn e Boromir uccisero molti orchi: in realtà, il computo finale delle vittime è di soli 13 caduti, in pratica poco più di un orco ucciso per componente della Compagnia. Una cifra che, almeno apparentemente, ci appare deludente per giustificare l’uso del termine «molti» da parte dell’autore, soprattutto se confrontiamo il brano in questione con la sua rappresentazione cinematografica, ove gli orchi muoiono a decine. Cosa intendeva dire, dunque, Tolkien, quando scriveva che la compagnia di Balin era composta di numerosi nani, destinati a colonizzare almeno una parte del vasto regno nanico? Cinquanta, o ancora di più? Purtroppo è difficile rispondere a questa domanda: Gandalf, leggendo alcune pagine del libro di Mazarbul, annota solo sette morti: Fili, che viene ucciso nel primo scontro con gli Orchi; Balin stesso; Frar, Loni, Noli nella difesa del secondo salone; infine Oin e Ori. Decisamente troppo pochi per fondare una colonia in un territorio così ostile come quello di Moria. Dagli scarni brani recuperati dal libro di Mazarbul, inoltre, veniamo a sapere che i nani di Balin dovevano essere stati in grado di riaprire almeno una parte delle miniere di mithril e che dovevano aver recuperato dai sepolcri reali alcuni cimeli come l’Ascia di Durin. Sembra, inoltre, che i Nani stanziarono un dominio abbastanza circoscritto, occupando stabilmente solo i saloni attigui al Cancello Orientale, mentre una piccola spedizione potrebbe essere stata inviata al cancello dell’Agrifogliere, ossia quello dal quale aveva fatto il suo ingresso la Compagnia dell’Anello, e a recuperare le armerie superiori del Terzo Abisso. A questo punto, una domanda sorge spontanea: i Nani della colonia possedevano mappe di Moria, oppure si orientavano a tentoni? Quest’ultima ipotesi sembra difficilmente credibile, considerando che avrebbe potuto così incrementare la possibilità di imbattersi nelle aree occupate dagli Orchi: ritengo, dunque, che i Nani avessero conservato mappe di Moria, alle quali, però, non tutti dovevano avere accesso, dal momento che Gimli sembra orientarsi più facendo affidamento alle tradizioni orali della sua gente che non a indicazioni precise sui luoghi che stavano attraversando. Un altro dubbio al quale è difficile offrire una risposta riguarda la questione alimentare: come fecero i Nani, che solitamente non praticano l’agricoltura, a sopravvivere in un territorio ostile come quello di Moria per ben cinque anni? Solitamente essi ricorrevano al commercio per procurarsi le derrate alimentari: ma con quali popoli potevano commerciare a Moria (Orchi a parte)? Si può credere che essi, spinti dal bisogno e dalla disperazione, avessero preso a coltivare le terre vicine al Mirolago; credo, tuttavia, che non avessero rinunciato neppure al commercio, magari con i beorniani, (se consideriamo che con gli Elfi di Lorien essi non avessero rapporti a causa dell’ostilità fra i due popoli), dal momento che alcuni messaggeri, stando alle parole di Gloin, erano riusciti a percorrere una distanza anche maggiore rispetto a quella che separava Khazad-Dum dalle dimore dei beorniani, facendo la spola tra Moria e la Montagna Solitaria per alcuni anni. A meno che – un’opzione da non escludere a priori – i messaggi non fossero portati da uccelli, come avviene nell’Hobbit.

L’ultima pagina tratta dal libro di Mazarbul è, come confessa lo stesso Gandalf, spaventosa a leggersi: la colonia viene distrutta attraverso quella che sembra, a tutti gli effetti, un’azione concordata e non improvvisata. Notiamo, infatti, i seguenti elementi: 1) nuove truppe di Orchi sono richiamate dall’esterno, da est lungo l’Argentaroggia; 2) il livello dello stagno vicino al Cancello Occidentale sale, bloccando così la fuga verso ovest di alcuni nani che avevano tentato di intraprendere quella strada e l’Osservatore dell’acqua uccide Oin; 3) i nani odono tamburi negli abissi, una sorta di «chiamata alle armi» che precede il massacro finale. Resta da capire chi abbia ordito l’attacco ai Nani: la risposta più plausibile indica nel Balrog la mente strategica dietro tutto questo. Lungi dall’apparire come una sorta di gargoyle medioevale – tale, infatti, è l’aspetto della creatura nella pellicola di Jackson – credo sia più opportuno immaginare il Balrog come un demone dalla forma indistinta, ma dai tratti più umanoidi rispetto alla nota rappresentazione sopra citata. In basso, una rappresentazione del Demone di Fuoco secondo me maggiormente fedele alla (scarna) descrizione tolkieniana:

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Un demone in grado di parlare e pronunciare incantesimi (come quello con il quale tentò di impedire a Gandalf di chiudere la porta della Camera di Mazarbul) e, in conclusione, di ordire un’azione militare ben congegnata per distruggere il breve tentativo dei nani di Balin di riprendere possesso dell’antica città di Khazad-Dum.

Osgiliath cadrà? Scontro finale

Proseguo la narrazione della storia dell’assedio di Osgiliath da parte delle armate di Sauron al termine della Seconda Era. Nell’articolo precedente il Drago del Freddo Bairanax aveva aperto una breccia nelle mura della città: mi rendo conto, tuttavia, che non ho spiegato per quale motivo il Re Stregone avesse reclutato questa specifica specie di drago. Le mura esterne della città era state costruite con il laen, un materiale refrattario al fuoco, ma estremamente vulnerabile nei confronti delle temperature basse. Per questa ragione Sauron desiderava avere nei suoi eserciti i draghi del freddo: essi, infatti, a differenza dei più noti draghi del fuoco, erano in grado di emettere un getto di azoto liquido, avente punto di ebollizione pari a -195,82 gradi celsius, che aveva un effetto deleterio sulle mura di Osgiliath (oltre che sui malcapitati esseri viventi che avessero avuto la sfortuna di trovarsi nei paraggi). Buona lettura!

«Un grande e selvaggio clamore si levò dalle schiere di Sauron ed esse esultarono, ché la città era prossima a cedere; tuttavia, essi non avevano mezzi per superare il profondo canale ed erano riluttanti a immergere le proprie membra nella fredda acqua che lambiva le mura; Angurth allora soffiò sulla sua morbida superficie e la rese rigida, affinché le creature di Mordor potessero attraversarla e recarsi in città. Grida confuse si levarono da Osgiliath e molti capitani, senza che alcun ordine fosse stato dato loro, gettarono le armi e a nuoto attraversarono l’Anduin, raggiungendo in tal modo la sponda occidentale, ove credevano stoltamente non sarebbe giunta la minaccia dei Nazgul; impaurite, le schiere degli alleati arretrarono e la catastrofe sarebbe invero giunta su ali di tenebra, se Erfea non fosse balzato lesto sulla breccia, soffiando nel suo olifante.

