Continuo in questo articolo la narrazione della storia iniziata in quello intitolato «Storia di una grande amicizia». Erfea, accompagnato dai suoi nuovi amici nani, è invitato da questi a visitare l’antica città di Khazad-Dum situata all’interno delle Montagne Nebbiose. Dopo un lungo viaggio, all’interno del quale avviene un evento che stravolgerà per sempre migliaia di vita, compresa quella di Erfea, il gruppo giunge sino ai Cancelli Occidentali di Moria. Come se la caverà Erfea, alle prese con l’enigma della porta, che, molti secoli più tardi, metterà in difficoltà la Compagnia dell’Anello? Buona lettura!
«La mattina seguente, abbandonata la Locanda del Cacciatore alle prime luci dell’alba, Erfea si allontanò da Brea, seguendo la compagnia di nani, ché questi lo avevano invitato a visitare le sale dei loro padri all’interno dei Monti Nebbiosi e grande era il desiderio del Dunedan di mirare le dimore che la stirpe di Durin I, che il popolo chiamava il Senza Morte, aveva reclamato per la sua gente: le vaste aule di Khazad-Dum si estendevano da occidente a ponente, dalla sorgente del Sirannon alle cascate dei Rivi Tenebrosi.
Poche miglia avevano percorso i compagni, allorché il mondo fu mutato, ché Manwe Sulimo revocò il suo volere dal mondo e Eru Iluvatar scagliò nell’Abisso l’isola di Numenor con i suoi forzieri traboccanti di gioielli. Come è narrato altrove, nessuno, ad eccezione di coloro che veneravano gli Ainu o di coloro che erano fuggiti altrove anzitempo, fu salvato dal cataclisma e lo stesso Sauron, il cui potere vantava essere superiore a quello di Manwe, fu scagliato nel profondo dell’Oceano. Un greve silenzio cadde sui nebbiosi colli degli Emyl Gortayd [1], disturbato solo dal profondo eco di una collera impetuosa; pochi sono i racconti sopravvissuti alla caduta di Numenor, eppure nessuno scritto potrebbe rendere lo sbigottimento e l’angoscia che presero gli esseri della Terra di Mezzo: finanche le feroci belve delle remote giungle del sud si rintanarono nelle loro tane inaccessibili, desiderose di sfuggire la violenza della collera di Eru Iluvatar. È stato detto che perfino i servi di Sauron, acquietati nelle tetre fortificazioni di Mordor abbiano volto lo sguardo l’un l’altro, in preda a grande paura e sgomento; finanche i servi degli Anelli, gli Ulairi, la cui perfidia e malizia erano note presso tutte le genti della Terra di Mezzo, paventarono che fosse giunta sulle ali della tempesta la collera dei signori del Vespro, ed ebbero tema del giudizio dei Vala, fuggendo in luoghi oscuri e privi di speranza.
Una Tenebra senza nome ricoprì l’intero creato, né gli astri del cielo furono visibili, finanche agli acuti sguardi degli Eldar, finché essa non scomparve; grave divenne allora il peso del dolore sui cuori degli orgogliosi numenoreani ed essi compresero alfine quanto la follia del loro signore avesse condotto i loro destini alla follia: eppure, nessuno di loro scampò al giusto castigo, ché trovarono la morte ad attenderli in qualunque pertugio essi si rifugiassero per sfuggire l’ira di Iluvatar. Turbati in volto, i nani esitarono e più non proseguirono, osservando sgomenti quanto accadeva intorno a loro: tetre divennero allora le loro espressioni ed essi non parlavano né osavano respirare, temendo di disturbare la collera del possente Iluvatar. Presto tuttavia gli uccelli presero nuovamente a cantare nelle fronde delle selve e l’aria non fu più satura dell’ira dell’Uno; allora essi sospirarono e volsero il proprio sguardo al Dunadan: egli sedeva su una roccia che il tempo aveva reso simile ad un enorme scranno, e, silente, non pronunciava parola. Perso e vuoto era il suo sguardo, eppure lacrime amare non turbavano il suo viso, ché sebbene fosse grande il suo dolore, nel suo cuore Numenor era svanita anni prima ed essa non era più la sua terra.
