In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio

Leggendo i vari estratti dei racconti che ho finora pubblicato, sarebbe naturale, credo, indicare in Erfea e Miriel i personaggi principali, con i Nazgul intenti a svolgere il loro naturale ruolo di antagonisti del principe numenoreano. Una riflessione che, tuttavia, solo apparentemente trova una sua giustificazione interna alla genesi del Ciclo del Marinaio. Lo stesso titolo «Ciclo del Marinaio» potrebbe ingenerare, in verità, qualche equivoco: i miei lettori, infatti, avranno notato come Erfea appaia fondamentalmente come un paladino, addestrato a cavalcare con maestria (come emerge dalla lettura di Osgiliath cadrà? Scontro finale), piuttosto che come navigatore. Una giusta osservazione, sulla quale tornerò nel seguito di questo articolo: in questa sede, invece, voglio soffermarmi su quella che potrebbe considerarsi una versione «alfa» del mio ciclo dei racconti, maturata in un contesto che poco o punto ha in comune con la loro elaborazione finale.

La genesi dei miei racconti, che ormai risale a tanti anni fa, ebbe inizio durante un’ora di lezione di inglese: la docente aveva deciso di farci assistere alla visione di un film in VHS, e più precisamente di Othello, nella versione prodotta nel 1965, nella quale il ruolo del protagonista omonimo era svolto da Laurence Olivier, quello di Jago da Frank Finlay e quello di Desdemona da Maggie Smith. Conoscevo già la trama di questa tragedia shaksperiana, almeno a grandi linee, ma ricordo di non esserne stato colpito in modo particolare prima di quel momento; durante la visione della pellicola cinematografica, tuttavia, la mia attenzione fu attirata dal personaggio di Jago. Mi attraeva, infatti, la sua capacità di mostrarsi al tempo stesso amico di Othello e di istigare in lui i sospetti sulla fedeltà di Desdemona, nonostante fosse stato lui ad ordire tutto l’inganno. Al termine della visione della VHS, nella mia mente erano nati tre personaggi: un Dunadan (non necessariamente un Numenoreano, dettaglio da non trascurare, come spiegherò in seguito); una mezzelfa, del quale il Dunadan doveva essere innamorato e ricambiato nel suo sentimento; e, infine, un elfo (Noldo) amico di entrambi i protagonisti, che, in realtà, tuttavia, mirava a sconfessare il Dunadan agli occhi della mezzelfa per poi conquistarla. La scelta di questi tre personaggi era legata, naturalmente, anche ad altre valutazioni, lo confesso, non particolarmente originali: come tanti lettori del «Signore degli Anelli», infatti, ero stato attratto da Aragorn e da Arwen e dalla loro storia d’amore; per quanto riguarda, invece, la scelta di un Noldo come antagonista del personaggio principale, credo di essere stato influenzato in questo processo dalla mia valutazione – non pienamente positiva, come potete immaginare – della figura di Feanor e dei suoi figli Curufin e Celegorm, che si erano resi complici o autori di innumerevoli nefandezze nei confronti degli altri elfi, pur conservando, se così si può dire, un certo «fascino maledetto».

Nella versione appena abbozzata di questa trama, il protagonista avrebbe dovuto chiamarsi Gilnar, la mezzelfa Elwen e il Noldo Morwin. Mentre i primi due nomi avevano una corrispondenza con le lingue elfiche tolkieniane (Gilnar significa «Stella di Fuoco» ed Elwen può essere tradotto come «fanciulla splendente»), Morwin è un nome solo parzialmente elfico, il cui significato avrebbe dovuto essere «dai capelli bruni/scuri». Il prefisso Mor, in effetti, indica il nero o comunque un colore scuro (basti pensare a Mordor, la Terra Oscura di Sauron), mentre non sono riuscito a trovare nessuno significato per «win» che avrebbe dovuto essere l’equivalente elfico per il sostantivo italiano «capelli» (che in Quenya si può tradurre in «locse» oppure con «fine»). Mi resi conto più tardi di questa mancata corrispondenza, tuttavia decisi di lasciare il nome Morwin perché, come si suol dire, «suonava bene». Sempre in questa prima versione, Erfea ed Elwen vivevano insieme da qualche parte nella Terra di Mezzo (non mi ero ancora posto il problema della loro localizzazione geografica) insieme a Morwin, il quale, tuttavia, alla fine riusciva a porre l’uno contro l’altro i due “sposi” (non avevo chiara neppure la natura della loro relazione).

Non ricordo di aver pensato ad un finale: sono certo di aver escluso il destino di morte che caratterizza l’epilogo della tragedia di Shakespeare, ma non mi sembra di aver dato, all’epoca, particolare importanza a ciò che sarebbe accaduto ai tre protagonisti una volta scoperti gli inganni dell’elfo: il mio interesse, all’epoca, era rivolto principalmente alla descrizione delle macchinazioni psicologiche di Jago/Morwin, più che alla formulazione di una storia precisa. Il mio intento, perciò, era quello di scrivere una sorta di dramma psicologico, più che storico, ambientato nella Terra di Mezzo nella Terza Era. Alle vicende di Numenor, invece, non avevo fatto (ancora) alcun riferimento: la scelta dell’etnia dunadan per Gilnar, infatti, nasceva solo dalla comparazione fra il mio personaggio e quello di Aragorn, al quale desideravo che assomigliasse il più possibile, almeno esteriormente. Inutile dire, infine, che non erano previsti Sauron, i Nazgul, o altri servitori dell’Oscuro Signore: si trattava, lo ribadisco, di una scrittura intimistica che doveva avere come oggetto i meccanismi alla base della gelosia e la distruzione reciproca dei legami di amore e amicizia prima esistenti.

Questo primo abbozzo, in realtà, non lasciò alcuna traccia scritta, per varie ragioni: ritengo che la più importante fosse una severa autocritica che mi impediva, soprattutto allora, di cogliere la profondità dei meccanismi connessi alla gelosia, al rancore e all’amore. Si trattava, in sostanza, di un progetto troppo ambizioso per la mia maturità di quegli anni, che rischiava di rasentare la banalità e l’ovvietà. Per questa e per altre ragioni abbandonai, almeno temporaneamente, questo progetto, per dedicarmi soprattutto alla poesia.

(Continua)

Uccidete Miriel! Complotto a Numenor

Prosegue in questo articolo la narrazione, iniziata nell’articolo Ombre sinistre su Numenor…, del complotto che mira ad eliminare Miriel, figlia di Tar-Palantir, erede al trono di Numenor. L’unico che potrebbe salvarla, tuttavia, è anche lo stesso uomo che nutre per lei sentimenti contrastanti e che è stato avvinto, a causa della suo rancore e della sua ingenuità, all’interno di una rete dalla quale potrà districarsi solo a costo di grandi sacrifici. Vi presento così la conclusione di un racconto che vede svilupparsi un rito di passaggio traumatico, dall’adolescenza alla maturità, di un giovane Erfea, per il quale la vita non sarà mai più la stessa…e un sentimento che avrebbe potuto crescere e rafforzarsi cessa bruscamente di vivere. Per la scrittura di questo racconto mi sono ispirato alle opere storiche classiche romane, soprattutto a quella scritta da Tito Livio, dal titolo «Ab Urbe Condita libri», ossia «Storia di Roma dalla sua Fondazione».

Colgo qui l’occasione per ringraziare tutti coloro che dedicano qualche minuto della loro giornata a leggere e commentare le storie del «Ciclo del Marinaio»…grazie di cuore, i vostri apprezzamenti e le vostre osservazioni sono indispensabili nel mio percorso di crescita umana e professionale!

Buona lettura!

«Giunse infine il giorno del suo compleanno; egli era inquieto, e sovente teneva il capo basso perché, sebbene le pietanze fossero gustose ed il vino odoroso di resina e di fiori dell’estate, pure non scorgeva Miriel. Solo quando l’araldo pronunciò il nome della sua amica egli, senza badare altri ospiti, balzò in piedi e porse un calice d’argento alla principessa. Rapide, le loro dita si incrociarono ed Erfëa le avvertì al tatto calde ed umide, come se Miriel fosse in preda a grande sgomento e paura; pure, luminosi erano i suoi occhi e la sua voce riecheggiava cristallina fra le volte di pietra che si ergevano sopra i loro capi. Miriel portava ancora la maschera che aveva indossato allorché l’aveva mirata la prima volta, tuttavia il suo sembiante era splendido, ché era esile come un giunco e alta come le fanciulle elfiche che Erfëa aveva incontrato nei suoi viaggi ad oriente. Lesta, la mano del giovane intrecciò quella di lei allorché i menestrelli presero a suonare ed essi ballarono per molte ore, appagati l’uno della compagnia dell’altro. Gli altri ospiti si rallegrarono dell’affettuoso legame che era sorto tra il figlio di Gilnar e la figlia di Palantir, ché erano degni l’uno del sentimento dell’altra. Infine, allorché furono troppo esausti per danzare ancora, Miriel condusse Erfëa dinanzi alla tavola imbandita di doni e lo pregò di scegliere quello che il suo cuore avesse gradito maggiormente: incuriosito e divertito da tale proposta, il principe di Númenor scosse il capo e negò che vi fosse un dono che il suo animo desiderasse sopra ogni altra cosa. Per tre volte Miriel domandò ad Erfëa cosa volesse e per tre volte il capitano di Númenor scosse il capo. La giovane allora sorrise compiaciuta ed estratto un lungo fodero da una preziosa custodia in pelle, lo porse ad Erfëa, mentre con l’altra mano afferrò un calice e lo levò in alto: “Possa essere il fato benigno con te – gli augurò – permettendoti di ottenere ogni cosa il tuo cuore desideri. Infatti – concluse ridendo – dev’essere qualcosa di veramente prezioso, dal momento che hai rifiutato ogni dono volessi offrirti questa sera”. “Amica mia – rispose divertito Erfëa – nessuna lama potrebbe sperare di essere riposta in un fodero migliore di quello che tu mi offri; eppure, questo sarebbe un dono per Sulring, non per me”.

“E cosa desidererebbe il capitano di Númenor che io possa offrirgli? – replicò Miriel sorridendo – Egli è un uomo ormai e non dovrebbe temere alcuna paura: mostri a Miriel quanto desidera, ché ella possa scusarsi con lui per non avergli donato alcunché”.

1Lesto, prima che la principessa di Númenor potesse fuggire, Erfëa la cinse nelle sue braccia: ella restò lì, come un usignolo che l’abile laccio del cacciatore abbia stretto nella sua morsa. Rapide le labbra del principe si posarono su quelle di Miriel ed ella infine cedette; lenta, cadde la sua maschera e rivolse il suo volto ad Erfëa, il quale l’osservò stupito. Il figlio di Gilnar non riuscì a distogliere il suo sguardo dal volto che aveva innanzi e che aveva disperato di ritrovare. Miriel era in verità Eärien, la fanciulla che un tempo aveva scorto nei giardini di Armenelos: rabbia e desiderio lo presero ed Erfëa la scorse, ormai donna, ergersi dinanzi a lui. Sconvolto, il principe arretrò di un passo e tenne il suo sguardo su di lei, finché ella non chinò il capo e mormorò amare parole:

“Temevo che sarebbe giunto questo giorno, nel quale avrei assaporato il dolce e l’amaro allo stesso tempo; colmi di vergogna sono questi miei occhi, ché essi, a lungo occultati dall’inganno e dalla paura, tennero nascosta la mia identità”. Sospirò un attimo, indi mormorò: “Sei irato, Erfëa, figlio di Gilnar, questo lo vedo bene. Se ti ho nascosto la mia identità, però, l’ho fatto per tema che il tuo sentimento nei miei confronti fosse viziato dalla notorietà del mio lignaggio. Avviene sovente che molti dolori debba conoscere il nostro animo, affinché essi possano scongiurare sventure ben più grandi e terribili”.

Livido era il volto di Erfëa e freddo il suo tono allorché egli trovò la forza per risponderle: “Sia egli un umile pescatore, un facoltoso mercante o un signore dal glorioso lignaggio, chiunque manifesti tanta viltà da temere di rivelare la propria identità agli altri, dimostra ancor più infamia nei propri riguardi e in quelli della propria stirpe. Non ti domando alcun pentimento ché esso sarebbe falso, se a pronunciarlo fosse la tua lingua maliziosa, né pronunzierò alcuna parola contro il tuo lignaggio, verso il quale nutro maggior amore rispetto a quanto nutre l’erede. Grave atto è, infatti, dire il falso, anche quando i nostri cuori sono incapaci di distinguerlo dal vero”. Ciò detto, Miriel abbandonò la dimora di Erfëa, né ella sembrava pentita per il suo gesto, ché il suo sguardo era limpido e a lungo sostenne il suo prima di allontanarsi.

Colmo d’ira e di rancore, Erfëa non si mostrò più sorridente ai suoi ospiti quella sera e nei giorni successivi evitò i contatti con la sua gente. Poche erano le parole che egli pronunciò in quei giorni ed esse erano dettate dall’ira e dal dolore, sicché gli altri presero ad evitarlo, timorosi di incorrere nella sua ira. Le voci del dissidio avvenuto fra i due giovani giunsero ad Akhôrahil, ché egli aveva spie ovunque ed erano poche le notizie che sfuggivano al suo udito. Allorché, dunque, il Nazgûl si avvide del rancore che il figlio di Gilnar provava nei confronti della figlia di Palantir, ne gioì, ché gli parve essere alla sua mercè; si rivolse dunque a Gilmor, dei cui favori aveva goduto, affinché seducesse Erfëa ed alimentasse l’odio che nutriva per colei che un giorno sarebbe divenuta regina.