Risero gli schiavi di Mordor, ché erano ancora in gran numero e non temevano la collera del Numenoreano; allora Erfea suonò nuovamente e coloro che si davano alla fuga, impugnarono nuovamente le armi e nuovo coraggio e vigore affluì nelle vene dei combattenti dell’Alleanza. Una terza volta risuonò nella notte il corno del Sovrintendente ed era codesta una sfida all’Oscuro Signore e alle sue armate; possente si levò la voce di Erfea ed essa chiamava a duello il Capitano Nero: “Murazor! Murazor! Murazor! Se non hai obliato la ignominiosa caduta dinanzi al cancello di Edhellond, vieni innanzi a me! O forse la parole di Erfea, figlio di Gilnar, colui che chiamano il Morluin, incutono troppo timore nel tuo codardo cuore?” Stupiti si arrestarono allora i soldati di entrambi gli schieramenti, ché non pareva loro possibile che un Uomo osasse sfidare il Capitano degli eserciti di Mordor, il Signore dei Nazgul e Re di Morgul: lame furono abbassate, frecce dall’acuminata punta riposte nelle loro faretre e visiere alzate; per un lungo istante gli schiavi di Mordor dubitarono e le loro membra sembrarono cedere dinanzi alla terribile sfida che il Comandante dei loro nemici aveva lanciato; stupefatti e timorosi, essi si guardavano l’un altro, senza pronunciare parola alcuna; finanche i grigi segugi di Dwar si accucciarono e l’unico suono che si udì nella pianura fu quello dei loro silenziosi guaiti.  Non vi era follia nello sguardo di Erfea, né rassegnazione, ché la morte non gli incuteva timore, avendola scorta infinite volte nel corso della sua vita; rapide, le sue labbra levarono un’ultima preghiera a colui che è sopra le potenze di Arda, infine aspettò che il suo nemico gli si mostrasse e accettasse la sua sfida: non dovette attendere tuttavia a lungo, ché il Capitano Nero tosto apparve. Fosco era lo sguardo del nemico dei Popoli Liberi e nulla era possibile leggervi in esso, eccetto l’odio e il disprezzo: lente riecheggiarono le sue parole e coloro che le ascoltarono furono presi da grande terrore: “Nessuno aveva mai osato pronunciare prima d’ora tale nome, Erfea figlio di Gilnar”. Si interruppe, infine riprese a parlare: “Forti erano le tue membra e lungimirante la tua mente, tuttavia ben m’avvedo come tu sia ora solo un pallido fantasma di quanto un tempo eri. A lungo sei sfuggito alla cattura e ora giungi alla mia lama come un incauto mendicante; se è un destino di morte quello che il tuo cuore ambisce ottenere, ebbene esso non mancherà di essere da me soddisfatto”. Rapida allora levò la possente mazza e stridulo echeggiò nella silenziosa piana un urlo foriero di odio indicibile; saldo tuttavia restò il cuore del Dunadan ed egli con elegante maestria si scansò lesto: allora Sulring si abbatté sul capo dell’oscuro nemico, eppure la ferrea corona attutì l’impatto, sebbene essa stessa finisse in frantumi.

Cruento fu il duello e nessuno fra quanti vi assistettero ne obliò mai il ricordo: letale era tuttavia il Signore dei Nazgul e la potenza del suo padrone era in lui, mentre il braccio di Erfea era stanco per il gran combattere di quei lunghi mesi, e il suo animo era provato dal dolore e dalla perdita; gioì lo spettro, ché la sua oscura lama affondò nel basso ventre del suo avversario e vicino fu a ottenere la sua vendetta, allorché essa gli sfuggì di mano e un intenso dolore gli attraversò il nero spirito; annebbiata gli divenne la vista, mentre tutt’intorno a lui l’aere brillò e la luce penetrò nelle sue carni. “A use, mol Mordoro! (Fuggi, servo di Mordor)”; sopraffatto da tali parole, il Signore degli Stregoni fuggì lontano e le sue schiere tremarono e si dispersero nella pianura; alto sorse il Sole sul mondo ed esso allontanò le tenebre di Mordor; Glorfindel e Bor furono lesti a impugnare le armi e la loro furia fu tale che nessuno fra quanti combattevano nelle fila dell’Avversario poté resistere loro.

Esamine giaceva Erfea sulle rovine delle mura; per un istante egli obliò ogni cosa e gli parve di intraprendere sentieri che nessun altro essere aveva mai percorso: lucida allora gli parve l’immagine di Elwen dinanzi a sé e nel suo cuore baluginò la speranza che ad altri toccasse l’arduo cammino intrapreso anni prima. Infine tutto disparve ed egli ascoltò nuovamente il lamento delle armature scosse da fredde lame, i gemiti degli Uomini morire nella triste alba e le oscene voci dei Nazgul reclamare la preda perduta: la realtà penetrò allora in lui, simile a un rapido coltello ed egli si scosse ché la guerra lo chiamava alla sua folle danza. Non vi era più traccia della ferita che il nero servo di Mordor aveva inflitto alle sue carni ed egli non avvertiva nel suo cuore più alcuna paura o dolore; lacrime felici gli ornarono il viso, ché aveva compreso a chi dovesse la vita: liete, allora salirono al cielo parole di ringraziamento e di amore ed egli si rizzò in piedi mentre la calda luce parve avvolgerlo nel suo abbraccio. Glorfindel era lesto accorso al suo fianco, allorché lo aveva visto cadere sotto il crudele colpo del Re Stregone e ora lo mirava in volto, stupefatto per quanto era accaduto: per alcuni istanti nessuno parlò fra loro, infine Glorfindel rise e coloro che lo udirono non poterono fare a meno di provare il medesimo sollievo: “Lieto è il mio cuore nello scorgere il Signore dei Dunedain in salute, ché molto avevo temuto per la tua vita; nessuno oblierà quanto compisti per le nostri sorti e il tuo nome risuonerà come un monito per le schiere dell’Avversario”. Rise anche Erfea, infine parlò: “Non fui io a sconfiggere l’oscuro spettro, ma colei che i miei sensi mortali perdettero molti anni fa e che in questa ora buia mi ha salvato da morte certa”. Ristette un istante in silenzio, infine parlò nuovamente e le sue parole echeggiarono chiare per tutta la piana: “Elwen vanimelda, namarie!” (Elwen dolce amata, addio!) Annuì lentamente Glorfindel: “Comprendo quanto le tue parole affermano e il mio cuore gioisce, ché non dovremo temere l’oscuro braccio del Capitano Nero per qualche tempo; temo, tuttavia, che egli non sia stato distrutto e che debbano trascorrere molte altre epoche prima che ciò accada”. “Lungimiranti sono le tue parole, Signore dei Noldor; non sarà per mano di un Uomo che egli perirà, eppure ciò accadrà, quando sarà giunta l’ora. Suvvia, ora rechiamoci dai nostri compagni, ché grave una minaccia pesa ancora su di noi, e la malefica schiatta di Morgoth non è stata ancora abbattuta”.

Discesero i due capitani e a lungo Glorfindel serbò nel suo cuore le parole del Numenoreano, senza che nessun altro ne venisse a conoscenza; Uomini, Elfi e Nani andavano adunandosi innanzi a loro, ché la speme era tornata a fiorire nei loro cuori e sebbene i quartieri orientali di Osgiliath fossero stati invasi dalle armate di Mordor, pure il ponte sull’Anduin non era caduto e la fortezza che su esso era stata edificata al principio della fondazione della città restava sotto il loro controllo: lesti, dunque, essi accumularono travi annerite e qualunque altro materiale fosse reperibile e si accinsero a fortificare l’accesso che dava ai quartieri occidentali e a Minas Anor. Barricate furono innalzate nelle strade che conducevano alla cittadella e i soldati corsero a recuperare le armi e altro materiale bellico che, nella confusione della prima rotta, erano stati incautamente abbandonati: severi erano i loro sguardi, ché più non avvertivano la disperazione nei loro cuori e sebbene la difesa della città fosse ora molto più difficoltosa che in partenza, pure erano fiduciosi e i loro animi privati dall’Ombra che il Capitano Nero aveva portato fra loro.