Trascorsi alcuni istanti in profonda meditazione, egli si levò dallo scranno, e lasciato cadere il prezioso elmo, rivolse le labbra ad occaso, pronunciando tristi parole di commiato: “Miriel, Tye-mela[2]”; sebbene i nani avessero ascoltato ogni parola, solo Naug Thalion comprese quale doloroso significato esse esprimessero e chinò lo sguardo a terra, colmo di dolore. Lungo tempo trascorse in doloroso silenzio, infine Erfea parlò nuovamente, ché egli aveva compreso quanto era accaduto e non temeva doverlo rivelare ai suoi compagni: “Una nuova era del mondo è prossima ad iniziare, ché Endor è mutata e più sarà visibile Aman agli occhi dei mortali.” Stupefatti allora i nani gli strinsero attorno, ponendogli numerose domande, ma il Dunedan non seppe placare tutti i loro dubbi “ché – si giustificò – non è il mio animo la fonte che ispira tali parole” ed altro non volle aggiungere.
Costernati, allora i nani proseguirono lunga l’antica strada che collegava le miniere di Belegost e di Nogrod con la fortezza di Khazad-Dum. Lunghe miglia essi percorsero, con passo lento ed esitante, ché grande era nei loro cuori lo smarrimento e il dolore per quanto accaduto: sovente, durante le veglie notturne, Erfea cantava antichi poemi della sua gente o appresi dai bardi dei Noldor, ed i suoi compagni, affascinati dalla sua voce melodiosa e profonda, gli si stringevano attorno, obliando per qualche tempo le fatiche che attanagliavano i loro animi e gravavano sui loro capi.
All’imbrunire del ventesimo giorno dacché Numenor era caduta, i viaggiatori giunsero in vista dei primi contrafforti delle Montagne Nebbiose: “Ivi si ergono le mura ed i cancelli di Khazad-dum” – indicò Naug Thalion ad Erfea che, silente, osservava le pallide vette montuose, sfiorate dal riverbero dell’ultimo sole – “Nelle profondità degli anfratti rocciosi in seno ai monti che gli elfi chiamano Caradhras, Celebdil e Fainudolh, sono situate le dimore dei figli di Durin” concluse l’anziano nano.
Salirono lungo la strada che conduceva al cancello, ed Erfea notò che vi erano grandi e maestose siepi di agrifogli posti su entrambi i lati del sentiero; tuttavia, non ne fu stupito, ché fin dagli albori del regno dell’Eregion, gli elfi solevano adornare le loro terre con simili alberi. Dopo aver percorso quattro miglia, i nani si fermarono dinanzi ad una nuda parete di roccia: stupefatto, Erfea si approssimò ad un suo compagno, chiedendo il perché di tal gesto. Quello, per nulla turbato o meravigliato gli sorrise: “Dunadan, pochi elfi e ancor meno uomini sono penetrati nei nostri domini fin dall’inizio del Tempo. Non crucciarti, ché altre meraviglie ti attendono all’interno! Questo è il cancello di Khazad-Dum, che voi chiamate Nanosterro: esso non è visibile a chiunque e i suoi portali non sono edificati solo sulla nuda roccia.”