Erfëa, provato dal dolore e dal desiderio per la donna a lungo amata, cedette alle lusinghe della principessa del Mittalmar: Gilmor, infatti, era graziosa ed abile nell’occultare i suoi inganni. Arthol, tuttavia, era riluttante a concedere la mano della sorella all’amico di un tempo: egli, infatti, diffidava di Gilmor, perché temeva che avrebbe rivelato ogni cosa al suo amante. Fu proprio questa esitazione, tuttavia, a provocare la sua rovina: Erfëa, infatti, non comprendeva per quale motivo Arthol fosse contrario all’unione con la sorella. Il timore nacque allora nel suo cuore, sebbene indugiasse e non osasse confessare ad alcuno le sue inquietudini.

Allorché erano trascorsi alcuni mesi da che giacque con Gilmor, Erfëa la scorse, non veduto, dialogare con Akhôrahil e con un’altra donna che si ergeva accanto a lui; bella era, eppure il suo sembiante e quello del suo compagno sembravano nascosti da un velo di oscurità. Una pesante cappa pendeva sulle sue spalle e sul suo capo era posto un rosso diadema, che rifulgeva di un sinistro bagliore. Erfëa provò una grande paura nel guardarla ed il suo cuore tremò. Attese alcuni istanti, indeciso sul da farsi: infine, un quarto individuo, anch’egli sconosciuto al figlio di Gilnar si aggregò al terzetto. Erfëa vide con orrore Gilmor accasciarsi, come se un grande male fosse piombato su di lei: il suo cuore fu allora raggelato dalla paura, sicché non poté che accostare le sue mani alle tempie, mentre il suo respiro diveniva affannoso. Nelle atroci convulsioni che seguirono a tale visione, le sue tremanti mani sfiorarono l’elsa di Sulring e nuova forza fluì nelle sue vene, sicché riaprì gli occhi e gli parve che una grande ombra si fosse allontanata dal suo sembiante. Erfëa non poteva saperlo, eppure l’uomo che aveva colmato di paura il suo cuore, altri non era che Er-Mûrazôr, il Signore dei Nazgûl, il più potente fra quanti servirono Sauron. Molti secoli erano trascorsi dacché aveva calcato con i suoi neri stivali le strade lastricate di Armenelos ed egli giungeva in quella che un tempo era stata la sua terra natia perché inviato colà dal suo oscuro padrone.

A lungo si intrattennero le tre figure con Gilmor ed essi appresero molto dalla sventurata fanciulla; questa non osò mai mirarne i volti, ché altrimenti la follia si sarebbe impadronita della sua mente e avrebbe perso il senno. Infine, rapidi com’erano giunti, essi si allontanarono svanendo nell’ombra. Erfëa allora la raggiunse e le domandò chi fossero; Gilmor, tuttavia, non rispose ad alcuna delle sue domande e gli antichi timori che erano sorti nel cuore del figlio di Gilnar, presero a destarsi nuovamente. Nei giorni successivi egli prese a sorvegliare la donna, sebbene osasse ancora sperare che non vi fosse alcun inganno: grande dolore l’avrebbe tuttavia colto, se egli fosse venuto a conoscenza della congiura che Arthol era intento a organizzare. L’atteggiamento di Gilmor nei confronti di Erfëa mutò: le macchinazioni del fratello erano ormai giunte a maturazione, sicché freddo divenne il suo letto e di rado il suo sguardo incrociò quello di Erfëa. Nei rari momenti in cui accettava di vederlo, la donna dissimulava ogni cosa: dopo qualche tempo, convinta che il figlio di Gilnar avesse abbandonato ogni sorta di sospetto su di lei, iniziò a mostrarsi meno cauta.

Una notte di Narquelië[1], dunque, Gilmor dimenticò di inviare messaggi ad Erfëa affinché non la raggiungesse: era, infatti, giunta l’ora in cui i congiuranti avrebbero dovuto prendere accordi per compiere l’efferato delitto. Ignaro di ciò, il principe dello Hyarrostar giunse alla sua dimora e trovatala vuota e silenziosa, si insospettì. Gli abitanti della casa, interrogati sull’assenza della padrona, non seppero rispondere, perché erano tenuti all’oscuro di tutta la vicenda. Stanco, Erfëa prese la decisione di abbandonare la dimora della sua amante: fu solo allora, mentre sostava dinanzi all’uscio perso nei suoi pensieri, che lo sguardo cadde su un piccolo astuccio appoggiato su un’alcova nei pressi dell’ingresso. Incuriosito, lo aprì, trovandovi all’interno un anello e una pergamena, sulla quale erano iscritte le seguenti parole:

“Colui che affiderà tale missiva ti rivelerà il mio nome; attendimi alla terza ora della notte.”

L’animo di Erfëa, divenne allora inquieto, ché ignota gli era quella grafia e non conosceva il mittente di tale messaggio. Messa da parte per un attimo la missiva, esaminò l’anello, sperando di ottenere da questo altre informazioni. La superficie dell’anello era liscia, interrotta solo da un rubino, incastonato sul lato esterno; era freddo al tatto, come se fosse stato forgiato nel ghiaccio. Il corridoio era avvolto nella penombra, sicché il giovane avvicinò l’anello alla tremula luce di una lampada. L’anello non rifulse di alcuna luce, ma parve assorbire al suo interno quella emanata dalla torcia. Era l’anello di un uomo, a giudicare dalla sua grandezza: rischiarato dalla torcia sembrò perdere parte del suo fascino misterioso mostrato poco prima. Erfëa lo esaminò a lungo senza trovarvi segno o incisione: nella sua mano l’anello aveva preso a riscaldarsi, perdendo la freddezza iniziale. Monili simili giacevano nei forzieri di molti nobili numenoreani; Erfëa l’avrebbe sicuramente abbandonato, se non fosse stato attratto dal singolare taglio che l’incisore aveva attribuito alla pietra che lo ornava. La sua sagoma romboidale, infatti, riportava alla memoria del principe ricordi confusi ai quali, tuttavia, non sapeva attribuire alcun nome. Indeciso se appropriarsi o meno di un oggetto che non gli apparteneva, fu spinto al furto a causa del sentore di passi lungo il corridoio. Impaurito, il giovane si rifugiò all’interno di una sala il cui ingresso era situato a pochi passi dall’ingresso. La curiosità, tuttavia, fu più forte di qualsiasi paura e, lasciato l’uscio un poco aperto, Erfëa osservò quanto accadde nel corridoio. Due figure, avvolte strettamente nei loro scuri manti, avevano sollevato un pesante arazzo che copriva tutta la parete opposta alla stanza nella quale aveva trovato rifugio. Una di esse alzò una leva, prima nascosta, e svelò l’ingresso di un uscio segreto. Le figure scomparvero all’interno dell’oscuro antro: la seconda sostò sulla soglia, reggendo con entrambe le mani l’arazzo, mentre l’altra, armata di una torcia, la precedeva nell’oscurità. Quando fu certa che il suo compagno si era profondamente inoltrato nei segreti meandri della casa, la figura restata sulla soglia lasciò cadere l’arazzo e rinchiuse il pannello dall’interno, scomparendo alla vista di Erfëa. Il figlio di Gilnar attese alcuni istanti, infine si avvicinò alla parete, avendo cura di ripetere gli stessi gesti compiuti da quanti l’avevano preceduto: aperto cautamente l’uscio, egli discese umidi scalini, immerso nella tenebra e nel silenzio; infine, giunse in un profondo cunicolo ed ivi ascoltò l’eco di voci irate levarsi nell’aria. Proseguì, sebbene il suo cuore fosse riluttante ad addentrarsi in un simile luogo, ché non vi era luce che potesse rischiararne gli oscuri anfratti, né i suoi occhi riuscivano a scorgere quanto accadeva.

Dopo aver percorso il cunicolo, egli giunse dinanzi ad una massiccia porta a due battenti, oltre la quale gli parve di ascoltare numerose voci, molte delle quali in preda a furente collera; infine, fra quelle si levò una che Erfëa riconobbe con chiarezza:

“Principi e dame di Númenor, prossima è l’ora in cui le sale della reggia saranno colme del fetore della morte! Pianti e urla saranno versati sui corpi di quanti calpestarono la nostra dignità, ignorando quanti, pur essendo del loro stesso lignaggio, non ritennero degni di considerazione.

Se vi è alcuno fra voi il cui nerbo sia troppo fragile o la cui mano sia priva di forza, sappia che maggiori saranno i premi per coloro che, ribellatasi alla stirpe di Elros, sapranno colpire ove altri si dimostrarono codardi.

Un giuramento di sangue stringeremo questa notte e, affinché esso possa restare impresso nella mente di ciascuno e tenere vincolati i cuori di coloro che ancora esitano, fluisca nelle vene di voi tutti!”

L’oratore altri non era che Arthol; pure, se Erfëa avesse potuto scorgere con i suoi occhi quanto accadeva nella sala, avrebbe mostrato grande incredulità mista ad orrore, ché vennero coppieri ed essi versarono nei calici dei presenti un liquido scuro e viscido, che molti, in seguito, non esitarono a definire sangue. Nessuna voce si levò per contrastare la follia del principe del Mittalmar, né alcuno rifiutò di stringere quel folle giuramento; rapidi, i cospiratori sguainarono i pugnali, la cui lama era intinta di letale veleno ed abbandonarono la sala, uscendo da un segreto pertugio occultato dagli arazzi che ivi si trovavano.

Sgomento, Erfëa risalì il pertugio segreto e attese che la casa fosse nuovamente silenziosa; non appena gli fu chiaro che i cospiratori si erano allontanati, afferrò le briglie del suo destriero e, con il cuore colmo di paura, lo condusse alla dimora di Palantir.

I servi del principe reale, meravigliati da quella visita notturna, esitarono dinanzi alla richiesta di Erfëa di aprirgli le porte e condurlo dal suo signore. Infine, mossi dalle sue accorate parole, gli fecero strada attraverso l’ampia dimora, sino alla camera di Palantir. Non appena fu introdotto al suo interno, il figlio di Gilnar lo trovò intento a decifrare antiche scritture delle quali punto o poco si curavano gli alti dignitari di Ar-Gimilzôr. Erfëa non pronunciò parole; il suo volto, tuttavia, era turbato e Palantir, sollevato lo sguardo dalle sue carte, credette di comprenderne il motivo. Non lo salutò, né lo invitò a prendere posto accanto a sé; con un greve cenno del capo, lo invitò a seguirlo in una piccola stanza attigua, ove nessuno li avrebbe disturbati. Il principe dello Hyarrostar lo seguì, e il suo sguardo non osò incrociare quello di Palantir. I servi erano andati via sin da quando Erfëa aveva fatto il suo ingresso nello studio del figlio di Ar-Gimilzôr; eppure, mentre abbandonava la biblioteca, gli parve di scorgere, per un istante, la bionda capigliatura di Miriel svanire dietro l’uscio della porta di ingresso a quella.

Palantir attese che il giovane principe fosse entrato all’interno della saletta; infine, rinchiusa la sala, lo invitò a sedere dinanzi a lui. I due uomini si osservarono per alcuni momenti: severo ed impassibile era lo sguardo del principe reale, ché, sebbene la figlia non gli avesse rivelato alcunché di quanto era accaduto in passato, pure era lungimirante e scorgeva molti dei segreti che gli uomini celano nei loro animi. Il suo cuore, tuttavia, fu mosso a pietà, perché nessuna luce brillava negli occhi del giovane. Erfëa pareva assente, quasi che le sue forze si fossero esaurite in quella folla cavalcata che l’aveva condotto dinanzi al futuro sovrano di Númenor. Solo il petto, sollevandosi e abbassandosi ad ogni suo respiro, permetteva al suo anfitrione di riconoscerlo per creatura vivente. Palantir sospirò, eppure non pronunciava ancora parola; afferrata una brocca situata al suo fianco, versò un liquido, denso e ambrato, in un calice che offrì al giovane. Questi, presa la coppa fra le dita, l’avvicinò alle fredde labbra e, inghiottito qualche sorso, parve riprendere forza sufficiente per poter parlare.

“Non ti nasconderò, o re, che in questa ora buia desidererei non essere venuto al mondo o almeno non essere mai stato strappato dal ventre della madre mia; eppure, poiché il tempo stringe, vengo a raccontarti il motivo di questa mia inaspettata visita”.

“Inaspettata, dici? Forse è così – rispose turbato Palantir – eppure, sai bene che non saresti mai riuscito a sottrarti a questo incontro, figlio di Gilnar, neppure se tu fossi stato più cauto e saggio di quanto l’ardore giovanile non permette di esserlo. In tal caso, tuttavia – aggiunse levandosi dallo scranno e avvicinandosi allo scranno ove l’ospite sedeva – non è a me che dovresti rivolgerti, bensì a colei che hai offeso”.

Nulla rispose Erfëa e per un istante parve che egli stesse per abbandonare il suo scranno; infine parlò, e la sua voce, dapprima roca e bassa, crebbe di intensità man mano che egli narrava quanto era accaduto; non un particolare fu tralasciato, nessun nome fu occultato. Al termine delle sue rivelazioni il giovane principe versò lacrime amare, non riuscendo a tollerare la delusione e lo sconforto causati dalle sue colpe.