Un messaggero a cavallo giunse lesto e chiese udienza al Sovrintendente, ché aveva da consegnargli novelle di buon auspicio; giunto che fu innanzi a lui, il messo così parlò: “Mio signore, l’isola di Cair Andros è stata sguarnita dalle truppe di Mordor, ché essi si ritirarono seguendo la direzione che conduce alle steppe della Dagorlad e ai Cancelli Neri; quali sono i tuoi ordini? Il guado è ora incustodito”. Lesto rispose Erfea: “Invero liete sono tali novelle e il tuo nome, othar, non sarà obliato: conduci innanzi a me Aldor Roch-Thalion, Signore dei Cavalli e Herim l’Impavido, affinché essi siano pronti a una sortita a cavallo”. Un breve inchino seguì la richiesta di Erfea ed ecco che i due capitani dei Popoli Liberi furono da lui: “Miei signori, per un motivo a me ignoto, le schiere di Mordor fuggono a Nord, lasciando sguarnita Cair Andros: è giunto dunque il tempo di caricare sul fianco destro l’esercito di Sauron, ché nessuno si opporrà a noi durante l’attraversamento dei Guadi e la sorpresa tra le armate del nemico sarà totale, ché essi non sospettano nulla. Celere deve però essere la nostra manovra, ché se fossimo individuati e scoperti, allora ogni nostra resistenza sarebbe vana”. Annuirono i due capitani degli Uomini, e riunirono i loro battaglioni, ai quali si aggregarono anche i cavalieri elfici comandati da Edheldin; giunti che furono innanzi alla porta occidentale, Erfea chiamò a sé Aldor e lo pregò di restare in città, ché nel suo cuore sorgeva grave una nuova minaccia e non avrebbe desiderato che Osgiliath rimanesse del tutto sguarnita di capitani di valore, ché sebbene grande fosse la sua fiducia nelle genti di Khazad-Dum, pure sapeva che essi non avevano mai sostenuto un assedio di tali dimensioni e non erano soliti combattere all’aperto.

Seppur a malincuore, ché molto gli premeva cavalcare contro le immonde schiere che minacciavano la sua gente, Aldor accettò tale ordine e, raggiunti Bor e Glorfindel, prese il comando delle schiere rimaste in città. Penose furono le ore che seguirono, ché gli schiavi di Sauron, dopo l’iniziale smarrimento seguito alla scomparsa del loro Capitano, si erano radunati nuovamente e ora marciavano contro i soldati dell’Alleanza; antichi palazzi e maestosi minareti, edifici ricolmi di antichi tomi recuperati a Numenor, nulla fu risparmiato dalla furia dei guerrieri di Mordor ed essi appiccavano il fuoco ovunque: non potettero però fare prigionieri, ché i loro nemici si erano ritirati al di là del fiume ed essi non avanzarono oltre, ché una fitta pioggia di frecce scese sulle loro avanguardie ed essi si ritirarono nei quartieri che avevano conquistato, mentre alcuni fra loro inviavano messaggi a Khamul, ora comandante delle schiere dell’Occhio, perché egli conducesse i superstiti draghi del freddo all’attacco finale.

Mai giunse tale messaggio all’Orientale, ché esso fu intercettato dalla cavalleria alleata, e invero fu un bene che ciò accadesse perché, in caso contrario sarebbero affluiti notevoli rinforzi alla città; i Vermi di Morgoth, tuttavia, resisi conto di quanto era accaduto, si mossero lesti e le loro minacciose sagome proiettarono inquietanti ombre sugli edifici della città: stridule e possenti le loro urla riecheggiarono nei vicoli deserti di Osgiliath, eppure tali malvagie creature non incutevano lo stesso timore che aveva colto impreparati i Figli di Iluvatar in precedenza, sicché i loro cuori restarono saldi e non temettero.

Sovente Aldor e Glorfindel accorrevano laddove il pericolo era maggiormente presente e coloro che li osservavano erano colti da stupore, ché parevano fratelli di antica data; eppure, nessun combattente ricevette tanti elogi quanti il figlio di Bor, Groin Hroa Sarna: saldo era infatti rimasto il suo cuore perfino quando era stata aperta la breccia nelle mura ed egli era l’erede di una stirpe spietata. In preda al panico, Orchi e altre creature delle tenebre fuggivano dinanzi alla sua ascia bipenne ed egli tenne la sua posizione senza arretrare di un solo passo. Glorfindel non pronunciava parola, né verso i suoi nemici, né nei confronti degli alleati, eppure la sua sola vicinanza procurava agli Uomini diletto e pace e nessun ombra si allungava su di lui; frecce erano scagliate dal suo arco ed egli sovente ricorreva alla sua maestosa spada allorché gli Orchi osavano avvicinarsi troppo; beltà e saggezza erano impressi sul suo volto, a gloria della maestà dei Signori degli Eldar dei tempi remoti. Aldor Roch-Thalion combatteva con una grande violenza e finanche i pesanti fanti dei Numenoreani Neri non osavano incrociare le loro larghe lame con quella del capitano degli Eothraim; alti si levavano i suoi gridi di guerra e gli Orchi erano atterriti dalla sua furia cieca; Bairanax lo scorse sul ponte, possente figura, ergersi su quanti tentavano vanamente di contrastarlo e il suo soffio gelido si abbatté su di lui, senza tuttavia scalfirlo, ché nel suo animo era scesa la forza di Orome il Cacciatore, che il suo popolo chiama Bema, ed egli non temeva alcun nemico; rapido, il Theng si scagliò allora contro il drago e balzato agilmente sul suo dorso, vi piantò la lancia in frassino che impugnava nella sua mano sinistra, gridando parole di vittoria, ché nel suo cuore non si era spento l’eco del sacrificio di Ariel ed egli desiderava ottenere giusta vendetta.

Terribile fu l’agonia di Bairanax e il suo grido di morte echeggiò per molte miglia intorno; infine si accasciò al suolo e tutte le creature di Mordor si riversarono fuori dalla città, ché temevano la furia di Aldor e non osavano avvicinarsi a lui; un grande numero di fanti si radunò tuttavia dinanzi alla Città delle Stelle e tosto si disposero nuovamente per l’assalto, ché si avvidero essere in superiorità di almeno uno a venti e non temevano le mortali frecce dei Numenoreani, né le letali asce di Khazad-Dum.

Solitario risuonò allora nella piana un olifante e un cavaliere apparve all’orizzonte; risero, le infami schiere del nemico, ché non temevano la sua sfida; allora l’olifante del cavaliere risuonò ancora e il dubbio si insinuò nel cuore degli Orchi, ché non avevano obliato il figlio di Gilnar e alcuni fra loro affermavano essere tale cavaliere il loro mortale avversario; eppure, essi erano in numero tale che non potevano temerne l’ardore e la collera e tosto l’arroganza subentrò nuovamente nei loro cuori. Lesti, però, centinaia di corni echeggiarono nuovamente e sembrava che l’intera armata dei Vanyar fosse giunta alla Terra di Mezzo su ali intessute di rugiada; tremarono gli Orchi e si diedero alla fuga, ché la cavalleria degli alleati era giunta su di loro ed essi si avvidero che la loro fine era prossima.

Nessuno udì le parole che Erfea figlio di Gilnar pronunciò prima di condurre le sue schiere alla carica, eppure, egli non abbisognava che di un solo cenno per guidarne l’assalto, ché grande era nei cuori dei soldati la stima per il Sovrintendente di Gondor e lo avrebbero seguito ovunque egli avesse condotto i loro destrieri; rapidi dunque cavalcarono i Figli di Iluvatar e nelle prime ore del mattino spezzarono le linee degli eserciti di Mordor. Nessuno poté resistere alla loro carica impetuosa; i selvaggi Esterling, i possenti Haradrim, finanche gli enormi Troll delle caverne ondeggiarono e caddero; simili a ciottoli che i flutti della marea sommergono con violenza impetuosa, così i bianchi cavalieri dell’Ovest calpestarono i nemici che si ergevano pateticamente innanzi a loro, mentre altri inseguivano coloro che tentavano di scappare.