Incuriosito dal significato delle parole appena udite, Erfea scrutò la nuda roccia: non un solo ciuffo d’erba ricopriva il pendio, né l’umile lichene ne sfiorava la superficie, ché nero e lucido il granito si ergeva maestoso. Improvvisa si levò Ithil da un banco di nubi e meraviglia! La parete rocciosa fu ornata da sottili disegni e da rune incantate: grande fu lo stupore del Dunadan, ché comprese quale abilità avessero raggiunto i nani nella loro arte; ma quelli, osservando l’inchino che egli rivolgeva loro presero a ridere e a battergli pacche sulla schiena: “Grande è la cortesia dei figli degli Edain, ed ecco, essa onora i figli di Durin! Tuttavia riserva la tua ammirazione per altri manufatti forgiati dai nani, ché su queste porte sono impresse conoscenze ben più antiche della nostra arte. Un tempo i Noldor si stabilirono nell’Eregion e fondarono un reame: ivi molti del nostro popolo si recarono desiderosi di apprendere le antiche arti della parola che si diceva gli elfi avessero tramandato fin dagli albori dei giorni remoti, sconosciuti al sole e alla luna; Telchar, un rinomato artista, strinse amicizia con sire Celembrimbor, erede di Feanor ed insieme escogitarono l’artifizio che apre il cancello.” Naug Thalion rise per qualche momento, infine continuò: “Neppure Sauron in persona riuscì ad apprendere il segreto che si cela in queste rune.” Con attenzione Erfea le esaminò, infine lesse ad alta voce: “Ennyn Durin Aran Moria: pedo mellon a minno. Im Narvi hain echant: Celebrimbor o Eregion teithant i thiw hin. Le porte di durin, signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io Narvi le feci. Celembrimbor dell’Eregion tracciò questi segni.” Rifletté per alcuni istanti, infine facendo scivolare dolcemente le proprie dita sulla lucida superficie della roccia, pronunciò un’unica parola: “Mellon!” Allibiti rimasero i nani e tra essi vi fu chi balzò in piedi per lo stupore, mentre Naug Thalion, palesemente compiaciuto, si inchinò dinanzi all’uomo: “Non credere Erfea, figlio di Gilnar, di aver superato in possanza le Oscuri Arti del Nemico! Grande è stata la tua intuizione e pochi fra i mortali possono vantarsi di avere una mente sì lungimirante: tuttavia, tale iscrizione è solitamente occultata e segrete sono le parole che ne evocano i caratteri.” Lieto in volto Erfea ricambiò l’inchino, infine rise: “Non desidero emulare le azioni dell’Oscuro Signore, ché esse conducono ad un fine che rifiutai tempo fa. Tuttavia, non sono sorpreso per quanto accaduto, ché il concetto di amicizia è quanto più distante possa esservi dall’ambizione che il Nemico nutre nel suo distorto animo.” Allora i nani lo acclamarono e gli diedero il nome di Khevialath, che nella loro lingua vuol dire il lungimirante: due guardie accolsero i viaggiatori, osservando con palese stupore l’alto mortale, ché da tempo un discendente degli Edain non varcava l’ingresso di Moria. Erfea attraversò lunghi corridoi, illuminati da lampade azzurrine, la cui luce emanava da cristalli purissimi, i cui nomi oggi sono stati obliati finanche tra i discendenti dei Naugrim. Vaste sale scolpite si aprivano a volte innanzi alla compagnia ed Erfea, pur non vedendo alcuno, ebbe tuttavia la sensazione che il suo arrivo non fosse passato inosservato: infine, dopo aver percorso molte miglia, i nani si fermarono innanzi ad una porta intarsiata di mithril e acciaio. Un pallido sole si era levato ad oriente del mondo e le sue affusolate dita illuminavano archi e soffitti la cui altezza era incommensurabile; a lungo Erfea attese, infine domandò a Naug Thalion quale evento o creatura stessero attendendo dinanzi a tale portale: l’anziano nano gli sorrise: “Non temere Dunadan! Il Re è stato avvertito del tuo arrivo e presto sarai ricevuto innanzi a lui. Vi è un motivo valido per cui ti chiedo di essere paziente. Sii fiducioso del mio giudizio, e più non domandare.” Ancora non si erano spenti gli ultimi echi di tali parole, che il sole si levò in tutta la sua possanza. Allora Erfea tacque e sul suo viso si dipinsero meraviglia e stupore, ché non vi erano parole nella sua lingua o in quella di qualunque altra creatura per descrivere la magnificenza della visione che gli si offriva: grandi specchi convessi, della cui esistenza non avrebbe mai sospettato, gli apparvero in tutta la loro eleganza e grazia, rimandando i raggi di sole che entravano