A lungo tacque Palantir, sopraffatto da quanto aveva appreso: alla rabbia, suscitata dalla colpa del giovane Dúnedan, si aggiungeva ora la preoccupazione per la sorte sua, della figlia e dell’intero regno. Il suo cuore, tuttavia, era più pronto al perdono di quanto non lo fossero i suoi pensieri: si avvide che le parole di Erfëa erano prive di menzogna e che il suo pentimento era sincero:

“Innumerevoli sono i dolori che patiscono gli Uomini e, sovente, a nulla valgono le parole consolatrici ed i saggi ammonimenti. Questo, tuttavia, è il destino dei Secondogeniti: soffrire per espiare le colpe commesse, perché, se forti ed orgogliosi appaiono i loro spiriti, deboli sono invece i corpi in cui dimorano.

Grande colpa hai commesso, Erfëa, figlio di Gilnar; io credo, tuttavia, che le tue amare lacrime siano invero una imperizia maggiore, ché esse sono sterili, né cancelleranno il tuo dolore; recati dunque ove quanto hai appreso possa condurre coloro che congiurano nell’Ombra al giusto castigo ed oblia rimorsi e rancori”.

“Sagge sono le vostre parole, sire, né sarò io a metterle in discussione; pure, se la mia volontà fosse ancora vincolante in questa faccenda, vorrei porgere sincere scuse a colei alla quale rivolsi parole troppo imprudenti, ché infine caddi anche io nel medesimo errore, e tuttavia non fui in grado di scorgerne gli oscuri abissi nei quali ero piombato”.

Un lieve sorriso apparve nel volto di Palantir, ed egli non si sarebbe opposto a tale richiesta; pure, tarda era l’ora ed il giovane principe era impaziente, sicché, seppur a malincuore, così rispose il figlio di Ar-Gimilzôr ad Erfëa: “Sii paziente, figlio di Gilnar, ché ella è ora in preda all’ira e allo sconforto; attendi, dunque, che il suo volere si volga nuovamente a te, ché, se agissi in preda all’impulso e alla fretta, pure ne avresti a soffrire”.

Annuì Erfëa e, preso congedo da Palantir, si recò nella dimora paterna ove attese che si succedessero gli eventi; l’indomani, una notizia percorse in lungo e in largo l’isola di Númenor, ché era stata scoperta una congiura contro i figli del sovrano ed i suoi mandanti erano i principi del Mittalmar; grande fu lo sgomento che prese Gilnar allorché apprese di tale novella ed egli, pur non facendone parola con Erfëa, sospettò, e a ragione, che egli ne sapesse più di quanto le sue scarne parole lasciavano intendere: voci contrastanti si levarono da entrambe le fazioni, l’una accusando l’altra di aver sobillato Arthol e sua sorella Gilmor ad obliare il nobile lignaggio di cui erano portatori, per compiere un disegno efferato e dalle conseguenze ardue da individuare.

2Nei giorni seguenti, furono incriminati numerosi esponenti di entrambi i partiti e ciò fece nascere in molti il sospetto che vi fosse qualcun altro dietro tale congiura, qualcuno il cui interesse non era né in una fazione, né nell’altra; tuttavia, poiché gli uomini sono facili alla corruzione e all’oblio, tali vicende furono presto rimosse, e nessuno, eccetto alcuni, si domandò chi avesse consegnato la lista dei nomi dei congiurati al sovrano, né come costui fosse venuto in possesso di tale documento: lesto fu il processo ed Arthol, Gilmor ed i loro seguaci furono giustiziati all’alba, contravvenendo, tuttavia, alle leggi di Númenor, le quali prevedevano che per i crimini di lesa maestà fossero interpellati tutti coloro che gestivano lo Stato e quanti erano del popolo, perché prendessero visione delle prove a favore o a danno degli accusati. Ritenendo, perciò, invalida tale sentenza di morte, Gilnar allora convocò il Consiglio dello Scettro e inviò rapidi messaggeri alle contrade di Númenor, affinché vi prendessero parte anche coloro che erano stati eletti dalle Gilde ed i capitani, ciascuno nel proprio ordine e con il proprio grado: a tale consesso prese parte una grande moltitudine, gli uni attratti dal sentore del sangue che presto sarebbe stato versato, gli altri dalla letizia di poter assistere alla sconfitta dei propri avversari: molti levarono la propria voce in difesa della Corona e fra essi Akhôrahil ebbe a pronunciare un’agguerrita orazione:

“Signori di Númenor e voi, Custodi delle Tradizioni e delle Leggi che i nostri padri ci hanno tramandato, ascoltate ora Akhôrahil, principe dei feudi del Nord e fedele vassallo del sovrano disquisire su quanto codesti servitori di menzogne e falsità avevano intenzione di perseguire a danno dello Stato e della Corona! Poiché mi sembra che Uomini probi e valorosi come voi non abbiano alcuna tema di adoperare i precetti che un tempo uomini giusti ebbero a stabilire, nulla, che non sia il timore e la codardia dei mortali, può spingere i vostri voleri a disconoscere quanto ciascuno di voi ha udito venir fuori dalla bocca di questi corruttori.

Non è mio scopo illustrarvi le mostruose macchinazioni e gli aberranti costumi di coloro che giunsero dinanzi a me in catene, ché essi sono noti, né vi è fra voi, o giudici, qualcuno che ignori la perfidia e la lussuria che mossero i principi del Mittalmar a muovere contro lo Stato! Eppure, sebbene ciò possa sembrare arduo da ascoltare ai vostri uditi, vi sono tra coloro che vantano appartenenza al lignaggio del glorioso Elros Tar-Minyatur, uomini e donne la cui codardia è pari solo alla crudeltà che infiammò i cuori di coloro che i vostri voleri giudicheranno.

Una sentenza è stata ieri emessa, eppure, si badi bene, un giudizio fu già emesso dai Valar e dall’Uno che è sopra Arda: quale altra sorte, infatti, potrebbe condurre questi spregevoli esseri mortali alla condanna, se non fosse essa stessa decretata da menti savie e prive della malizia che uomini infami covavano nei loro animi? E non siamo noi stessi gli artefici dei voleri dei Valar? Perciò, o giudici, mi sembra che a noi sia stato solo demandato il portare a termine un verdetto che altri hanno realizzato per noi: una sentenza di morte”.

Frenetici applausi si levarono dagli Uomini del Re e Gimilkhâd, secondogenito del sovrano, così parlò dinanzi ai suoi sudditi: “Prendo la parola in virtù dei poteri di cui il padre mio ha insignito la mia persona; uomini di Númenor, punto o poco potrei aggiungere alle parole che il mio vassallo ha testé pronunziato dinanzi a voi; solo, se la volontà dei giudici fosse quella che tutti noi ci aspettiamo possa essere, allora io così li esorterei, ché non siamo qui per giudicare coloro i quali crimini hanno decretato il fato, ma per perseguire le leggi dei nostri padri. Arthol ed i suoi seguaci dovevano essere condannati a morte, oppure il regno non avrebbe avuto alcuna facoltà di sussistere nei cuori e negli animi degli uomini; infatti, non fu detto che esso si sarebbe preservato florido nel corso degli anni, se la stirpe di Elros fosse rimasta sul trono? Morti coloro che impedivano ai congiurati di condurre a termine i loro piani, non sarebbe venuta a mancare Númenor stessa?

Certo, molti fra voi potranno rimembrarmi che la stirpe dei principi del Mittalmar condivide il mio medesimo sangue ed essi sarebbero dunque miei fratelli; eppure, tale parentela non avrebbe forse dovuto scongiurare i loro animi dal perseguire un simile crimine, anziché indurli a tramare contro la mia casata? Posto che gli oscuri piani di costoro avessero trovato compimento, non sarebbe stato, il loro atto, tale da cancellare ogni loro pretesa sul sacro scettro di Númenor?

Or dunque, o giudici, abbiamo costì decretato la sorte di costoro, rimembrando le leggi dei padri e la virtù dei nostri animi”.

Molti si levarono in piedi allorché l’orazione di Gimilkhâd ebbe termine e vi furono alcuni che presero a mormorare essere costui ben più capace del fratello maggiore nel detenere scettro e trono; sconcertati erano i volti dei Fedeli, ché essi avevano compreso quale malizia covasse nel cuore di Akhôrahil, ché egli, trucidati quanti si opponevano al suo volere e che – alcuni sostenevano e non a torto – egli stesso aveva in principio sostenuto, salvo poi rinnegare gli accordi presi allorché i principi del Mittalmar erano sfuggiti al suo controllo, avrebbe ottenuto grande autorità sulle sorti di tutti loro.

Forte si levò, allora, la chiara voce di Gilnar ed egli così parlò: “Uomini di Númenor, e voi, giudici dello Scettro, ascoltate ora le parole che Gilnar, figlio di Nardil, pronunzierà dinanzi a voi.

Gravi colpe sono state in procinto di essere commesse, né vi è alcuno fra noi che potrebbe mettere in dubbio la colpevolezza di coloro che si macchiarono di tali crimini; pure, se è mio diritto esprimere il mio giudizio su tale faccenda, non dirò che codesto sia stato un equo processo”.

Mormorii di sorpresa si levarono allora dagli scranni e vi fu chi, fra quanti militavano nelle fila degli Uomini del Re, levò imprecazioni e accuse di codardia contro colui che aveva parlato innanzi a loro; eppure, Gilnar non ritrasse alcunché di quanto aveva pronunziato e, levata la mano per chiedere nuovamente la parola, proseguì:

“Vi è in tale consesso, o giudici, chi crede essere l’arte dell’emettere sentenze propria di coloro i quali siano pronti a sostenere ragioni personali a scapito della verità: chi, infatti, tra quanti hanno plaudito alla condanna dei due giovani, ha domandato che fossero accertate le responsabilità di quanti condussero i loro destini alla morte?

Akhôrahil ha giurato innanzi al Consiglio e all’erede al trono quanto ogni sua parola ed ogni suo atto fossero dettati dalla volontà di perseguire la verità; ebbene, dove sono le prove che testimonierebbero la colpevolezza di coloro i quali la scure del boia ha giustiziato senza che noi fossimo avvertiti di tale atto? Gimilkhâd ha affermato di aver compiuto tale atto in virtù dei poteri che il sovrano gli ha concesso, eppure, uomini di Númenor, non credete che sarebbe stato suo dovere avvertire della propria scelta colui che un dì siederà sul trono marmoreo di Armenelos? Perché egli non ne fece parola con alcuno, tranne che con Akhôrahil, il quale, sebbene sia un principe, non è di sangue reale né è l’erede al trono?”

Un grave silenzio scese allora sulla sala e quanti erano presenti presero ad ascoltare con viva attenzione quanto il principe dell’Hyarrostar pronunciava; egli si arrestò per qualche istante, infine proseguì:

“Se io, o giudici, fossi colpevole di misfatti quali la giustizia di Akhôrahil e di Gimilkhâd hanno non meno di un giorno fa puniti con la pena capitale, pure potrei sedere sullo scranno ove mi trovo senza temere alcuna condanna, dal momento che coloro i quali si sono recati nelle aule di Mandos più non hanno facoltà di parlare e la dimora nella quale si vociferi tali misfatti ebbero avuto luogo, si dice sia bruciata in un grande incendio; ebbene, o giudici, non vi pare che tali eventi costituiscano una curiosa ed inquietante coincidenza? Che cosa rimane di quanto complottarono costoro, che sia sopravvissuta alla ferocia del boia e a quella delle fiamme corruttrici? Nulla, se non le parole che costoro pronunziarono dinanzi a noi, asserendo che esse corrispondano al vero, senza peraltro apportare prova alcuna se non le dichiarazioni di colpevolezza che i principi del Mittalmar avrebbero vergato di loro pugno nel tentativo – così è stato detto – di avere grazia; eppure, uomini di Númenor e voi giudici, è stato detto che il vorace lupo può tramutarsi in pecora, pur di non destare sospetti nel pastore e nel suo segugio”.

In preda all’ira, così avvampò Akhôrahil: “Quanto hai testé pronunziato innanzi a noi, è invero grave, sicché nessuno fra quanti ricordano le antiche leggi dei nostri padri, muoverebbe contro la mia decisione, se essa fosse di accusarti di alto tradimento e di vilipendio; tuttavia, poiché mi avvedo che uomini onesti e probi quali noi siamo non abbisogniamo di macchiare nel sangue di un pari le proprie vittorie – e così dicendo si inchinò ironicamente al principe dell’Hyarrostar – nulla, che non sia il dolore di un animo ingiustamente provato da tali accuse – ché ben m’avvedo essere il bersaglio di ogni tua infame dichiarazione – potrà suscitare in me ogni tua parola”.8

Per ultimo prese la parola Palantir ed egli si espresse in questi termini:

“Figli di Númenor, lasciate che io parli dinanzi a voi, ché invero gravi crimini sono stati commessi ed altri sarebbero forse giunti se altri – e qui parve ad Erfëa che lo sguardo dell’erede al trono si posasse su di lui – non avessero rivelato le oscure macchinazioni che muovevano contro i sovrani di Elenna; gli uomini lungimiranti, tuttavia, sono soliti dichiarare che la verità, lungi dall’essere raggiunta, è una meta alla quale noi tutti dobbiamo costantemente tendere, ché essa potrà essere raggiunta solo con lo sforzo e la collaborazione di tutti.