Un giorno di gloria fu dunque quello, ché non solo l’assedio cessà e la battaglia fu vinta, ma avvenne anche che il sovrano Anarion, scosso dal suo profondo sonno dall’eco di infiniti corni nella piana, si riscuotesse e, essendo balzato fuori dal suo giaciglio, conducesse i fanti gondoriani alla vittoria ed essi combatterono lieti, ché il figlio di Elendil era tornato a nuova vita. Canti furono uditi quel giorno echeggiare nella città di Osgiliath, e sebbene altri pericoli dovevano sopraggiungere a Gondor, pure le sue imponenti mura non furono mai più minacciate nel corso di quell’era e la vittoria arrise a coloro che mai avevano disperato in essa».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 303-310

I Draghi nell’assedio di Gondor

Sono sincero: una creatura che avrei voluto avesse più spazio nel legendarium tolkieniano è certamente il drago. Indubbiamente non si può dimenticare l’importanza di Glaurung nel Fato di Turin e di sua sorella Nienor, né si può restare indifferenti all’epico scontro verbale avvenuto tra Smaug e un piccolo hobbit coraggioso di nome Bilbo; per tacere, infine, di draghi come Ancalagon il Nero e Scatha, destinati ad affrontare grandi eroi come Earendil e Fram, per poi esserne uccisi. Tolkien scrisse anche una storia divertente, dal titolo Il cacciatore di draghi, ma per quanto ben riuscita, non rientra nel continuum spazio-temporale della Terra di Mezzo. In particolare, mi sono spesso domandato perché, nell’intero arco della Seconda Era, nessun drago sia riportato nelle cronache storiche della Seconda Era: una mancanza, questa, piuttosto curiosa, dal momento che, nel Silmarillion, l’autore spiega come Sauron, una volta forgiato l’Unico Anello e gettato la maschera del generoso e illuminato Annatar, decise di porre sotto il proprio dominio le creature che un tempo avevano servito il suo padrone Morgoth: orchi, troll, uccelli malvagi…e i draghi? Tolkien non dice nulla sul loro eventuale impiego da parte di Sauron nella Seconda Era: per amore di verità, bisogna anche ammettere che l’autore, nella cronologia finale delle tre ere della Terra di Mezzo presentata nell’appendice A del Signore degli Anelli,  sostiene che i Draghi si risvegliarono nel corso della Terza Era, dedicandosi poi al saccheggio dei tesori dei Nani conservati all’interno delle Montagne Grigie.

[Illustrazione gentilmente concessami da Andrea Piparo Art #Andreapiparoart #dragon]

Sembrerebbe, dunque, che i Draghi, così come l’ultimo (?) Balrog della Terra di Mezzo sopravvissuti alla Guerra d’Ira, avessero impiegato un maggior numero di anni, rispetto agli Orchi oppure ai Troll, per uscire da una sorta di «letargo» nel quale la sconfitta di Morgoth li aveva fatti precipitare. Nulla vieta di immaginare, tuttavia, nel pieno rispetto delle vicende narrate nel corpus tolkieniano (alle quali, mi piace precisare, ho sempre cercato di adeguarmi per quanto possibile), che il risveglio accennato dall’autore non si riferisca alla Prima Era, bensì alla Seconda (almeno per i Draghi; la questione del Balrog è più difficile da affrontare, dal momento che non sembra ve ne siano stati altri citati nelle cronache tra l’apparizione del demone a Moria e la loro sconfitta al termine della Prima Era). In fondo, è lo stesso autore a sostenere che nella battaglia sostenuta dall’Ultima Alleanza dinanzi al Cancello Nero di Mordor vi fossero rappresentanti di tutte le specie viventi della Terra: perché non pensare, dunque, anche ai Draghi? A questo proposito, mi sono posto una domanda che spero i miei lettori possano trovare stimolante e che si riallaccia a un interrogativo che a lungo angosciò i sogni di Gandalf dopo la comparsa di Smaug e la distruzione del Regno sotto la Montagna: «E se Sauron avesse potuto beneficiare dell’alleanza di un Drago, cosa sarebbe accaduto?»

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«L’assedio durava da ormai tre lunghi mesi, allorché un violento nubifragio sconvolse i piani d’assedio del nemico, ché le sue macchine d’assedio si impantanarono nel fango ed essi non riuscirono più ad avanzare; le schiere di Mordor allora si ritirarono nell’oscurità di Minas Ithil e per qualche tempo la città di Osgiliath godette di una pace inquieta, ché le aquile di Manwe non mancavano di riferire ai capitani dei Popoli Liberi quanto i servi di Sauron andassero nuovamente radunandosi, presagendo la sconfitta degli Uomini del mare. Vi erano, tuttavia, altri alleati del Nemico che i messaggeri di Manwe non riuscivano a scorgere, ché essi si erano ritirati fin dalla caduta del loro signore, al termine della Prima Era, nei recessi montuosi del Nord, lontani dalle contrade abitate dai Figli di Iluvatar; nelle steppe aride, al di là dei Monti Grigi, ove un tempo sorgeva la fortezza di Utumno, i Grandi Draghi prosperavano e nulla di quanto era prima presente in tali terre era sopravvissuto alla loro forza distruttiva. I Vermi di Morgoth non temevano Sauron, né lo servivano apertamente, reputando la sua autorità insufficiente per dominarli, ché solo al loro antico signore essi davano obbedienza; molto, tuttavia, avevano sentito dire dell’assedio che le schiere del più possente fra i servi del Vala Caduto muovevano al giovane regno di Gondor e mostravano di nutrire un certo interesse per le sorti di tale battaglia, ché volentieri avrebbero predato quanto gli eredi di Numenor avevano recato con loro dagli Abissi del Mare.

In quel periodo, tre draghi si levavano fra gli altri per possanza e crudeltà e non vi era servo di Morgoth, tra quanti condividevano il domicilio con tali perfide creature, che non ne temesse il gelido soffio e l’astuta parola; tali creature avevano nome Ando-Anca, Bairanax e Angurth ed erano nate dopo gli sconvolgimenti che avevano provocato l’inabissamento del Beleriand, al termine della Prima Era; mai essi avevano mirato le possenti torri di Thangrodim, né scorto, lugubre nella tenebra che la circondava, Barad-Dur la terribile, eppure alti si levavano in volo e finanche le grandi aquile di Manwe non osavano avvicinarsi a tali contrade, presagendo che un grande male fosse all’opera.

Orchi e altre creature della Tenebra erano all’opera in quei giorni ed essi tolleravano che prendessero parte alle battaglie che si svolgevano a Sud, ché prevedevano sarebbe giunto loro grande vantaggio dalla vittoria di Sauron, seppure non avessero in animo di prendervi tosto parte; grande fu dunque il loro stupore, allorché, una sera, giunse alla dimora nella quale erano soliti divorare i cadaveri delle loro incaute vittime, un cavaliere ammantato da un lungo manto nero e del quale erano visibili solo gli occhi, la cui rossa luminosità era tale da rischiarare perfino le tenebre nelle quali codesti esseri dimoravano; grande fu la loro ira, ché essi erano intenti all’orribile pasto e non tolleravano che alcuno disturbasse la quiete nella quale erano immersi. Ando-Anca, il più possente e anziano fra i tre, così apostrofò il nuovo venuto: “Chi sei tu che disturbi la gloriosa progenie di Glaurung? Lenta sarà la tua morte, ché nessun mortale ha osato violare la soglia dalla quale tu hai fatto sì impunemente ingresso!”