da un pozzo di luce che si apriva nella volta della sala. Abbagliato da tanta luminosità, per un istante Erfea dovette distogliere lo sguardo, soffermandosi sulle alte colonne, il cui motivo a guisa d’ascia si ripeteva su qualunque superficie della sala; presto, tuttavia, egli fu distratto dalle sue meditazioni, perché una grande folla di nani gli si fece incontro: il Dunadan osservò che fra essi vi erano molti bambini e ne fu invero sorpreso, ché ben pochi sono quelli tra i nani che prendono moglie, dal momento che essi dedicano gran parte della loro lunghe vite al lavoro nelle forge e nelle miniere, trovando in essi diletto e godimento. Scorgendolo sì stupito, Borin, un nano della casa di Naug Thalion, così gli si rivolse: “Ahimè Dunadan, ben m’avvedo quanto il tuo stupore sia grande! Non ti nascondo che simili ai tuoi sarebbero i sentimenti di ciascuno di noi, ché altrove i nani languiscono o si riducono di numero, eppure forte sono le aule di Khazad-Dum e l’ingordigia non ha ancora rovinato i nostri cuori. Forse avrai udito più di un mio compagno vantare una forza superiore a quella di qualunque creatura, eppure sappi che essa non è sufficiente a placare il desiderio di oro e di altri nobili metalli, quando esso si risveglia nel nostro cuore! Le genti di Nogrod e Belegost abbandonarono le loro fortezze secoli fa e da molte vita di uomini dimorano nelle nostre magioni, tuttavia il loro numero decresce ancora oggi e non sappiamo il perché. Fortunati gli uomini – concluse il nano sospirando – ché altrove ricercano i loro tesori e non permettono che le loro esistenze si smarriscano nella cerca di informi metalli e pallide gemme”. Tristemente Erfea gli rispose: “Eppure così non è: infatti finanche i possenti uomini di Numenor sono diventati schiavi delle proprie ambizioni, inseguendo oltre ogni limite la fiamma delle Terre Imperiture, concludendo miseramente le proprie esistenze. Un’ambizione distorta è simile ad una gemma poliedrica, la quale disorienti l’artista che la possegga: in essa infatti sono visibili tutti i colori del creato e non è degno di nessuna delle creature mortali ambire i segreti dei Vala. Neppure gli antichi Eldar, sebbene possano ancora percorrere l’antica strada per far ritorno alle proprie dimore natie, sono immuni al dolce veleno dell’ambizione, ed essi giungeranno ad Aman per fuggire il turbamento dei sensi. Tempo fa conobbi un’elfa il cui amore per il mare era sì forte nel suo cuore da obliare ogni altro sentimento esso nutrisse; ora ella più non dimora fra noi, ma percorre sentieri ignoti agli altri esseri.” Profondamente colpito dalla saggezza di tale pensiero, il nano si inchinò, accompagnando il tale gesto con siffatte parole: “Invero Erfea, figlio di Gilnar, possiedi uno spirito degno della tua stirpe, ché da molti anni non udivo un discorso sì nobile e consolatorio dalle labbra di un mortale. Molte credenze sono diffuse presso il mio popolo sul destino delle nostre anime, allorché esse si dipartono dal nostro corpo; tuttavia è forse possibile che al termine del nostro percorso mortale, i sentieri che siano stati tracciati in vita si incontrino nuovamente? I nani non posseggono tali risposte.” Erfea gli sorrise: “I fini dei Valar e di Eru non sono stati rivelati ai loro figli, fossero elfi uomini o nani: rimembro che ai nostri padri fu detto di operare nella nostra esistenza terrena e di non stancare le nostre fragili membra alla ricerca affannosa di risposte a tali quesiti, né, tuttavia, di ignorare tali dubbi, ché essi sono alla base del nostro agire; solo in esso troveremo sollievo alle nostre peregrinazioni sui sentieri che la mente e il corpo percorrono.”
“Parole sagge, mortale! Eppure quale senso avrebbe la nostra esistenza, se essa non si aggrappasse con forza alle proprie ambizioni?”
Silenzio si fece in tutta la sala ed Erfea diresse il proprio sguardo a colui che aveva parlato: egli sedeva su un grande trono di porfido rosso, intarsiato da rune di quarzo, il cui potere era invero grande. Anziano era il nano che ora mirava il viso del dunadan, ed imperscrutabili i suoi occhi, ricolmi di infinita tristezza: “In quale altro modo si potrebbe misurare il valore dei mortali se non in base a quanto essi ambiscono? Un desiderio è un tramite per l’immortalità, ché esso perdura oltre la morte e diviene follia o gloria per coloro che ci sopravvivono.”