Sia dunque aperta un’inchiesta per accertare le responsabilità di quanti operarono al fine di sterminare i reggenti di Andor; affinché sia una giusta indagine, si indaghi pure sul mio conto, se qualcuno crede esservi segreti occulti che la mia casata nasconde nel suo seno, ché non sarò io ad oppormi ad una simile richiesta: come può, infatti, un principe essere superiore alla legge del proprio Stato?

È nostro dovere perseguire, in pace e in guerra, quanto i nostri antenati hanno scritto di loro pugno sugli antichi manoscritti, né si deve invocare in maniera sì avventata il nome dei Valar – e quivi parve che il suo sguardo si posasse su Akhôrahil e che egli lo abbassasse in preda all’ira e alla paura – ché nessuno fra noi conosce gli intenti che animano le Potenze dell’Occidente, né alcuno fra i Secondogeniti può parlare in loro vece”.

Furente fu Gimilkhâd, allorché si accorse che grande amore animava il cuore dei Fedeli nei confronti del suo fratello maggiore, né coloro che erano del suo partito sembravano contrapporre una valida risposta dinanzi alle dichiarazioni del sovrano; abbandonò dunque la seduta, ché aveva compreso essere segnato il suo fato, né egli avrebbe mai impugnato lo scettro di Númenor, ché suo padre era ormai imbelle e non aveva alcuna autorità né sui Principi del Consiglio dello Scettro, né sul popolo: imbarcatosi alla volta della Terra di Mezzo, accompagnato dal figlio e della moglie, egli vi si stabilì finché la morte non lo colse che era ancora giovane secondo il metro della longevità dei discendenti di Elros.

Silenti, coloro che erano seduti sugli scranni, abbandonarono la sala, ciascuno custodendo nel proprio animo le parole che in quel giorno erano state pronunciate ed avendo cura di preservarle per il futuro; solo, Erfëa si recò sulla spiaggia di Rómenna, ove erano sepolti i corpi dei condannati a morte; lunga fu la sua cerca, ché egli ignorava ove fossero stati seppelliti i corpi di coloro che un tempo gli avevano mostrato amicizia; infine, dopo lungo vagare, i suoi occhi scorsero quanto il suo cuore desiderava raggiungere ed egli si fermò dinanzi ai sepolcri dei principi del Mittalmar.

Per qualche istante giacque in silenzio presso i tumuli che erano stati colà edificati; ratto si voltò, tuttavia, allorché una mano gli sfiorò la spalla: nulla vide in principio, ché le lacrime gli impedivano di scorgere alcunché, infine una voce parlò, rincuorandolo:

“Quanta amarezza, Erfëa, figlio di Gilnar, provi il mio cuore nel vedere il tuo spirito dilaniato dagli infausti eventi di questi giorni, mai potrai comprendere, ché si dice essere differenti i linguaggi che gli uomini e le donne adoperano, sicché sovente sembra accadere che fra loro regni la discordia ed il rancore; io però non voglio obliare quanto il mio cuore nutre per te, e sebbene è possibile che tale sentimento in te debba ancora crescere o che esso sia irrimediabilmente svanito – ché, non negarlo, io lo vidi splendere un tempo nei tuoi occhi – pure desidero porgerti le mie scuse per la sofferenza che uno sciocco disio di una imbelle fanciulla arrecò nel tuo cuore. Voglio, dunque, che la pace regni fra noi”.

Presale la mano dolcemente, così parlò Erfëa: “Mia signora, non meno insulso fu il mio comportamento, ché se io fossi stato fedele alle parole che pronunciai quella sera, pure non avrei arrecato un tale dolore al mio e al tuo cuore; mi avvedo, infatti, di aver seguito il medesimo percorso della menzogna che il mio vacuo orgoglio non seppe allontanare allorché giunse l’ora”.

In silenzio percorsero la battigia, l’uno trovando nell’altro conforto e calore; infine, allorché Erfëa si avvide di essere giunto al porto, così si congedò da Miriel: “Addio, principessa dei Númenóreani! Possa la grazia dei Valar non abbandonarti mai, ché molto ne avrebbe da rammaricarsi il cuore dei Dúnedain se tu venissi meno allo scopo che il Fato ha tracciato innanzi a te; sia saldo il tuo animo, ché esso non sia corroso dalla malizia di questi tristi giorni”.

Sulle prime Miriel non comprese a cosa alludessero quelle parole; infine, allorché la verità le fu svelata, ella chinò il capo e lo abbracciò, ché aveva compreso essere il suo un fato ancor al di là dal giungere, posto che una Morte prematura non avesse impedito alla sua volontà di ottenere quanto il suo cuore ambiva; silente mirò Erfëa mentre si imbarcava ed ella tenne alto il suo braccio in segno di saluto, finché le tenebre non caddero su Númenor e la nave non svanì dalla sua vista».

FINE

Note

[1] “ottobre” nella lingua dei Noldor.

 

 

Ombre sinistre su Numenor…

Commentando con un lettore l’ultima parte del racconto sulla Caccia ai Nazgul! (parte II) mi sono reso conto che nel corso della sua narrazione Erfea non spiegava in quale occasione era entrato in possesso di uno scritto autografo del Re Stregone, utile poi per potergli permettere un confronto di grafie con un altro documento dal quale poi prendeva origine la sua ricerca della raccoforte dei Nazgul, nascosta nelle sabbie dei deserti dell’Harad.

Per questa ragione ho deciso di chiarire, in questo articolo, in quali circostanze Erfea entrò in possesso di quel documento e, allo stesso tempo, fornire ulteriori spunti di riflessione sul rapporto fra il principe di Numenor, Miriel e altri personaggi della sua giovinezza che saranno in grado di spiegare – come mi faceva notare acutamente una lettrice – quella personalità malinconica e al tempo stesso saggia che svilupperà Erfea nel corso della sua vita.

La mia fonte di ispirazione per il racconto che spero troverete di vostro gradimento è stata l’oscura vicenda di Lucio Sergio Catalina (108-62 a.C.) un nobile senatore romano noto per la sua celebre congiura che fu scoperta e denunciata nell’anno 63 a.C. da un altro illustre personaggio dell’antica Roma, Cicerone, che gli rivolse in Senato le parole divenute poi celebri: «Quo usque tandem abutēre, Catilina, patientia nostra?» (Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?) Ho immaginato, infatti, che negli ultimi secoli della sua gloriosa esistenza, il regno di Numenor si fosse trasformato in un luogo turbolento, simile alla Roma repubblicana giunta alla fine del suo ciclo storico, dove era facile corrompere (ed essere corrotto) e dove giovani ambiziosi di buone famiglie potevano aspirare ad ottenere un grande potere macchinando nell’oscurità, alle spalle di sovrani persi nell’accumulo di ricchezze, la cui politica, ormai, era controllata e a volte imposta dalle grandi famiglie principesche di Numenor. Il Consiglio dello Scettro, che ai tempi di Aldarion ed Erendis aveva soprattutto una funzione consultiva nei confronti del sovrano, aveva assunto, negli ultimi secoli di esistenza del regno numenoreano, una crescente importanza, fino a diventare una sorta di potere parallelo a quello sovrano: al suo interno ogni membro deteneva un voto (mentre al re ne spettavano due); alleanze e tradimenti erano, dunque, all’ordine del giorno, per far vincere questa o quell’altra fazione.

Fu proprio all’interno di questo clima torbido e violento che Erfea si trovò coinvolto, suo malgrado, in una vicenda che lo pose di fronte a una scelta difficile da compiere…e, come spesso accade in questi casi, ambito privato e pubblico si mescolano senza soluzione di continuità…

Buona lettura!

«Giunse infine l’ultimo giorno di quel mese ed i principi dell’Hyarrostar si recarono ad Andúnië, ove vivevano i Signori di Númenor. Pochi saluti si levarono allorché essi varcarono la soglia del grande salone della reggia degli eredi di Silmariel, ché erano invisi ai principi della fazione dei Númenóreani Neri. Molte voci si levarono, tuttavia, allorché fecero il suo ingresso Erfëa, figlio di Gilnar ed Arthol, figlio di Nargon. Alcune dame presero a sorridere allorché costoro si inchinarono dinanzi al Signore della Dimora, ché erano belli nell’aspetto e cortesi nei modi; pure, sebbene Arthol si mostrasse disposto nei confronti di codeste fanciulle, il suo compagno mostrava minor interesse, intento com’era a discutere con Numendil di quanto aveva appreso nella Terra di Mezzo.

Nel momento in cui i festeggiamenti giunsero al culmine, Arthol, fatto cenno al suo compagno di seguirlo, così gli parlò: “Dove è dunque la fanciulla di cui mi parlasti? Mi rammarico di non vederla in tale luogo, ché ella allieterebbe il tuo cuore. Sei un giovane uomo e molte sono le dame che gradirebbero danzare con te; perché non oblii codesti tristi pensieri, che da troppo tempo dimorano nel tuo animo?”.

Nulla poté rispondere Erfëa, ché in quel momento l’araldo annunciò ai presenti l’arrivo di Palantir e di sua moglie Silwen. Al loro apparire gli ospiti rivolsero loro deferenti inchini, ché egli sarebbe divenuto sovrano e, sebbene fosse del partito avverso agli Uomini del Re, pure coloro che erano suoi avversari avevano tema dalla sua lungimiranza e non osavano contrastarlo. Un’esile fanciulla, quasi occultata dall’ampia cappa bianca che ne copriva il volto, seguiva la coppia reale. Erfëa, naturalmente, come tutti gli altri principi suoi pari e i sudditi del regno, sapeva essere quella fanciulla Miriel, principessa figlia di Palantir e Silwen: non l’aveva mai vista in volto, tuttavia, poiché ella era solita trascorrere le proprie giornate in compagnia dei suoi precettori reali, lontana da occhi indiscreti.

Invano, i principi presenti in sala tentarono di scorgerne il viso, ché esso era occultato da una graziosa maschera impreziosita da perle: delusi, tornarono ai loro posti, rammaricandosi che il carattere della principessa fosse così schivo da evitare di mostrare il suo aspetto in pubblico. Con il trascorrere delle ore, tuttavia, essi parvero dimenticarsi di Miriel e concentrarono la loro attenzione sul vino e sulle altre dame presenti al banchetto. Sorse infine la Luna, eppure ancora i festeggiamenti erano lungi dal concludersi, ché Palantir si levò in piedi e colmato il suo calice di biondo nettare, così si rivolse a quanti erano con lui:

“Signori e Dame di Númenor, Padri dell’Isola e Custodi dell’Antica Tradizione, vi invito a levare in alto i vostri preziosi calici, ché questa sera accogliamo coloro che ritornano a noi dopo lunga assenza; brindiamo, dunque, ad Arthol e ad Erfëa, Cavalieri del Regno!”.

“Cavalieri del Regno!” risposero quanti erano presenti e i due giovani principi furono invitati a presentare le proprie armi dinanzi a Palantir, affinché fossero investiti e potessero ricevere gli speroni d’argento, simbolo della loro condizione. Per primo avanzò Arthol, accompagnato da suo cugino Brethil: giunto che fu innanzi al suo signore, egli si chinò e sguainata la lama, ne pronunciò il nome ad alta voce, consegnandola nelle mani di Palantir, che ne ordinò l’investitura. Il principe del Mittalmar fu assegnato all’armata di Númenor stanziata ad Umbar: grande fu il dolore che si impossessò del cuore di Erfëa, allorché udì tale notizia, ché avrebbe desiderato che entrambi avessero potuto restare a Númenor.

Lieto era invece Arthol, ché desiderava fare ritorno alla Terra di Mezzo, ove credeva di acquisire maggiore potere di quello che gli sarebbe spettato se fosse rimasto in patria. Sotto questo aspetto il principe del Mittalmar era differente da Erfëa, il quale aveva rinunziato alla vanagloria dopo aver ascoltato i saggi consigli di Tom Bombadil e di Gil-Galad. Arthol, al contrario, aveva sempre reputato essere la condizione della propria famiglia tale da dover conseguire imprese degne di nome per sedersi alla propria tavola senza provare timore alcuno; simili considerazioni sfuggivano tuttavia ad Erfëa ed egli non era a conoscenza delle ambizioni del suo compagno. [qui consiglio di proseguire con la lettura di Il primo incontro di Erfea con i Nazgul]

Lieti, i menestrelli ripresero a suonare ed i bardi cantarono delle gesta della casa del sovrano, sin dai tempi in cui l’isola era sorta dal mare ed Elros era divenuto il primo re di Elenna. I Fedeli, invece, presero a congratularsi con il giovane Erfëa, mostrandogli stima e affetto, sicché molti calici si alzarono in suo onore; pure, sebbene grande fosse la sua gioia, il pensiero dell’imminente perdita del suo amico d’infanzia molto lo rattristava.

Tali erano i suoi foschi pensieri che non si avvide di una fanciulla che gli si inchinò dinanzi; distrattamente, Erfëa replicò a tale gesto, eppure, grande fu il suo stupore allorché si avvide che era la figlia di Palantir: “Nobile capitano di Númenor, permettete alla principessa di Armenelos di congratularsi con voi? Avete ottenuto una magnifica vittoria su i vostri nemici, sicché immagino che il vostro cuore sia colmo di gioia”.