Glaciali erano state le parole che il Grande Verme aveva adoperato e gelido il suo tono; eppure, mentre egli nel suo cuore nero gioiva, pregustando un rapido e facile pasto, il suo animo fu raggelato da un potere quale mai i suoi occhi avevano scorto fin da quando era venuto fuori dal suo osceno uovo; un intenso dolore gli attraversò le membra e il suo capo fu sconvolto da visioni quali mai nessun mortale era stato in grado di infliggerli: inutile era ogni sua resistenza e presto si avvide che anche i suoi fratelli giacevano nelle medesime condizioni di dolore. Una cupa voce echeggiò allora nell’antro e coloro che la udirono furono avvinti al suo potere: “Stolti! Nessuno è in grado di pronunciare parole sì sciocche dinanzi al Capitano degli eserciti del Signore di Mordor senza avvertirne il feroce morso, ché invero io non sono un mortale quale le vostri fauci trafiggono nell’agonia della morte: Er-Murazor io sono, il Capitano dei Nazgul, gli Spettri al servizio del Re del Mondo”. Lentamente avanzò, e l’ombra parve crescere, sicché ogni cosa fu presto avvolta da una caligine fumosa e oscura, infine riprese a parlare: “Il mio signore vi rimembra che nei secoli che seguirono la dipartita dal mondo di Morgoth, il suo volere era considerato da quanti lo servivano verità e legge; vorreste forse oggi venire meno alla parola data e tradire il vostro nuovo padrone? Sappiate, Vermi di Morgoth – e qui parve che l’oscura figura ridesse – che Sauron di Mordor, colui che anticamente era noto con il nome di Gorthauron, non vi teme e non desidera che coloro che un tempo seguivano un unico vessillo, siano ora dispersi e indeboliti, ché tale infausta circostanza arreca invero molto vantaggio ai nostri nemici. Il discepolo di Melkor vi chiama e vi chiede di servire nei suoi eserciti!” Sconvolto nella mente e nel corpo, Ando-Anca tuttavia ribatté: “Se tale non fosse tuttavia la nostra volontà, cosa potrebbe la forza di un minuscolo Uomo contro la maestosità dei figli di Ancalagon? Invero, il tuo sembiante pare minaccioso e inquietante, tuttavia io dubito che tu conosca davvero quanto le tue parole sembrano dimostrare; che sia Sauron in persona, se tale è il suo disio, a reclamare il nostro aiuto, ché non ci piegheremmo certo innanzi a uno dei suoi schiavi”.

Beffardo rise il Signore dei Nazgul e, lasciato scivolare via il manto che ne occultava l’identità, si erse in tutta la sua malvagia figura; il panico si impadronì allora dei draghi, ché invero grande era la possanza di Sauron, il Signore degli Anelli, ed essa ora riluceva minacciosa nel negro spirito del suo Capitano; l’oscurità cadde sulle loro menti ed essi furono avvinti all’Anello Sovrano che adornava il nero artiglio del Crudele Nemico: remote, eppure chiare nell’oscurità, parve loro di ascoltare tali parole di potere e perfidia: “Folli! Sauron di Mordor non implora coloro che gli devono obbedienza, né tollera che la sua volontà possa essere messa in discussione! Un solo sentiero percorrerete d’ora innanzi, ed esso vi condurrà alla vittoria, ché gli auspici del mio signore si tramutano lesti in realtà”. In tale modo fu siglata la perigliosa alleanza tra i Grandi Vermi del Nord e l’Oscuro Signore che infiniti lutti avrebbe recato ai Figli di Iluvatar; lesti si mossero i draghi allorché le loro menti furono soggiogate al volere dell’Unico e all’alba del settimo giorno dacché il Capitano Nero aveva condotto da loro la parola del suo signore, essi giunsero alla città di Osgiliath, ove furono accolti dal grande entusiasmo degli eserciti del Nemico, consapevoli che non vi sarebbe stato ostacolo alla loro vittoria sulle schiere dell’Alleanza.

Cupi divennero i pensieri di Erfea allorché scorse le cuoiose ali piombare sulla città, sebbene egli sperasse nel suo cuore che non si trattasse dei Draghi del Ghiaccio, di cui molto aveva sentito dire nel corso dei suoi lunghi viaggi a settentrione; lesta, tuttavia, la sua speme venne meno allorché i servi di Morgoth ricoprirono di fredda brina i preziosi mosaici che ornavano i minareti e le ampie terrazze, seminando il panico tra i soldati. Gli arcieri di Edhellond fuggivano, abbandonando gli spalti alla mercé degli Orchi e degli altri oscuri servi di Sauron che lesti si erano arrampicati sulle torri d’assalto, poste dai Troll lungo le mura; drammatico divenne l’assedio della città per coloro che ne difendevano il bianco cancello, allorché, alla minaccia dei draghi si aggiunse quella non meno temibile di un grande ariete che era stato fatto avanzare durante la notte; centinaia di schiavi di Mordor ne trascinavano le enormi ruote e, quando alcuni di essi cedevano, sfiniti, alla fatica o erano colpiti dai proiettili che gli ultimi arcieri del regno scoccavano ancora, venivano subito sostituiti da altri Orchi e Uomini: in tal modo, nonostante l’imponente mole di cui era gravato, lesto giunse al Cancello l’enorme ariete ed esso fu trascinato lungo il ponte rialzato che conduceva alla porta.

Un tremolio lugubre scosse le fondamenta della città allorché i pesanti magli dell’ariete furono con forza issati e lasciati ricadere sulla massiccia porta: a lungo tale eco riecheggiò, si spense, e nuovamente atterrì di terrore tutti coloro che la udirono, eppure, restie a cedere erano le travi in acciaio e galvorn che sostenevano gli enormi battenti in quercia.

Ariel si ergeva ritta innanzi al cancello, simile a Varda prima che Morgoth fuggisse e la rovina piombasse su Valinor; penoso era il suo sguardo, eppure limpidi i suoi occhi, ché fiero era il suo animo e pure nella profondità della tenebra intravedeva un barlume di luce; lesta cercò l’Alto Theng del Rhovanion con lo sguardo e quando lo ebbe trovato, tali furono le sue parole di commiato: “Addio, Eothraim! Mai oblierò le tue cortesi parole e se questi non fossero stati tempi di guerra, diverso sarebbe stato il nostro percorso! Giunta è la mia ora; possa essere la tua altrettanto gloriosa!”

Possente riecheggiò l’urlo di guerra dell’Amazzone e gli Orchi fuggirono innanzi a lei; nulla poté Aldor, ché ella era una donna vigorosa e la sua scelta già presa; sola la vide avanzare nella tenebra, la lunga lama in acciaio sguainata accanto all’alto elmo di ali guarnito. Ando-Anca la osservò, minuscola figura, ergersi sulla rovina che il suo soffio gelido aveva causato; grande, allora, avvampò nel suo cuore l’ira, sicché allargò le ali e, simile a una saetta, si lanciò contro la donna; più lesta ancora fu tuttavia Ariel e con maestria affondò la mortale lama nelle fauci del nemico.

Schiumò e urlò, il possente figlio di Ancalagon, e la terra fu squarciata dalla sua atroce agonia; nulla poté tuttavia, ché, sebbene l’Amazzone fosse stata trafitta dai suoi possenti denti, pure la sua lama era affondata nel suo cranio, rimanendone fieramente incastrata, simile a un bianco vessillo ornato di sangue. Come una frana che tutto sconvolge, così Ando-Anca precipitò dalle alte mura, travolgendo quanti erano lungo la sua traiettoria; fuoco e ferro, acqua e legno, nulla sopravvisse al suo passaggio ed egli affondò in basso, trascinando nella sua rovina il possente ariete che le schiere di Mordor avevano condotto a Osgiliath; lesto allora il panico si impadronì dei servi di Sauron ed essi fuggirono per ogni dove; a nulla valsero le selvagge urla dei condottieri dell’Occhio, ché essi furono travolti dalla pazzia che sembrava aver invaso i cuori dei loro soldati. Un possente clamore si udì echeggiare nella pianura, infine tutto fu silenzio: Ariel era morta, ma il suo sacrificio aveva impedito alla città di cedere.

Smarriti si mossero gli Uomini in città, ché su tutti era piombata improvvisa una grande stanchezza; luce non vi era sul volto rigato dalle lacrime di Aldor Roc-Thalion e accanto a lui, silenti nel dolore che accomunava i loro cuori, erano Erfea e Herim, il cui braccio sanguinava copiosamente; infine, un nuovo Sole sorse e il mondo dei mortali e di coloro che non periscono sembrò vivere nuovamente, ché essi furono illuminati dai suoi possenti raggi: balzato rapidamente in piedi, il Signore del Rhovanion allora lanciò la sua spada in aria e tutti coloro che erano con lui in quel momento, crederono di aver visto Orome il Vala, possente nella sua forza.