A lungo lo fissò Erfea e nulla era visibile sul suo viso; infine così parlò: “Mio signore, non è sulle ambizioni che si misurano le qualità dell’uomo, dell’elfo o del nano. Mente stolta e animo crudele possono nutrire infinite aspirazioni, eppure nulla garantisce che esse trovino soddisfazioni. La realtà è la misura di ogni nostra ambizione.”
“La tua, figlia di Numenor, è una risposta astuta e cauta allo stesso tempo”; mentre così discorreva, Erfea notò con quanta delicatezza egli sfiorasse con la mano destra le dita della sinistra, seppure senza comprenderne il motivo[3].
“Suvvia Erfea, figlio di Gilnar! Le tue vicende mi sono note e ti sono grato per aver difeso l’onore e la vita di coloro che appartengono al mio popolo in innumerevoli occasioni. Nulla obliamo, ché non vi è futuro senza passato e il valore di un principe o di un minatore si misura sugli anni che costui ha trascorso in tali lande. Felice e fortunato quel popolo il cui valore affiora fin dalla notte dei tempi, ché quello non bisognerà di altre garanzie per poter prosperare nei giorni futuri.”
“Mendace è tale affermazione, signore di Khazad-Dum, ché ancora una volta hai obliato il tempo presente: ben poco conta il valore degli atti ormai trascorsi o le buone intenzioni che ciascuno dei presenti nutre per il futuro, se ad essi non si accompagna la volontà di incidere nel tempo in cui viviamo. Numenor fu creata dagli Ainu e data in dono alla mia gente, ché essa onorasse l’impegno preso con le genti libere di Endor, eppure molti secoli sono trascorsi da quando i marinai di Elenna giungevano a queste coste in veste di amici e maestri, essendo ora divenuti padroni arroganti e infidi: tuttavia non più tardi di venti giorni, Numenor è sprofondata e l’ambizione di Ar-Pharazon ha ricevuto un premio degno della sua follia. Possente è stata l’ira dei Valar, eppure essi hanno agito con giustizia, ché hanno giudicato gli uomini in base a quanto hanno compiuto in questo tempo. Non ritieni che imprudente e avventata sarebbe stata l’azione di Eru se fossero stati scagliati nell’Abisso anche coloro che si opposero alla turpe azione di Sauron e del re? Eppure essi condividono con i Fedeli il medesimo sangue e lignaggio: non è questo dunque un criterio insufficiente per giudicare i figli di Eru? La fama e la saggezza si acquisiscono negli atti presenti, non sono eredità dei tempi trascorsi.”
Molti mormorii si levarono in tutta la sala, provocati non solo dalla triste notizia che il Dunadan aveva loro annunziato, ma, soprattutto, dalla saggezza delle parole pronunciate da costui.
A lungo Durin IV si accarezzò la folta barba bianca, intrecciata in sette trecce, meditando su quanto aveva appreso; infine parlò nuovamente: “Mai avevo appreso in passato il sapere degli Uomini di questa era. Consideravo le loro stirpi deboli, instabili e arroganti oltre ogni misura, tuttavia lungimiranti sono state le tue parole, sebbene io non abbia compreso tutti gli ignoti sentieri che esse hanno tracciato nel mio animo.” Batté sette volte le mani rapidamente e sette servitori gli si presentarono innanzi: “Desidero che il Dunadan sia ospitato con tutti gli onori – ordinò loro – che gli sia concesso il libero accesso alle meraviglie di Khazad-Dum.” Grida e non già mormorii di stupore si levarono dinanzi a tale richiesta e alcuni tra i più lungimiranti si domandarono nel profondo dei propri animi quale ascendente avrebbe esercitato il Dunadan sulla ferrea volontà del sovrano, in giorni che si prospettavano oscuri e senza speranza. Immaturi erano tuttavia i tempi ed ogni speranza o dubbio fu tosto accantonato; Erfea fu condotto nella propria dimora, ove trascorse il resto della mattinata in preda ad un sonno ristoratore e benefico. Quando si levò dal proprio giaciglio, trovò che tutte le armi e i suoi vestiti erano stati ripuliti dal fango e dall’usura di quei lunghi mesi trascorsi all’addiaccio nelle Terre Selvagge, ove pochi uomini si recano; grato per la gentilezza, tuttavia il suo pensiero più intenso nutrì nel suo cuore verso colei che gli aveva donato un lungo manto finemente intrecciato[4]. Occhi inesperti, forse, si sarebbero soffermati unicamente sulla delicata tessitura e avrebbero ammirato l’effigia dello stemma della casata degli Hyarrostar, un dragone azzurro e nero avvolto da una rosa bianca, apprezzando l’intensità dei colori che ne ricoprivano la superficie; eppure, coloro che avessero avuto sufficiente volontà nell’indagare la sottile trama che ne intrecciava i fili, non avrebbero potuto fare a meno di notare, nel lembo superiore del manto, una piccola e graziosa runa duplice[5], senza tuttavia comprendere il suo significato, noto e caro al cuore di Erfea. A lungo il paladino tenne il manto nel suo poderoso pugno, quasi che il rimpianto e il desiderio potessero essere leniti da quel tocco.