Sorrise Erfëa nel risponderle: la voce della dama gli era familiare e sebbene non ricordasse più in quale luogo o in quale tempo l’avesse ascoltata, pure la trovava melodiosa. “Graziosa dama, gentili sono state le vostre parole, e non sarò io a negare la mia soddisfazione. Io però non anelo all’onore delle armi, né ai forzieri ricolmi di oro e argento che giacciono nelle dimore dei principi di questa contrada: i miei occhi, infatti, hanno scorto altre meraviglie, quali mai gli uomini e le donne qui presenti hanno visto”.

Piacquero alla fanciulla le parole che Erfëa aveva pronunziato, sicché ella gli chiese di narrarle della dimora di Gil-Galad e degli Alti Elfi che dimorano al di là del mare. A lungo il figlio di Gilnar si intrattenne con Miriel, infine, allorché il suo racconto ebbe termine, ella parlò a sua volta:

“Ora comprendo per quale motivo i vostri occhi siano scuri, Erfëa di Númenor. Qualunque uomo sarebbe colmo di tristezza se non potesse più ammirare simili meraviglie, di beltà e luce intrise”.

Amaro risuonò il riso di Erfëa: “Mia signora, se tale fosse il motivo per il quale provo dolore, non potrei che imputare a me stesso l’aver abbandonato il popolo degli elfi; colei che io rimpiango di aver perso, invece, rinunciò di sua volontà alla mia amicizia”.

Stupore misto a commozione si dipinse sul volto della principessa, eppure Erfëa non poté notarlo, occultato com’era dalla maschera che indossava; nondimeno, il Dúnadan avvertì che la sua voce era incrinata e le chiese perdono per averla rattristata con simili storie.

“Mia signora, non era mia intenzione turbarvi. La dolce amica di cui vi ho parlato, infatti, appartiene alla mia infanzia”.

“Non piango per la vostra sventura, giovane principe, ché, sebbene dolorosa, pure è comune a tutte le sorti umane. Se il mio cuore è triste, lo è perché teme la fine di questi giorni felici. Non vi è gioia più grande, infatti, che assaporare, come un dolce frutto proveniente dal lontano oriente, la letizia del tempo presente”.

Erfëa l’osservò stupito e gli parve saggia e lungimirante; a lungo discorsero i due giovani, sicché grande fu il rammarico di entrambi allorché dovettero prendere congedo l’uno dall’altra.

“Mia signora – la salutò il figlio di Gilnar – avete allietato il banchetto e le danze; concedetemi, dunque di mirare il volto di colei alla quale porsi il mio calice “.

Miriel, tuttavia, scosse graziosamente il capo: “Mio signore, voi siete ora avvezzo ai volti delle fanciulle elfiche, sicché trovereste disdicevole porre i vostri occhi su quelli mortali. Non sarò io a rivelarmi dinanzi a voi, né dovrete portarmi rancore per tale mia scelta, ché, ecco, molto ne avrei a soffrire. Sia dunque, codesto, un pegno presso il vostro cuore che rimembrerete ogni giorno”.

Curiosa parve la risposta ad Erfëa ed egli non ne comprese appieno il motivo; pure, chinò il capo e si allontanò senza pronunciare parola alcuna. Una profonda stanchezza lo aveva avvolto ed il suo corpo desiderava il riposo.

Nei giorni seguenti il figlio di Gilnar si recò sovente nella contrada di Numendil: costui era divenuto, infatti, il suo signore ed egli doveva al principe di Andúnië ben più della stima che un giovane capitano nutre nei confronti del suo comandante. L’animo del parente più prossimo del sovrano gli sembrava insondabile, né il suo volto esprimeva letizia: sovente, egli si recava ad Armenelos, ove prendeva parte alle sedute del Consiglio dello Scettro, sicché il principe dell’Hyarrostar trascorreva le sue giornate in solitudine. Nei mesi successivi, tuttavia, Erfëa si avvide che Numendil invecchiava precocemente e, sebbene questi fosse un uomo anziano, anche secondo il metro dei Númenóreani, pure il suo mutamento era sembrato assai repentino.

Trascorsero infine tre mesi e Numendil, avvertendo che la morte gli era ormai prossima, convocò a sé Erfëa, affinché fosse posto a parte di eventi di cui pochi erano a conoscenza, ma in cui molti erano implicati. Sgomento, il figlio di Gilnar l’ascoltò senza pronunziare parola alcuna: gravi erano le rivelazioni che il suo signore gli aveva confidato, sicché giurò solennemente che mai avrebbe svelato ad altri le sue ultime confessioni. Molti anni dopo, allorché i suoi passi lo condussero alla fortezza degli Schiavi dell’Anello, l’animo di Erfëa si volse grato verso colui che l’aveva messo al corrente degli occulti segreti di cui era divenuto depositario.

L’agonia di Numendil fu lunga e dolorosa, poiché un invisibile veleno pareva scorrergli nelle vene e la sua carne era restia a consumarsi nell’oblio della morte. Infine, allorché il moribondo ebbe esalato l’ultimo respiro, Erfëa pianse: mai, infatti, prima d’allora aveva mirato quella che i menestrelli elfici definiscono le funesta sorte dei Secondogeniti. La morte, tuttavia, era un dono e non una punizione: i cuori degli Uomini, tuttavia, divenuti preda dell’angoscia e del timore, avevano preso ad interpretarla come una maledizione, temendone gli esiti. Nessuno sfuggiva a questa paura atavica: persino gli animi dei Fedeli, in parte corrotti dalle paure di quei tempi, scongiuravano il momento della dipartita, facendo appello a tutte le loro conoscenze, senza alcuna fortuna.

Triste fu il cuore di Erfëa mentre versava silenziose lacrime sul petto del suo signore. Egli inviò un messaggero ad Amandil affinché lo raggiungesse nella casa paterna, ché questi era allora nella Terra di Mezzo.

Penosi erano gli sguardi che i due uomini si scambiarono allorché furono l’uno dinanzi all’altro ed essi a lungo tacquero; infine, avvedutosi che il dolore nell’animo di Amandil non era inferiore al suo, così gli parlò Erfëa:

“Fratello nel sangue e nel dolore, triste è la dipartita del nostro signore e padre. Tu fosti il suo seme naturale, ed egli fu per me leale guida e maestro: inutili, tuttavia, saranno le nostre lacrime attuali e altre, ancora più cruenti, verseremo in futuro, se non porremo termine alla minaccia che incombe su di noi”.

Stupito, Amandil lo invitò a prendere posto, accanto al suo trono, pregandogli di narrare quanto era accaduto negli ultimi tempi. Pensoso fu il suo sguardo ed egli si avvide che non vi era menzogna nelle parole del suo congiunto, né temette che tali rivelazioni fossero tremulo parto di una mente resa cieca dal dolore della perdita. Amandil, tuttavia, era esitante: la sua gente era in numero troppo esiguo nel numero per tentare di sopraffare con le armi i propri nemici. Il principe esitò, dunque, riservandosi il diritto di adoperare quelle informazioni nel modo che avrebbe ritenuto opportuno; pregò Erfëa di non farne parola con alcuno, per tema che gli incogliesse un grande male. Riluttante, il figlio di Gilnar annuì, sebbene nutrisse nel cuore il timore che grandi sofferenze sarebbero derivate da tale scelta.

Lesta, si sparse nell’isola la notizia della morte di Numendil: i servi del Re ne furono lieti, ché Amandil, sebbene fosse un uomo lungimirante e saggio, pure era troppo giovane per incutere in loro timore. La carica di Custode delle Leggi del Regno e delle Antiche Tradizioni, che un tempo apparteneva a Numendil, restò per qualche tempo vacante: gli Uomini del Re, allora, presero a mormorare che presto tale incarico sarebbe spettato ad uno di loro. Akhôrahil, tuttavia, esortava loro a non esultare anzitempo, ché sebbene fossero principi dotati di forzieri traboccanti d’oro ed argento, pure non erano a conoscenza degli scritti che antichi legislatori avevano annotato in tomi di pelle nera ed argentata. Riluttanti, perché non avrebbero voluto che Akhôrahil aggiungesse altro potere a quello che già possedeva, gli altri principi lo esortarono, affinché fosse proposta la sua candidatura per tale carica. Il servo di Sauron rifiutò: “Gli Uomini avveduti – replicò – sono soliti governare mediante coloro che si mostrano incapaci di comprenderne i propositi. Costoro, infatti, sono facili prede dei loro intenti”.

Il quinto Nazgûl, tuttavia, considerava con interesse la carriera del giovane Arthol, un uomo forte nel corpo e ambizioso, ma poco lungimirante. Come molti della sua generazione, Arthol dissipava il patrimonio paterno in lussurie e atti dei quali la pudicizia degli uomini consiglierebbe di tacere. In breve tempo la sua giovanile ambizione si tramutò in arroganza e infine in smania di potere; reputò allora che il suo incarico fosse indegno di un uomo del suo genio, mentre l’invidia per colui che un tempo aveva amato come un fratello cresceva nel suo animo e ne occupava i reconditi pensieri, rendendolo cieco dinanzi a qualunque altra cosa.

Arthol prese a sussurrare, da principio in gran segreto, in seguito con maggior audacia, che gli eredi maggiori di Elros Tar-Minyatur avrebbero dovuto rinunciare allo scettro. Molti furono i Númenóreani che seguirono le sue parole e ne ricavarono malvagi insegnamenti, sicché egli prese a riunire nella dimora paterna una combriccola di uomini e donne corrotti ed esperti di tutte quelle arti che sono degne solo degli Orchi di caverna. In poco tempo essi approntarono un piano che avrebbe permesso loro di impadronirsi di quanto desideravano ardentemente e che non riuscivano ad ottenere se non con l’assassinio e il bieco furto. Akhôrahil, i cui servi avevano preso parte ad alcune riunioni indette da Arthol, si avvide che costui avrebbe costituito un valido alleato per il suo Signore, sempre che fosse riuscito ad arrestarne il giovanile ardore.

Dei cavalieri e delle dame che il principe númenóreano sedusse è dato sapere poco, ché essi agivano in gran segreto e non si occupavano di nulla che non fosse lo Stato stesso. A quanti fossero stati all’oscuro dei loro biechi progetti, pareva che essi fossero degni della posizione che la sorte aveva assegnato loro. L’unica dama del quale fu conosciuto il nome era Gilmor, sorella di Arthol; nulla poteva lamentare che la sorte le avesse negato, ché era bella e nobile nel portamento, né era dotata di minor intelligenza di quanto non lo fosse nella grazia. Le sue doti, tuttavia, era solito porle al servizio dei suoi interessi: era solita concedersi agli uomini, allorché le aggradava ed era a conoscenza delle arti che soggiacciono la volontà degli uomini a coloro che ne pronunciano le oscure parole. Infida non lo era stata dalla nascita, ché aveva subito una educazione quale si confà alla nobiltà della sua stirpe; la precoce morte della madre e il dolore che mai si dipanò nel suo animo per la sua dipartita, la spinsero alla disperazione, e indi al rancore, sicché, ancor prima che il fratello fosse corrotto, era divenuta avvezza ad ogni sorta di vizio. Abile nell’occultare le sue perversioni a quanti non fossero a conoscenza della sua malvagità, lo era parimenti nell’eloquio e nel canto e in quelle arti che sono proprie delle altre dame della sua condizione.

Molti fra quanti presero parte alla congiura ai danni della stirpe del sovrano, appartenevano proprio alla fazione che ne avrebbe dovuto sostenere l’influenza a Númenor, né tuttavia, erano estranei a tali complotti gli Amici degli Elfi. Gli uni, infatti, erano attratti dalla lussuria e dalla cupidigia, gli altri dalla falsa speme di liberare il proprio paese dal dominio di un uomo che tanto disprezzavano. In gran segreto essi si addestrarono e compirono efferati delitti: avevano, infatti, gran bisogno di denari per acquistare le armi e corrompere le guardie di palazzo. Akhôrahil donò molte delle sue ricchezze ad Arthol, convinto che se costui fosse riuscito nel suo intento, il suo padrone avrebbe gioito, ché avrebbe spazzato via dalla Terra di Mezzo le colonie númenóreane; se invece il principe del Mittalmar avesse fallito nella sua impresa, lo Spettro dell’Anello avrebbe avuto facoltà di incrementare maggiormente la sua influenza a corte. Ar-Gimilzôr, infatti, non avrebbe avuto alcuna remora ad affidare la repressione dei congiurati al Nazgûl. Nei riguardi dei Fedeli, Akhôrahil nutriva poco interesse, convinto che quelli avrebbero mostrato maggior comprensione per gli assassini del sovrano che per il sovrano stesso. Arthol, invece, non era del suo stesso parere: molto temeva Gilnar, ritenendo che questi non avrebbe tollerato che alla tirannia del sovrano succedesse la sua. Ar-Gimilzôr era ormai al termine della sua esistenza: imbelle, sedeva sul suo regale trono in preda a crisi di follia che abili ministri dissimulavano dinanzi agli occhi del popolo. Presto il sovrano sarebbe morto e lo scettro passato nelle mani del suo erede Palantir, il quale poco amore nutriva per il padre e per quanti ne sostenevano la causa.

Nei giorni seguenti un nuovo timore sorse nel cuore di Arthol, provocato dalla profonda amicizia sorta tra Erfëa e colei che sarebbe succeduta a Palantir, qualora fosse giunto il suo tempo. Arthol mutò allora i suoi piani e prese ad organizzare un complotto ai danni dell’erede maggiore di Ar-Gimilzôr, nella speranza che, ottenuta la sua morte e quella della sua figlia, egli avrebbe potuto colpire più facilmente l’anziano sovrano. Questo sviluppo piacque all’Úlairë: egli, infatti, non tollerava Palantir, temendone lo spirito lungimirante, ed avrebbe, invece, gradito che lo scettro passasse nelle mani di suo fratello, Gimilkhâd il Crudele, che era ambizioso non meno che iracondo, e dunque facile da ammaestrare agli scopi del suo padrone.