“L’affetto più prezioso che avevo mi è stato sottratto dalle armate di Mordor e io non oblierò mai il dolore che avvolge il mio animo; possa tuttavia giungere lesta l’ora della vendetta, ché il mio cuore freme e in esso la collera è forte”. Nessun altro parlò in tale triste ora, ché non vi erano parole nei loro idiomi atte a esprimere quanto ciascuno racchiudeva nel proprio cuore ed essi si ritirarono, cercando invano nel sonno beffardo la quiete che i loro animi avevano smarrito molti anni prima.

Nei giorni successivi, sotto l’esperta guida di Bor e di suo figlio Groin, gli Uomini della città posero mano al martello e all’incudine, sanando le ferite che la guerra aveva condotto con sé; lame furono forgiate, secondo la tecnica di Khazad-Dum, ed esse atterrirono le schiere del Nemico, allorché giunse il momento di impugnarle: nessuno, tra coloro che dimoravano all’interno della mura di Osgiliath ancora inviolate, era in grado di prevedere quando sarebbe giunto nuovamente il momento del confronto. Erfea, tuttavia, diede ordine ai suoi soldati di intensificare la sorveglianza del Cancello e del Ponte e ne inviò alcuni per osservare i movimenti delle armate del Re Stregone; nulla però seppero riferire coloro che fecero ritorno alla città, ché l’Ithilien era desolato e il nemico si era trincerato nella fortezza di Minas Ithil, ove essi non avevano il coraggio di avvicinarsi, memori della crudeltà dei Nazgul e dei loro servi.

Poche o punte notizie giungevano dal Nord, ché scarsi erano i contatti tra il regno di Arnor e quello di Gondor e perfino in tale ora del bisogno Erfea ammoniva i Saggi di Gondor a evitare l’uso della Palantir, per tema che Sauron potesse impadronirsi della mente di chi avesse avuto l’ardire di scrutare nelle antiche pietre veggenti.

Trascorsero i giorni e giunse aprile, recando con sé nuove sofferenze, ché i campi furono gelati dalla neve e un gelido vento sferzava i pinnacoli delle torri della città e ancor più gli animi di coloro che la difendevano; inquieto divenne Glorfindel ed egli sovente volgeva il proprio sguardo a Nord, nella speranza di scorgere i lucidi vessilli di Gil-Galad e di Elendil; ma nulla si muoveva nelle brume settentrionali e numerosi Uomini morirono, decimati dalle malattie e dalle ferite. “Mai, dacché il reame di Gondor ebbe origine, la Primavera era stata sì crudele con i suoi abitanti – osservò Herugil una notte – “Codesta è opera del Re Stregone e dei suoi accoliti, ché si narra che egli sia in grado di evocare il freddo dagli Spazi oltre la Notte Eterna” – gli rispose Herim; nessuna parola fu pronunziata da Erfea, eppure il suo cuore sapeva essere veritiere le parole del Capitano degli orientali.

Giunse maggio e le bufere di neve sembrarono placarsi; nuova speranza sorse allora nel cuore delle Libere Genti, eppure questa altra non era che la volontà dell’Oscuro Signore, ché egli desiderava che non vi fossero impedimenti alla sua mossa finale: in gran segreto, i suoi schiavi presero nuovamente ad armarsi ed essi mossero rapidamente verso il fiume e la città di Osgiliath, finché, il primo di quel mese, essi non giunsero nuovamente alla capitale di Gondor, iniziando un nuovo assedio.

Nessun cronista di quei tempi fu in grado di apprendere quanti fossero i soldati e gli schiavi che militavano nelle file dell’Oscuro Signore, ché tale moltitudine sembrava aumentare di giorno in giorno. Scuro in volto, la mano destra che accarezzava l’elsa di Sulring, Erfea Morluin mirava quanto accadeva nella piana sottostante le possenti mura della città, mentre la mente era intenta a rimembrare altre battaglie alle quali aveva partecipato nei lunghi anni della sua vita; ratto tuttavia si voltò allorché apparve alle sue spalle Bor, seguito da Groin. Per alcuni istanti un eloquente silenzio regnò fra loro, infine la roca voce di Bor echeggiò bassa: “Salute a te, figlio di Gondor! Un nuovo assedio è pronto a iniziare e sebbene possa essere possibile che codesto sia l’ultimo al quale le nostre vite mortali prenderanno parte, non disperiamo, ché ben conosciamo il valore delle nostre stirpi ed esse non temono gli schiavi di Mordor. Mai, nel corso della mia pur lunga esistenza, avevo mirato un simile coacervo di razze unite sotto un’unica bandiera, eppure, poche fra queste risultano a me note, ché esse non provengono dalle contrade ove io in tempi di pace ho dimorato, né hanno mai incrociato le asce della mia gente prima che questo lungo assedio avesse inizio; tu però godi di una conoscenza degli schiavi di Mordor che neppure un signore degli Elfi qual è Glorfindel può vantare di possedere: illustraci dunque, o Dunadan, le stirpi di coloro che servono il Nero Nemico del Mondo”.

Erfea ristette a lungo in silenzio, infine parlò e la sua voce si levò calma e impassibile sui pinnacoli e sui minareti della città: “Invero numerose sono le genti i cui guerrieri militano negli eserciti di Sauron; vi dirò, dunque, quanto ho appreso nei miei lunghi anni di esilio nelle vaste e desolate contrade che si estendono nell’estremo oriente e meridione di Arda. Sappiate, infatti, rampolli della stirpe di Durin, che codeste regioni sono la dimora di tribù feroci e ostili ai Popoli Liberi, implacabili in battaglia e rese schiave dall’oscuro potere dell’Unico che procura infame gloria al Nemico; lesti i loro guerrieri sono accorsi a servire l’Occhio, perché i loro capitani e signori altri non sono che i Nazgul”. Annuì lentamente Groin Hroa Sarna, infine, indicando con il suo poderoso braccio le schiere di Sauron, così apostrofò il Dunadan: “A quale stirpe appartengono coloro che sono all’avanguardia dell’esercito del Nemico? Uomini sembrano, eppure sconosciuti mi sono i loro costumi e ignote al mio orecchio le favelle che essi adoperano: taluni sono armati di lunghe alabarde la cui fattura mi risulta nuova, mentre altri adoperano robusti archi di tasso. Rozzi usberghi in cuoio proteggono i loro villosi petti ed essi indossano elmi piumati”. “Codeste schiere – riferì Erfea – servono Uvatha e Ren, i due Ulairi del Sud, e provengono dalle contrade del Khand e del Chey, ché tali sono, infatti, le patrie cui appartengono quei Nazgul”.

“Imponenti sembrano ai miei occhi quelle bestie che sulla sinistra dello schieramento avanzano – interloquì Bor – e non vi è nome nella mia lingua per definirne la terribile collera che sembrano emanare”. “Veritiere sono le tue parole, ché essi sono chiamati mumakil nella lingua dei popoli presso i quali sono impiegati, e olifanti nella favella dei cavalieri del Rhovanion: innanzi a me scorgo avanzare un possente esemplare di tale razza, dipinto di rosso e nero, sul dorso del quale si erge un imponente baldacchino di oro e avorio intarsiato: colui che ne impugna con sprezzante autorità le lunghi redini, altri non è che il quarto Nazgul in possanza, Indur Re del Mumakan e delle contrade a esso sottomesse, colui che i suoi servi chiamano il Flagello dell’Alba. Prodigioso è il suo elmo ricavato dal cranio di un olifante quale egli cavalca, e letale è la scimitarra che egli impugna nella battaglia; guardatevi dal suo letale manto – concluse Erfea – ché esso conduce chi lo osserva alla follia e alla perdizione”.

“Gravi e saggi sono i tuoi ammonimenti, Erfea figlio di Gilnar e noi ne terremo conto – gli rispose Groin – Invero vasta è la tua conoscenza delle schiere del Nemico e grato ti sarà il mio animo se mi vorrai indicare il nome e la stirpe di colui che cavalca uno splendido stallone, quale mai i miei occhi hanno mirato; numerosi cavalieri seguono tale condottiero ed essi sembrano feroci nell’aspetto, sicché perfino il più valoroso fra gli Uomini potrebbe temerne la carica. Chi è dunque costui?”