Infine si vestì e uscì dalla propria camera e un’espressione di meraviglia si dipingeva sul suo viso, allorché egli posava il suo sguardo su ogni anfratto, sala o piazza i nani avessero edificato nel corso dei millenni, né essa scemava, ché finanche a Numenor aveva scorto meravigli simili.
Copiose fontanelle, la cui acqua scintillava pura alla luce delle antiche lampade, rallegrarono l’animo del ramingo oppresso dal dolore della perdita, che lieve al principio si era ora accresciuta: ivi il fabbro martellava l’incudine, ivi l’incisore con abili mani decorava un’armatura con rune d’ithildin[6], ivi il cantore accordava l’arpa e il liuto. Le prodigiose forge, la cui fama era nota presso ogni reame di Endor, le formidabili armerie, paragonabili solo a quelle anticamente possedute dagli elfi di Gondolin e i maestosi anfiteatri, immersi nel silenzioso riposo dei monti: tutto questo Erfea vide e il suo cuore fu colmo di letizia; molto egli apprese dai Nani, ed essi non si stancarono di mostrargli le immensurabili opere che il lavoro dei loro padri aveva prodotto, lieti che il loro ospite si mostrasse invero attento e mai scortese. Lieti furono i giorni trascorsi da Erfea nella magione dei Naugrim: numerosi banchetti lo videro gradito ospite, ed i suoi commensali applaudirono ogni qual volta egli levava in alto il calice tempestato di gemme luminose, apprezzandone la saggezza e la lungimiranza; non trascorse molto tempo che il principe degli Hyarrostar iniziò ad assistere ai concili del regno dei nani, fornendo ovunque fosse richiesto il proprio ausilio e sostegno, ché era un uomo dotato di favella accorta e nobile».
Il Ciclo del Marinaio, pp. 197-206
Note
[1] Tale regione collinare, nota anche come la Terra dei Tumuli, si estendeva ad ovest della città di Brea: durante la Prima Era del mondo, numerosi Edain provenienti dall’estremo oriente, avevano eretto numerose costruzioni e fortificazioni sui suoi colli ed ivi avevano riposo i gloriosi corpi dei guerrieri periti durante la Battaglia dell’Ira.
[2] “Miriel, ti amo” nella favella degli Eldar.
[3] Durin III, secondo quanto hanno tramandato i nani, ricevette il primo degli anelli forgiati per il suo popolo direttamente dalle mani dei fabbri di Ost-In-Edhil e non già da Sauron; tuttavia, sebbene è plausibile che tale storia sia vera, finanche tale anello risentiva dalla malvagia influenza dell’Oscuro Signore, ché era stato forgiato per mezzo della sua malefica arte ed obbediva al volere del Maia Caduto. Punto o poco si conosce del destino dei rimanenti sei anelli, anche se vi è stato chi ha detto che essi furono assegnati da agenti di Sauron ai signori del popolo di Durin e non ad altre stirpi, essendo costoro già sotto il dominio di Sauron o troppo distanti dalla sua sfera d’influenza.
[4] Elwen la Mezzelfa
[5] La duplice runa anghertas “E” indica le iniziali di Erfea ed Elwen.
[6] Lega metallica costituita da mithril e alluminio: sovente adoperata per le incisioni su superfici lucide, si otteneva tramite un processo noto solo presso i Fabbri dell’Eregion e di Khazad-Dum.