Nulla sospettava Erfëa di quanto tramava il suo compagno d’armi in gioventù: non aveva dimenticato gli avvertimenti di Numendil, eppure la sua ira era scemata, perché prossimo a compiere la maggiore età e distratto da altri pensieri. Il figlio di Gilnar spesso conduceva il suo destriero sino alle bianche spiagge di Andúnië, ove era solito interrogare i pescatori ed i marinai sulla sorte che aveva conosciuto Eärien, se ella fosse andata in sposa ad uno di loro, oppure se la morte l’avesse colta in giovane età; costoro, tuttavia, non sapevano rivelargli alcunché, né avevano mai udito tale nome prima di allora. Quando non era occupato dalla ricerca della sua amica di un tempo, Erfëa si recava nei suoi possedimenti, ove badava che i destrieri paterni fossero ben curati, oppure, nelle silenti sale della biblioteca di Armenelos ove più nessuno si recava di innumerevoli anni».

Continua

Ritratti – Parte II

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Dopo avervi presentato le due illustrazioni disegnate dal maestro Angelo Montanini in Ritratti, inauguriamo il nuovo anno con questo ciclo di bellissimi ritratti, opera di un altro maestro del fantasy, Fabio Porfidia, che nel mese di dicembre scorso si è cimentato nel disegno di alcuni dei protagonisti del Ciclo del Marinaio: Erfea, Miriel, Elwen e i Nove Nazgul quando erano ancora semplici Mortali. I risultati? Potrete ammirarli voi stessi nella galleria in alto: posso solo dire che sono fantastici!

Aspetto i vostri commenti, al prossimo articolo!

Caccia ai Nazgul! (parte II)

Proseguo la narrazione della ricerca, da parte di Erfea, della roccaforte dei Nazgul iniziata in Caccia ai Nazgul! (I parte) . Riuscirà il paladino di Numenor nel suo intento?

Buona lettura!

«Baluginarono gli occhi di Amdír, infine egli espresse il suo pensiero ad alta voce: “Questo dunque accadde! Bussare al cancello della cittadella degli Úlairi deve essere stata pura follia, come chiedere udienza a Sauron in persona!”

Sorrise Erfëa, indi riprese a narrare: “Amdír, parli di luoghi ove mai il tuo popolo si è recato, se paragoni la fortezza dei Nazgûl a quella di Sauron, ché nessuno fa ritorno dalla seconda, se non chi è esecutore della volontà dell’Oscuro Signore di Mordor. Quanto a me, non fu la follia a spingermi in tale contrade, bensì la necessità di comprendere quanto era ancora sconosciuto ai Saggi.

Viaggiai a lungo diretto a levante, occultato dalle dune di sabbia e roccia che si ergevano ovunque posassi lo sguardo; infine, dopo due settimane, giunsi ove pochi mortali avevano posato i propri occhi: una grande fortezza si ergeva dinanzi a me, cinta da robuste mura.

Guardando in basso, scorsi una lenta processione di uomini ricoperti di pesanti drappi condurre pesanti orci all’interno del cancello, il quale era protetto da imponenti guardie; esitai, ché non sapevo come introdurmi in tale luogo ed inadatti mi parevano gli abiti con i quali ricoprivo la mia carne alla malizia dei servi di Akhôrahil; infine, sceso lungo il pendio sabbioso che mi separava dalla strada che conduceva alle oscure aule, tramortii uno dei portatori e, lesto, mi impadronii delle sue vesti e della sua mercanzia, avendo cura di nascondere Sulring allo sguardo dei guardiani.

Accurato mi parve il piano, sicché mi diressi senza esitazione alcuna ove era mia intenzione recarmi; giunto dinanzi all’imponente cancello, tuttavia, avvertii una grande fitta e una intollerabile nausea prendere le mia membra, ché, mi resi conto essere veritiere le parole che l’anziano pastore aveva pronunciato quella sera, ché non vi erano solo sentinelle mortali a guardia dell’ingresso: sforzandomi di non cedere, vidi che ai miei fianchi erano poste due mostruose statue, le quali procuravano panico in chiunque avesse osato mirarle; non era però la fattezza di tali sculture ad atterrire il mio spirito, ché vi era qualcosa che si agitava in loro, forse un servo di Morgoth condannato dalla negromanzia di Sauron a risiedere per sempre in una simile dimora.

Non potevo più avanzare, né indietreggiare, sicché temevo che le sentinelle avrebbero potuto accorgersi della mia palese sofferenza: allora afferrai l’elsa della mia lama, deciso a morire da guerriero, piuttosto che da schiavo, eppure, quale non fu la mia sorpresa allorché mi avvidi che ogni dolore era cessato e che la resistenza dei guardiani era vinta.

Avanzai, allora, finché non oltrepassai il pesante cancello e l’oscuro barbacane e giunsi in un ampio piazzale ove gli Uomini che erano con me si accingevano a scaricare le proprie merci: un imponente soldato scortava un anziano sacerdote, la cui livrea mi rivelò essere un adepto del culto di Morgoth, affinché costui prendesse nota di quanto gli schiavi recavano seco; lesto, allora, abbandonai il mio sacco e mi diressi ove era un uscio socchiuso; apertolo cautamente, percorsi l’ampia sala che esso occultava, sulle quali pareti erano posti arazzi del quale contenuto, pur non avendolo obliato, pure preferisco non farne parola alcuna: grandi cataste di armi erano sparse sul pavimento, sicché credetti essere codesto un luogo ove avevano sede gli allenamenti e le esercitazioni militari di quanti servivano nella fortezza; non osavo introdurmi ove mai hanno udito gli idiomi elfici se non sotto forma di preghiere e di urla, ma temevo che sarei stato alfine costretto a ritirarmi se avessi indugiato ove mi trovavo.

Dopo lungo esitare, sguainai la mia lama, Sulring di Gondolin e osservai con meraviglia che emanava una debole luce; spostandomi casualmente ove erano appese le armi del nemico, mi avvidi con grande stupore che l’intensità della luminosità della lama aumentava, sicché compresi essere quella una spada come ne forgiavano un tempo gli Eldar; incoraggiato da tale scoperta, puntai allora la spada in direzione di uno dei corridori ove mi sembrava l’aria diventasse più fetida ed oscura e, con mia somma soddisfazione, scorsi Sulring emanare una grande luce: seguii dunque il percorso che essa mi indicava ed attraversai ampi saloni deserti e negri corridoi, finché al termine del mio peregrinare non giunsi dinanzi ad una balaustra; avendo riposto la spada nel fodero, ché essa ormai emanava una luce troppo possente e poteva essere scorta da altri che non fossero i miei occhi, mi sporsi con cautela al di là di essa”.

Fece una pausa, infine sospirò profondamente, come se ciò che stesse per narrare si preannunciasse invero troppo orribile da ascoltare:

“Fu allora che io vidi, rischiarato dalla tremula luce di oscuri candelabri, un ampio tavolo, come se ne trovano talvolta nelle nostre dimore; dieci scranni erano allineati ad esso, sicché su ogni lato maggiore ve n’erano quattro, e solo uno su quello minore; non ebbi tempo per elaborare congettura alcuna, ché scorsi aprirsi lentamente un uscio, prima invisibile ai miei occhi; allorché mi fu possibile mirare chi aveva fatto il suo ingresso nella sala, mi avvidi che egli era un possente guerriero, adorno delle medesime armature indossate dai capitani delle genti del Khand. Sfregiato era il volto dell’uomo, come se egli avesse subito un duro colpo in combattimento; una profonda cicatrice si inoltrava dall’altezza della tempia fino alla mascella ed egli sembrava in preda a grande furore: una volta che ebbe preso posto, mi avvidi che innanzi a lui si apriva un secondo uscio dal quale fece il suo ingresso un altro uomo, di cui parimenti mi era sconosciuto il sembiante.

Colui che si era seduto dinanzi al primo guerriero, indossava una veste color del fuoco, sulla quale erano ricamate rune malefiche; ignoro cosa esse recitassero, ma, allorché il mio sguardo si posò su di esse fui nuovamente preso da nausea e vertigini, sicché, lesto, volsi altrove i miei occhi e mirai una terza persona fare il suo ingresso nella vasta sala; costei era una dama di indicibile bellezza, simile alle donzelle elfiche di cui narrano gli antichi canti; familiare mi era tuttavia il suo volto e la sua corvina capigliatura. A lungo riflettei, finché non reputai essere codesta donna colei che un tempo avevo osservato dinanzi alla dimora dei principi del Mittalmar: una lunga veste violacea ne ricopriva le carni ed ella indossava, come un tempo era solito essere, un diadema intorno al capo.

Lentamente, ella si sedette al suo scranno, senza pronunziare parola alcuna; allorché la dama ebbe prese posto, si aprì un sesto uscio e ne venne fuori un imponente uomo, alto sette piedi o forse anche più, rivestito di rozze pelli di animali e di bronzo: non recava su di sé ornamenti che non fossero una spenta spilla con la quale aveva fissato un pesante manto verde sulle sue poderose spalle ed una collana di smeraldi, appena visibile sul suo taurino collo.

In seguito, attraverso la medesima procedura che ho testé descritto, fecero il loro ingresso nella sala altri due Uomini; grande fu la mia sorpresa e soddisfazione allorché scoprii essere uno Akhôrahil, ché, sebbene egli avesse mutato abbigliamento e indossasse ora una cotta di maglia dorata ed un lungo mantello rosso, pure io ne riconobbi le bieche fattezze; ignoto, invece, mi era il sesto uomo, ché egli era abbigliato con vesti simili a quelle che indossano i Signori degli Haradrim, mentre sul capo aveva una pesante corona d’avorio ed essa era stata modellata a guisa del volto di un mumakil.

Nessuno di questi Secondogeniti pareva accorgersi di quanti erano con loro in quel momento, né essi rivolgevano l’un l’altro cenno o parola alcuna; ancora una volta, due porte furono spalancate ed esse lasciarono posto a due nuovi uomini; il primo era abbigliato di una lunga veste, il cui colore era indecifrabile a vedersi, ma sulla quale erano chiaramente distinguibili, finanche dalla posizione in cui ero, rune malvagie ed altri segni a me ignoti: costui era calvo e non recava con sé alcuna arma, eccetto un lungo pugnale che talvolta faceva capolino fra le sue vesti; due mostruosi segugi erano ai suoi fianchi ed essi erano fra le bestie più orribili che io avessi mirato sino a quel momento.

Il secondo Uomo, invece, era palesemente un guerriero, ché indossava una corona in oro massiccio, adorna di cinque gemme quali mai i miei occhi avevano scorto fino a quel dì; al suo fianco era cinta una possente scimitarra ed un arco di tasso gli pendeva sulle spalle.

Non appena anche quest’ultimo sovrano si fu accomodato, una nona porta si aprì e, con mio sommo orrore e crescente inquietudine, fui colto dal panico e da una forte fitta al capo; tuttavia, ero ormai avvezzo a simili esperienze, sicché posi subito mano all’elsa della mia lama e in breve tempo ritornai padrone dei miei pensieri e guardai nuovamente in basso: un possente signore si era ora approssimato al tavolo ed egli rivolgeva silenti cenni di saluto ai suoi camerati; questi, invece, gli si prostrarono innanzi, sicché compresi essere costui il loro capitano.

Alto e bello era il suo sembiante, ed egli indossava una veste nera, mentre le sue spalle erano cinte da una cappa argentata: grande fu la mia sorpresa, tuttavia, allorché mi accorsi che egli indossava un elmo quale mai nessuno della mia stirpe avrebbe potuto obliare”.

“Di quale cimelio parli, figlio di Gilnar? – domandò Elendil – Invero, ché lo leggo nel tuo sguardo, deve essere stato un oggetto assai prezioso”.

“Così è, o re, ché esso era l’elmo un tempo appartenuto a Tar-Ciryatan, re di Númenor secoli or sono; egli era davvero Er-Mûrazôr, ché solo l’erede del sovrano avrebbe potuto reclamare una simile reliquia dei tempi remoti, quando Númenor non era ancora stata sommersa e Sauron dormiva ad Est.

A questo punto, amici, la mia cerca poteva dirsi conclusa, in quanto avevo accertato essere Er-Mûrazôr sopravvissuto ai limiti mortali che Ilúvatar ha imposto ai Secondogeniti e, sono certo concorderete con me, l’immortalità è procurata ai mortali solo dai Grandi Anelli e non già da altri sortilegi”.

A lungo rifletterono coloro per i quali questo resoconto risultava nuovo, infine Círdan, che era della schiatta dei Sindar, si levò dal suo scranno e chiese la parola:

“I Saggi non mettono in dubbio che codesto Uomo sia perdurato nei secoli e che serva uno scopo malvagio; eppure, tu stesso hai rivelato essere tali esseri ammantati di spoglie mortali e non già mostratisi ai tuoi occhi quali spettri immondi a vedersi; puoi forse dare prova di aver veduto gli Úlairi nella forma in cui essi sono soliti mostrarsi a coloro che li contrastano?”.