“Egli è Khamul l’Orientale, colui che i suoi servi chiamano il Re Dragone, secondo in possanza fra i Nazgul; letale cacciatore delle terre che si estendono a Nord del Rhovanion, il suo elmo dorato, intagliato a guisa di drago, riluce minaccioso nella piana; non vi sono cavalieri sì audaci nelle schiere del Nemico quali sono quelli che servono nell’esercito di Khamul ed egli è invero uno spirito esperto della negromanzia e dell’arte del combattimento”. Mentre così dialogavano i tre condottieri, le schiere del nemico si approssimarono alla città e presto fu possibile scorgere anche le milizie che sostavano alla retroguardia: erano costoro i veterani dell’esercito di Mordor, coloro che avrebbero permesso al loro Oscuro Sire di trionfare, qualora avessero preso parte alla battaglia.

“Ben m’avvedo come codesti guerrieri siano d’aspetto feroce e d’indole implacabile, tuttavia ignote mi sono le stirpi cui essi appartengono; chi comanda quei carri di vimini e di seta intessuti, la cui polvere sollevata è simile a una nube?” osservò Bor, mirando tali schiere.

“Hoarmurath di Dir è il suo nome, ed egli è sesto fra i Nazgul in possanza; invero crudele è il suo animo e il suo arco nero ha mietuto numerose vittime tra i nostri eserciti; codesti guerrieri sono Esterling provenienti dal mare interno di Rhun, a levante dei Colli Ferrosi: rapidi nella pugna, essi incutono infinito timore, ché non vi è fante che non tema di essere calpestato dai loro mortali carri”.

Improvviso, un grande clamore si levò nell’aria e risa selvagge furono udite echeggiare in tutta la piana; nuova inquietudine crebbe nel cuore di Erfea ed egli indicò ai Nani coloro che comandavano le schiere che sì impunemente procedevano, acclamate dall’intera armata. “Una grande moltitudine scorgo innanzi a me, tale che ogni altra forza del nemico a essa paragonata sembra poca cosa; Orchi e Troll delle caverne ne guidano l’avanguardia, e il loro fetore è tale che giunge fin qui: non sono tuttavia costoro che incutono timore nel mio animo, ché una fitta schiera di Numenoreani Neri segue i loro passi ed essi sono i nostri nemici più pericolosi”.

“Invero – interloquì Bor – codeste nuove armate dell’Oscuro Signore sembrano meglio equipaggiate rispetto a quelle che abbiamo affrontato e vinto fino a oggi. Un grande latrare i miei orecchi ascoltano e il mio cuore è colto da improvvisa paura ché mai aveva udito simili grida, le quali paiono giungere dall’Abisso!”

Erfea annuì: “Hai dunque udito le schiere di Dwar di Waw, il capitano del Cancello Nero e terzo fra i Nazgul; Signore dei Cani lo chiamano i suoi accoliti e le sue bestie sono tra le più feroci fra quelle che calcano le contrade di Endor”.

Mentre così discorrevano, Groin emise un urlo strozzato e parve a chi lo mirava che il colore dal suo viso fosse svanito; tremante, il suo dito indicava tre possenti armate che, lentamente, procedevano verso la città: tre enormi figure nere cavalcavano alla loro testa e due fra loro erano attorniate da soldati e dai mostruosi segugi da guerra di Dwar; la terza, più alta e imponente delle altre, procedeva solitaria e nessuno aveva l’ardire di marciare a meno di cento piedi da essa, ché emanava una malvagità tale da atterrire finanche i selvaggi Orchi e gli irascibili Troll. Una grande corona ferrea cingeva il suo capo e una pesante mazza pendeva al suo fianco sinistro, mentre una lama lunga sessanta pollici era cinta alla sua destra; autorità e terrore lo procedevano e un grave silenzio scese al suo arrivo, tale che perfino sugli spalti delle mura nessuno ebbe l’ardire di spezzarlo.

“È giunto colui che temevo sopra ogni altro nemico, eccetto l’Oscuro Signore in persona: egli è infatti il Capitano Nero, Signore degli Stregoni e Re degli Spettri; infette sono le sue oscure parole e le menti degli Uomini sono avvinte al suo potere, ché la volontà del suo padrone è in lui e la sue armi, che le storie narrano siano state forgiate dalle oscure mani di Sauron in persona quando egli era ancora un servo di Morgoth, incutono timore e terrore fra quanti le osservano”.

Lesto riprese l’assedio e parve che invero fosse giunta l’ora in cui la città degli Uomini del mare avrebbe infine ceduto; restio era però il suo Sovrintendente a effettuare una sortita a cavallo, ché sebbene il parere di Herim e Glorfindel fosse contrario, sapeva essere i Guadi e l’isola di Cair Andros in mano alle schiere del Nemico ed egli era solito ricordare che dei diecimila cavalieri che erano ancora in città non ne sarebbero giunti vivi che la metà, qualora essi avessero tentato di impadronirsi dell’isola e di cogliere il nemico sul fianco destro.

Una mattina, tuttavia, giunsero a Osgiliath inaspettatamente novelle di speme intrise, ché le aquile di Manwe riferirono che le prime avanguardie delle schiere di Gil-Galad e di Elendil avevano attraversato l’Alto Passo sulle Montagne Nebbiose e si accingevano a fare il loro ingresso nelle vaste distese del Rhovanion; lesti, allora, furono richiamati a Nord i reparti di mumakil, Carrieri e delle altre schiere a cavallo, ché Sauron provava nel suo cuore grande paura e temeva che i Cancelli Neri sarebbero rimasti sguarniti qualora i nemici fossero giunti alla sua dimora.

L’entusiasmo dei condottieri dell’Alleanza si mutò tuttavia lesto in inquietudine e poi in terrore allorché comparvero nuovamente i grandi Vermi di Morgoth; l’intera città tremò sino alle fondamenta allorché il soffio gelido della maligna prole del Vala Caduto ne deturpò i possenti torrioni e i gai giardini; vana fu ogni difesa, ché i soldati dei Popoli Liberi erano ormai prostrati e non vi era più forza nelle loro bracce: numerose difese furono abbandonate e molti fuggirono al di là del ponte che conduceva a ponente e alla città di Minas Anor, convinti che Osgiliath orientale fosse perduta. Lesta cadde la notte e alle schiere di Uomini si aggiunsero quelle delle infami creature della Tenebra; restia a cedere era però la difesa del cancello e nessuno fra quanti comandavano le laide schiere del Nemico osava ancora approssimarsi al gelido splendore di Sulring, la lama di Erfea, e con lui erano anche i Principi dei Nani di Khazad-Dum e i Signori dei Noldor in esilio.

Atti di valore furono compiuti durante quella di notte ed essi risuonano ancor oggi gloriosi agli orecchi di quanti ascoltano narrare tali vicende; non vi erano, tuttavia, solo i pesanti battenti delle porte da difendere, ché le mura esterne erano state abbandonate nelle mani degli Orchi e degli altri schiavi sottomessi a Sauron e se costoro non avevano ancora fatto il loro ingresso in città avveniva solo perché gli arcieri, protetti e occultati dall’enorme mole delle torri e dei merli interni, continuavano a scagliare frecce e proiettili su quanti si approssimavano loro.

Per qualche ora, dunque, le difese ressero ancora; infine, una grande ombra cadde su di loro e Bairanax, il Verme del Ghiaccio, piombò su quanti combattevano sugli spalti a meridione, travolgendo nell’impeto della sua foga alleati e nemici; letale, il suo fetido alito imprigionò nel ghiaccio Uomini e Orchi, infine si abbatté con foga sulle mura: alle due del mattino del giorno successivo, una breccia fu aperta e il pericolo piombò improvviso sulla città».

Il Ciclo del Marinio, pp. 297-302

Un erede al trono di Numenor?

Su suggerimento di un mio lettore, il quale, giustamente, mi faceva notare come, nella prima parte del racconto «La Rosa e l’Arpa», da me intitolata «Ritratto di una principessa», si trovi un riferimento a una figura che nel racconto non compare affatto, ossia l’erede al trono di Numenor, mi è sembrato giusto dedicare un articolo alla figura di questo personaggio, la cui genesi, come leggerete nel testo che qui troverete trascritto, è volutamente oscura. L’ispirazione per la genesi di questo personaggio mi è venuta dalla lettura di un passaggio del «Ritorno del Re», nel quale Ioreth, la donna addetta alla Casa della Guarnigione, cerca di spiegare alla cugina chi siano Frodo e Sam:

«No, cugina, non sono bambini», disse Ioreth alla sua parente d’Imloth Melui che era in piedi accanto a lei. «Sono dei Periain, della lontana terra dei Mezzuomini, e dicono che siano principi di grande fama. Io so tutto, perché ne avevo uno da curare nelle Case. Sono piccoli ma valorosi. Pensa, cugina, uno di essi è andato nella Terra Nera solo con il suo scudiero, ed ha combattuto contro l’Oscuro Signore appiccando fuoco alla sua Torre. O almeno queste sono le voci che corrono in Città». Il Ritorno del Re

In questo caso, come si può notare, Ioreth non si mostra in grado di fornire le notizie corrispondenti alla verità alla sua parente: si limita, infatti, a raccogliere le voci che in quei giorni giravano a Minas Tirith peri imbastire una storia plausibile allo scopo di dimostrare a una donna ignara dell’Anello come mai gli Hobbit fossero stati resi tributari di così grandi onori da parte dei reali di Gondor. Oggi la defineremmo una «fake-news»: Ioreth non si preoccupa di verificare se le sue fonti siano o meno attendibili e si limita a fare da cassa di risonanza a una storia che altri hanno elaborato. Naturalmente, in questo caso, la menzogna non intacca il valore di Frodo e Sam, anzi, paradossalmente, ne aumenta i meriti, raffigurandoli come grandi maghi e guerrieri in grado di tenere testa a Sauron in persona, arrivando addirittura a sconfiggerlo!

Il meccanismo di costruzione della menzogna elaborato da Ioreth, dunque, mi ha portato a riflettere sulle implicazioni pericolose di questa forma mentis: mi sono chiesto: «cosa accadrebbe se la diffusione di una fake-news a Numenor portasse con sé pesanti ombre sull’identità del figlio di Miriel e Pharazon?» La risposta la troverete nel seguente brano estratto dal racconto «La Rosa e l’Arpa». Buona lettura!

«Si narra che in quel giorno almeno quindicimila Fedeli, accorsi al porto per ascoltare gli echi dell’arpa del loro principe, abbiano intonato il canto di sfida nei confronti di Ar-Pharazon e del suo mentore Sauron e che costoro abbiano avuto tema non solo di arrestarli, ma anche di uscire fuori dai postriboli lussuriosi nei quali gli unici suoni che si ascoltavano erano i gemiti delle schiave colà percosse per il loro perverso piacere: fra coloro che erano dei Numenoreani Neri, solo un uomo sorrise e, dopo aver abbandonato la sala d’armi nella quale era intento ad accrescere la propria violenza, si diresse, occultato dalle arti oscure che aveva appreso, alla spiaggia di Andunie, ove mirò l’imponente adunata dei Fedeli ivi accorsa.

Il Nero rise in silenzio, infine si allontanò con la stessa velocità con la quale era colà giunto: non vi erano motivazioni per le quali egli dovesse condividere la preoccupazione di suo padre, né egli era sensibile alle emozioni che si erano impossessate del cuore della madre; freddo era il suo spirito ed esso era lungimirante, ché sapeva essere codesto rigurgito di ribellione dei Fedeli l’ultimo cui il regno avrebbe assistito sino alla sua ascesa al trono che sperava giungesse lesta sulle ali del vento dell’est, ché egli aveva nome Vareneli, erede di Ar-Zimraphel e di Ar-Pharazon. Non vi era uomo fra quanti abitavano le contrade di Numenor il quale si fosse rivelato in grado di scorgere letizia o rabbia sul volto del principe e questo accadeva perché egli era abile nell’occultare le sue emozioni, sicché si mormorava che non scorresse solo sangue mortale nelle sue vene e che egli fosse stato concepito dall’Oscuro Signore in persona, donde proveniva il malizioso detto che i suoi seguaci menzionavano di continuo [1]: nessuno, tuttavia, seppe accertare la veridicità di una simile diceria e ciò accadeva a causa della ritrosia che la sovrana mostrava nel discorrere con i suoi ospiti del figlio.

“Si rallegri pure la gente di Amandil, ché essi provino ancora una volta la delusione che accompagna la letizia immotivata e sappiano trarre da essa il medesimo dolore che provò il Morluin allorché si avvide che Ar-Zimraphel, alla quale aveva volto inutilmente il cuore, sarebbe andata in sposa a colui che detestava sopra ogni altro uomo: nessuno di essi sfuggirà al giusto castigo che attenderà i loro animi ed essi arderanno per la gioia del mio Signore”».

[1] “L’autorità di Sauron si estende ovunque domini il sovrano, finanche nel talamo reale”. Varaneli nacque nel 3256 S. E., un anno dopo che Ar-Pharazon si fu impadronito dello scettro di Numenor e si narra che le levatrici che assistettero la regina nel parto fossero state tutte colpite da un misterioso morbo che le aveva condotte alla pazzia ed infine alla morte; sebbene Ar-Pharazon avesse sollevato l’infante dalla culla secondo l’uso e la tradizione dei suoi antenati, assegnandogli il nome, pure erano in molti a dubitare della sua reale paternità, ché il giovane principe era di gran lunga il più bello fra i Numenoreani, sembrando essere più simile ad un Vanya quale Sauron stesso si spacciava, che non ad uno della stirpe dei Secondogeniti: i suoi capelli, infatti, erano chiari come le piume dei gabbiani ed i suoi occhi, scuri come le profondità degli abissi di Ulmo, erano sì luminosi che ben pochi fra gli Uomini erano in grado di reggerne lo sguardo.

Fu dunque la sua inquietante somiglianza con Annatar ad indurre alcuni fra i Saggi di Numenor a ritenere che sotto le sue spoglie mortali si celasse un terribile segreto e che l’Oscuro Sire avesse infine ottenuto l’erede al quale affidare il comando dei suoi eserciti: quale che fosse stata la verità, Varaneli fu tosto iniziato alle Arti Oscure, nelle quali mostrò un’abilità quale neppure il Re degli Stregoni, che era nel loro dominio maestro, seppe mai possedere; non era ancora giunto alla maggiore età che era già divenuto esperto di ogni malefizio ed i Nazgul, molti dei quali si recavano periodicamente dal loro Padrone durante il suo soggiorno a Numenor, presero a chiamarlo “Signore” e a rivolgerli i medesimi tributi che erano soliti recare a Sauron. Non vi era affetto o amore nel cuore di Varaneli nei confronti di sua madre, sebbene egli fosse cauto e mascherasse il suo disprezzo sotto forma di un arido formalismo; altresì, poco o punta stima rivolgeva a colui che chiamava padre, ché ne derideva la lussuria, alla quale non fu mai dedito, considerando le donne come frivoli passatempi con i quali trastullarsi durante le fredde sere di Inverno, e la vanagloria, che stimava essere propria degli uomini deboli.

Temuto dai Neri e dai Fedeli, Varaneli trascorse gli anni della sua pur breve esistenza, se paragonata a quella dei suoi padri, avendo in animo l’intenzione di scovare e di annientare Erfëa, che egli riteneva il massimo tra i suoi avversari: il dolore che gli procurò l’irrealizzabilità di tale desiderio accorciò drasticamente i giorni della sua vita ed egli perì prima ancora della Caduta.