“Círdan del Lindon, quanto tu domandi troverà giusta risposta nelle parole che la mia bocca deve ancora pronunziare; allorché, infatti, il figlio minore di Tar-Ciryatan ebbe preso posto innanzi a me, essi mutarono improvvisamente forma, mostrandosi come creature la cui carne non era più visibile; un canto intonarono allora ed oscene mi parvero le parole che essi pronunziavano; infine, proprio quando iniziavo a credere che avrei smarrito il senso, il canto ebbe fine e mi avvidi che costoro erano ritornati alla loro forma primigenia.

A lungo fra i Nove – ché, ormai, non mi sembra più possibile possano esservi dubbi sulla loro vera identità – regnò il silenzio; infine colui che aveva preso posto per ultimo, levatosi dal suo scranno parlò:

“Ûvatha, Ren, Adûnaphel, Hoarmûrath, Akhôrahil, Indûr, Dwar e Khamûl, vi ho convocati perché possiate prendere visione di quanto il nostro Signore, il Padrone della Sorte, ha decretato che debba accadere; egli è palesemente soddisfatto delle vostre conquiste e si duole alquanto di non poter presenziare tale consiglio, ché gravi impegni lo trattengono a Barad-Dûr; tuttavia, poiché io ricevetti il primo fra gli Anelli – e dicendo questo, lo sollevò in alto, affinché tutti potessero vederlo – ha incaricato me di prenderne le funzioni.

A lungo discorsero i Nazgûl, ora parlando nelle favelle degli Uomini, ora in quella che io credetti essere la lingua oscura di Mordor; infine, allorché furono trascorse quattro ore, essi si ritirarono nelle proprie sale, lasciando, incustodito sul tavolo, un voluminoso tomo; incuriosito e credendo essere solo, mi calai dalla balaustra, e posi le mie mani su quello che si rivelò essere un cimelio non meno prezioso dell’elmo dei Re degli Uomini”; detto questo, Erfëa posò, sotto lo sguardo attonito dei presenti, un libro avvolto da una nera pelle: oscure scritte ne ornavano la superficie, eppure essi, pur non comprendendole, ne furono atterriti.

“Círdan, e voi tutti amici, non credo che abbisogniate di altre prove che non sia questa che ho testé presentato innanzi a tale consiglio; questo, infatti, altro non è che il medesimo tomo che sottrassi ai Nazgûl nella loro dimora”.

Stupito, Aldor così gli si rivolse: “Erfëa, possiedi invero uno spirito dotato di lungimiranza e coraggio quali pochi fra gli Uomini possono vantare di avere! In nome dei Valar, come sei fuggito da un luogo sì maledetto?”

A lungo Erfëa ristette in silenzio, come se il ricordo gli arrecasse il medesimo dolore che un tempo tali eventi avevano inflitto alle sue carni; infine parlò e gli sguardi di tutti erano su di lui:

“Non vi era alcuno nella sala, o così mi parve essere; mi fu sufficiente sfogliare il tomo per comprendere quali contenuti celasse, ché alcune pagine erano scritte in Adûnaico ed io le comprendevo; tuttavia, ebbro del trionfo com’ero, non mi accorsi che i segugi di Dwar erano apparsi da un invisibile pertugio e avevano posato i loro famelici occhi sulla mia persona: non vi fu tempo di estrarre alcuna arma, ché codeste bestie mi furono addosso; la cotta di maglia che i sovrani elfici mi avevano donato, tuttavia – e qui egli si inchinò in segno di rispetto, rivolto a Gil-Galad – impedirono alle fauci dei servi del Nemico di trafiggere le mie carni, sicché essi furono colti da rabbia e furore.

Disturbati dalle loro oscure meditazioni dai latrati e dalle grida, gli Úlairi accorsero nella sala ed ivi si resero conto della mia presenza; grande fu la loro ira e stupore, tali che esse non possono essere descritte in alcuna lingua dei Figli di Ilúvatar: tosto, Akhôrahil, che era stato tra i primi ad accorrere, mi riconobbe e pronunziò il mio nome: “È il Morluin! Siamo stati dunque scoperti, ché costui è un servo di Tar-Palantir”.

Sulle prime, Er-Mûrazôr non pronunziò parola alcuna, né parve visibile sul suo volto ira o furore; tuttavia, mossi alcuni passi nella mia direzione, egli mi fissò sì intensamente, che la mia mente fu ottenebrata e il mio corpo parve venire meno, eppure, non cedevo ancora; allora, avanzò e formulò un oscuro sortilegio, quale io non ripeterò alle vostre orecchie: egli, tuttavia, commise un errore, ché i mastini abbandonarono la loro presa, atterriti dalle oscene parole che si udivano riecheggiare nell’aria – nessuna bestia, infatti, può resistere al potere del Capitano dei Nove – ed io fui libero di afferrare nuovamente la mia lama; atterriti da una simile apparizione, i Nazgûl indietreggiarono mentre il loro capitano, seppur per un solo istante, abbassò lo sguardo per proteggere i suoi occhi dalla penetrante luce della mia lama.

Incoraggiato dal timore che gli Spettri provavano per la mia spada, avanzai di un passo, puntandola verso i loro volti incolleriti; più volte lessi ad alta voce l’iscrizione che essa recava sulla sua lama, finché il loro potere non fu spezzato ed io non fui libero di inerpicarmi nuovamente sulla balaustra”.

Su quanto accadde in seguito, sebbene il mio animo non l’abbia ottenebrato, io non pronunzierò parola alcuna, ché vi sono eventi che non è bene narrare alla luce del Sole, a meno che non la si voglia oscurare; cosa dirvi, infatti, di luoghi ove regna solo il terrore ed i pianti delle vittime si mescolano alle imprecazioni di crudeli aguzzini?

Fuggii ed essi mi erano dietro, né io mi volsi mai; pure udivo le loro oscene voci e l’eco dei loro passi affievoliva le mie forze; infine giunsi su di un’ampia terrazza, ché ero arrivato sulla sommità della torre: grande fu la mia disperazione allorché mi resi conto di aver intrapreso il percorso sbagliato!

Non indugerò ulteriormente sull’angoscia e sul dolore che si impadronirono in quel momento del mio cuore, ché non ne tollero il ricordo; pure, allorché ogni speme parve svanire, mi accorsi che vi era infine una via d’uscita; distante non più di cento passi, infatti, era una enorme voliera come ve ne sono nelle regge dei Signori degli Edain e degli Eldar: grande fu la mia meraviglia, tuttavia, allorché mi accorsi che in essa non era custodito che un unico possente uccello, simile ad una della Grandi Aquile, messaggere di Manwë.

Orrido era il suo sembiante ed esso aveva un solo occhio posto al di sopra del suo adunco becco; rade piume ne coprivano le carni ed esse erano olezzanti a causa del fetore che emanavano; codesto esemplare di crudeltà e ferocia intriso, non pago della mia presenza, si avventò sulle pareti della gabbia, tentando di spezzarne le robuste sbarre; con cautela, mi avvicinai a tale essere e gli parlai nel linguaggio degli Elfi, ché sapevo essere codesto compreso dalle bestie selvatiche; con sommo stupore e crescente preoccupazione, tuttavia, mi avvidi che codesto mostro non solo non comprendeva le mie parole, ma sembrava in preda ad una collera ben più feroce di quella precedente.

Esitai; tosto, i servi del Nemico sarebbero giunti alle mie spalle e mi avrebbero condotto dal loro Oscuro Signore, ove la mia mente ed il mio corpo sarebbero stati straziati dalla sua malizia; tuttavia, fu proprio tale pensiero a trarmi in salvo, ché, forse, tale creatura avrebbe compreso il linguaggio del suo padrone e si sarebbe piegata al mio volere e alla mia necessità.

Lentamente pronunziai alcuni vocaboli della lingua dei servi del Nemico e, meraviglia! Essa, pur non cessando di detestarmi e temermi, pareva essersi acquietata; senza porre alcuno indugio, allora, le saltai sul dorso, ché la gabbia non aveva soffitto alcuno e con un solo colpo della mia lama, tranciai la pesante, ma rozza catena che le stringeva il possente artiglio al suolo.

Imprecarono i servi di Mordor allorché si avvidero che la loro preda era sfuggita alla cattura, eppure non poterono nulla, ché non vi erano altre creature simili per darmi la caccia ed essi erano troppo lenti per seguirla a piedi; lungo fu, o amici, il mio volo, finché non raggiunsi i contrafforti di Umbar ed ivi costrinsi la mia perigliosa cavalcatura ad arrestare la sua corsa; abbandonatala al suo destino, entrai in città, ove riposai le mie stanche membra su un comodo giaciglio. Invero, i Valar vollero che io mi recassi ove mai nessuno era stato, sicché il volere dell’Uno si realizzasse, ché finanche un servo del nemico fu utile per conseguire il mio obiettivo, ed io mi avvidi, come altre volte era già accaduto, che i disegni dei servi di Morgoth non hanno altro motivo di esistere se non per recare maggiore gloria ad Eru Ilúvatar stesso e non già alla loro bieca volontà”.

Un fragoroso applauso si levò allora dai presenti ed essi presero ad elogiare il coraggio e l’astuzia del Dúnadan; molte voci si levarono allora, le une per congratularsi con il figlio di Gilnar, le altre per commentare stupite quanto la sua bocca aveva pronunciato».

Fine

Caccia ai Nazgul! (parte I)

Da questo articolo inizierò a descrivere quella che può essere definita l’avventura forse più epica di Erfea, quella che ha concorso più di ogni altra sua impresa a fargli ottenere il rango di eroe apprezzato da tutti i Popoli Liberi della Terra di Mezzo: la caccia alla fortezza dei Nazgul, nascosta nel profondo deserto dell’Harad meridionale, alla ricerca delle loro vere identità. Questa storia è nata prendendo spunto da una frase pronunciata da Gandalf nel corso del suo lungo resoconto al Consiglio di Elrond in merito al tradimento di Saruman: «Egli [cioè Saruman stesso] ha studiato a lungo le arti del Nemico stesso, permettendoci spesso, in tal modo, di precederlo. Fu grazie agli stratagemmi di Saruman che lo cacciammo da Dol Guldur. Egli ora aveva forse scoperto delle armi capaci di cacciare i Nove». [il corsivo è mio, NdA]

In realtà, come sa bene chi ha letto il Signore degli Anelli, di queste fantomatiche armi in grado di sconfiggere i Nazgul non se fa più alcun cenno: Saruman si dimostrerà un traditore doppiogiochista, e Gandalf non riuscirà ad apprendere nulla di utile nella lotta contro i più potenti servi del Nemico dallo stregone bianco. Ad ogni modo, la lettura di questa frase mi ha fatto venire in mente che, forse, in un’epoca più remota, altri avrebbero voluto apprendere qualcosa in più sui Nazgul, magari allo scopo di conoscere i loro eventuali punti deboli. E chi, meglio del paladino di Numenor, sarebbe stato in grado di correre un rischio così grande, dando la caccia agli spietati servi di Sauron? Quello che vi accingete a leggere è il resoconto di una parte del consiglio che si tenne ad Orthanc (o Isengard, se preferite) nell’anno 3429 della Seconda Era, al quale presero parte i sovrani e gli ambasciatori dei Popoli Liberi, riuniti in quel luogo per decidere quale soluzione sarebbe stata più efficace per combattere la minaccia dell’Oscuro Signore. Fra gli argomenti che vennero affrontati al suo interno, vi fu anche quello della pericolosa ricerca che Erfea intraprese allo scopo di svelare uno dei segreti più affascinanti e meglio celati della Terra di Mezzo: le identità segrete dei Nazgul.

Buona lettura!

«Durante il mese di Nárië[1] dell’anno 3429 della Seconda Era si tenne ad Orthanc, la possente fortezza edificata da Dúnedain a guardia della breccia del Calhenardon, un gran consiglio cui parteciparono tutte le Genti Libere della Terra di Mezzo, al fine di affrontare la minaccia di Sauron, ché essa non poteva essere più ignorata: come è noto, vi presero parte i capitani più illustri fra quanti i Figli di Ilúvatar potessero vantare a quell’epoca ed essi discussero a lungo della storia dell’Anello e del suo forgiatore.

Gil-Galad, il quale all’epoca era il Custode dei Tre Anelli degli Elfi, pur non svelandoli apertamente, giurò dinanzi a quanti erano presenti che essi sarebbero stati preservati dalla mano bieca e rapace di Sauron e che gli Elfi avrebbero preferito gettarli nelle profondità del Belagaer piuttosto che lasciare che l’Oscuro Signore se ne impossessasse; parimenti, coloro che erano della schiatta dei Naugrim, promisero solennemente sui loro padri che mai sarebbero caduti sotto il giogo del luogotenente di Morgoth, sebbene non rifiutassero di adoperare gli Anelli del Potere in quei giorni di terrore e disperazione, ché, essi erano soliti ripetere, “i nostri spiriti ed i nostri corpi sono stati forgiati nella fiamma di Mahal e cos’è la negromanzia di Sauron se paragonata ad essa?”

Del destino dei Tre e dei Sette molto si dibatté, ché non v’era certezza sul fato che avrebbe atteso questi allorché l’Unico fosse stato distrutto e quanto Sauron avesse creato con la sua mano fosse svanito nelle Ombre; pure, sebbene gli uni ritenessero che gli Anelli degli Elfi sarebbero sfuggiti alla rovina, ché mai la mano corruttrice di Sauron si era posata su di loro, pure non mancavano coloro che ritenevano il contrario, perché, sebbene Celebrimbor avesse lavorato ai Tre in completa solitudine, pure la sua conoscenza derivava da quella di Annatar ed ogni sua creazione era legata al volere di questi; ed invero, essi non mentivano come dimostrarono gli eventi che conclusero la Terza Epoca e cui abbiamo assistito, gli uni da spettatori, gli altri da protagonisti: tuttavia, poiché altrove si narra di questi eventi, qui non se ne trova traccia alcuna. Silenti, coloro che erano dei Figli Minori di Ilúvatar, ascoltavano, gli uni meravigliati dal resoconto di tali eventi, gli altri assorti nelle loro meditazioni; infine, allorché la voce di Gil-Galad tacque, Aldor, che era della schiatta degli eredi di Hador Chiomadoro, si alzò dallo scranno e levò la sua voce: “Ebbene, se mai queste storie siano state narrate ai mortali, pure essi non ne serbano memoria alcuna! Nondimeno, è stato detto che la mente degli Uomini è più lesta ad obliare, che ad apprendere, né sarò io a negare la veridicità di tale affermazione: tuttavia, sebbene molto si sia parlato e discusso dei Tre e dei Sette, è nel mio cuore e, credo, in quelli che sono della mia stessa stirpe, molta curiosità circa il destino dei Nove e di quanti si appropriarono di tali creazioni dell’Oscuro Signore di Mordor”.

Inquieti divennero allora i volti dei Signori degli Eldar ed Elrond prese la parola: “Quanto tu domandi, figlio del Nord, costituisce, invero, il prossimo capitolo della nostra storia; alcuni fra noi, infatti, rimembreranno che alcuni secoli or sono Erfëa, figlio di Gilnar, osò, a costo di grandi pericoli, addentrarsi nella fortezza degli Úlairi, occultata dalla sabbia dei deserti dell’Harad; pochi fra voi, tuttavia, conoscono quale era l’intento che spinse il Dúnadan in luoghi orribili a vedersi, ove mai la luce di Anor penetra; tuttavia, poiché io appresi di queste vicende molto tempo fa, ritengo che ad altri tocchi dire quanto accadde in quelle contrade”.

Lesti gli sguardi dei presenti caddero su Erfëa; stupore e meraviglia essi esprimevano, ché non credevano possibile per un mortale addentrarsi in una simile fortezza, ove finanche gli Elfi avevano tema di avventurarsi; solo Celebrían ed Elrond distolsero i loro occhi dal Dúnadan, ché erano gli unici a conoscere quali dolorosi ricordi fossero legati a tali vicende; infine, allorché cadde un grave silenzio ed ogni mormorio cessò, Erfëa si levò dal suo alto scranno e parlò:

“All’epoca in cui avvennero i fatti che ora esporrò innanzi a tutti voi,[2] un dubbio tornò a tormentare i miei sonni e la mia coscienza, sicché io non potetti ignorarlo; donde venivano gli Úlairi? A quali stirpi erano appartenuti allorché non erano ancora caduti sotto il giogo dell’Unico? A lungo indagai negli archivi di Númenor e delle dimore degli Elfi, eppure ben poco, salvo oscure allusioni, era contenuto nei polverosi tomi che pochi sapevano essere custoditi all’interno di tali aule e che ancor meno avevano mai letto; in essi si faceva menzione solo alla creazione dei Nove da parte di Celebrimbor e del suo desiderio di occultarli alla malizia di Sauron allorché costui si rivelò apertamente e pretese che i Noldor gli restituissero quanto era stato in parte frutto del suo oscuro intelletto e di come il discepolo di Morgoth si fosse impadronito di simili cimeli, dopo aver raso al suolo la cittadella di Ost-in-Edhil, molti secoli fa.

Quale fosse stato il destino dei Nove, allorché Celebrimbor fu trucidato dopo immani sofferenze, alcuna fonte sembrava poterlo rivelare; eppure, fra quanti erano del mio popolo, correvano voci secondo le quali tre grandi signori dei Númenóreani erano stati corrotti da Sauron molto tempo fa. Iniziai le mie ricerche ad Umbar, ché essa era stata la roccaforte degli Uomini del Re per molti secoli e non dubitavo che, se tali dicerie si fossero dimostrate vere, avrei trovato nei rotoli che costoro avevano stilato secoli prima quanto i miei occhi cercavano, ché essi sono invero crudeli ed ambiziosi, né temevano Sauron, ma anzi lo adoravano come fosse una divinità e ancora servono nei suoi eserciti; lunghe notti trascorsi senza prendere riposo alcuno nell’archivio di Umbar, ove, è bene non dimenticarlo, mi era giunta notizia della corruzione del luogotenente reale di tale città; sulle prime non vi feci molto caso, ché in quei giorni erano molti coloro che aderivano alla causa di Gimilkhâd ed io sapevo che egli era intento a radunare una grande armata per strappare lo scettro di Númenor dalle mani del fratello Tar-Palantir: tuttavia, codesto signore era imbelle e codardo, per cui non lo temevo affatto.

Una notte, mi imbattei casualmente in un’antica pergamena che attribuiva il feudo di Umbar alla maestà di Er-Mûrazôr, principe reale di Númenor e secondo figlio di Tar-Ciryatan; stupito, afferrai una copia dell’Elenco dei Sovrani dell’Isola, che, per decreto reale, era custodita in ciascuna delle colonie di Númenor, e con somma meraviglia mi accorsi che non si faceva alcun cenno a tale principe; reso inquieto da tale scoperta, riflettei a lungo su quale significato potesse avere ai fini della mia ricerca. Si trattava forse di una svista dello scrivano reale? Per quanto tale ipotesi potesse sembrare inverosimile, ero tuttavia costretto a verificarla; così, alle prime luci dell’alba, mi imbarcai su una nave diretta a Númenor; non lanciai messaggi di alcun tipo, ché credevo sarebbe stato più prudente condurre le mie ricerche in solitudine: giunto dinanzi al cancello dell’imponente edificio dell’Archivio Reale di Númenor, chiesi che mi fosse consegnato il Rotolo nella sua forma originale, ché sapevo essere ogni sua pagina firmata dai sovrani e dagli eredi, fossero essi di sesso maschile o femminile, che si erano succeduti sul trono di Númenor; non potevano esservi, dunque, errori su tali pergamene, ché, se ve ne fossero stati, i regnanti avrebbero ordinato che fossero corretti.

Con grande trepidazione svolsi il Rotolo sotto ai miei febbricitanti occhi, fin quando non ebbi la prova che a lungo avevo cercato: il nome di Er-Mûrazôr, infatti, era stato registrato, ma successivamente attraversato da una sottile linea rossa; sappiate, o amici venuti da contrade lontane, che tale procedura si applicava a Númenor allorché un principe veniva ripudiato dal trono”.

“Così era infatti – interloquì allora Elendil, figlio di Amandil – eppure mai alcun precettore fece menzione alle mie orecchie di una simile storia; quanto tu dici, invero, costituisce per me e per i miei figli motivo di grande sorpresa e sgomento”.

“Mio signore, invero quanto io ho appreso in quelle aule non è mai stato rivelato ad altri che non fossero Elrond e Celebrían, ché non era ancora giunta l’ora in cui simili eventi avrebbero dovuto essere rimembrati.

Grande fu la letizia che provai allorché compresi che il Rotolo non mentiva; pure, sulle prime, nuovi dubbi sorsero nel mio cuore; mi chiedevo, infatti, quale crimine avesse potuto riservare al principe Er-Mûrazôr una simile punizione”.

“Una grande colpa, senza alcun dubbio – interloquì Isildur, figlio ed erede di Elendil – ché solo gli assassini ed i fedifraghi sono marchiati con il vermiglio segno della vergogna eterna”.

“Veritiere sono le tue parole, Isildur, ché egli aveva dichiarato la sua indipendenza da Númenor e si era rifiutato di pagare il tributo annuo che le colonie di Endor dovevano al sovrano di Elenna; tuttavia, io questo lo scoprii in seguito.

All’epoca degli eventi che vi ho testé narrato, vi erano poche o punte testimonianze che potessero suggerirmi la colpa di cui questo principe si era macchiato; non sapendo cosa altro fare ed ignorando se esistessero storie riguardanti tale Uomo, aprii il mio cuore al sovrano, domandandogli se un tale nome gli fosse stato familiare; con orrore, tuttavia, notai che il suo viso impallidiva e che le sue mani tremavano; infine, egli parve calmarsi e mi parlò:

«Er-Mûrazôr? Perché domandi di Er-Mûrazôr?»

Esitai; in quel frangente, qualunque parola avessi adoperato, poteva rivelarsi fatale, sicché gli parlai del Rotolo del Re e di come avessi notato, casualmente, tale discrepanza tra la copia custodita ad Umbar e l’originale; allora egli parve calmarsi e la sua voce riecheggiò forte tra le volte della sala del trono: «Curioso che tu mi abbia posto una simile domanda, ché, invero, ben pochi sono a conoscenza di quanto mi accingo a narrarti». Lungo fu il suo racconto, sicché appresi quanto il mio cuore desiderava conoscere ed ebbi conferma della cattiva condotta che Er-Mûrazôr aveva esercitato nella gestione della colonia da lui conquistata con la forza delle armi.

Vi era, sebbene il sovrano si sforzasse di non darlo a vedere, un palese disagio nella sua voce, ché, forse, era riluttante a far cenno ad un antenato, sul quale, egli ebbe a confessarmi, si mormorava che praticasse le Arti Oscure di Mordor.

Sorrisi, poiché avevo infine individuato una traccia sulla quale basarmi per proseguire le mie ricerche; chiesi, dunque, se Er-Mûrazôr avesse avuto sepoltura a Númenor, oppure ad Umbar: a lungo il sovrano tacque prima di rispondermi, infine rivelò quello che era il suo pensiero, e non già quanto aveva appreso dai suoi precettori, affermando che egli doveva essere morto in terra straniera, poiché nessuno ne aveva mai recuperato il corpo e, parimenti, si era perduta ogni traccia dei compagni che erano con lui”.

Erfëa si interruppe per un istante, infine riprese a parlare: “Non so dire quanto il sovrano colse dei miei intenti, ché, anche negli anni successivi, non feci mai cenno dinanzi a lui di quanto avevo scoperto, per tema che tali rivelazioni potessero mettere in pericolo la sua persona e quella dell’erede al trono; dopo tale conversazione, dunque, feci ritorno alla Terra di Mezzo, ove ripresi le mie ricerche ad Umbar, mostrando, tuttavia, molta cautela, perché capivo essere quella una strada pericolosa da percorrere.

Null’altro trovai nell’archivio della città, ché erano passati molti secoli da allora e nulla era rimasto a testimonianza dei tempi remoti; pure, iniziai a comprendere di seguire la giusta direzione, ché, sebbene non fosse nelle mie possibilità recuperare il corpo del principe, pure era probabile che la sua scomparsa fosse da attribuire ad altre cause che non a quelle di un improvviso e fortuito decesso.

L’unica traccia sulla quale potevo basarmi, tuttavia, era la pergamena nella quale veniva ceduto il feudo di Umbar a Er-Mûrazôr; molte volte la rilessi, sperando che mi rivelasse qualcosa che la luce del giorno era impossibilitata a mostrarmi; pure, grande fu la mia sorpresa, allorché alcune sere dopo, mentre poggiavo la mia sacca sullo spoglio tavolo della sala ove io mi trovavo, il mio sguardo non cadde su di un oscuro messaggio, ché a lungo avevo preservato tra i miei effetti personali; doloroso fu per me rileggerlo, ché esso rievocava in me dolorosi ricordi, legati alla mia giovinezza[3] – ed egli qui si fermò, come se un’improvvisa oscurità fosse calata su di lui – tuttavia, rimpiansi di non averlo tenuto prima in considerazione: il testo, che il mio sguardo aveva colto, infatti, era stato vergato dalla medesima mano che aveva sottoscritto l’atto di cessione.

Stupore misto ad ebbrezza si impadronì allora del mio animo, ché compresi essere Er-Mûrazôr implicato negli oscuri complotti che si erano tenuti allorché era ancora sovrano Ar-Gimilzôr e Palantir non era che l’erede di un trono vacillante; rapidi, allora, baluginarono nella mia mente immagini e parole legate a quell’evento lontano nel tempo e nello spazio, sicché ricordai volti a me ignoti e che pure avevano provocato nel mio cuore grande paura”.

“Devono essere stati, allora, eventi degni di essere ricordati – interloquì Oropher, sovrano degli Elfi che vivevano a Nord – ché mai mi è parso di ricordare Erfëa Morluin indietreggiare dinanzi ad un avversario o ad un pericolo”.

Vi era del sarcasmo nella voce del Sindar, tuttavia Erfëa così gli rispose: “È vero; eppure, Oropher, è stato detto che neppure i Signori degli Eldar possono resistere al potere del Signore dei Nove, ed io avevo ragione di credere che egli fosse stato quell’uomo che si era erto innanzi a me. Dopo tale rivelazione, mi sovvenne che egli non era solo, ché era accompagnato da altri due individui; di uno, Akhôrahil, conoscevo il sembiante, mentre della donna che era con lui nulla sapevo; a lungo riflettei su tali elementi, finché non compresi che costoro potevano essere i tre signori númenóreani di cui si diceva fossero stati irretiti da Sauron; di Akhôrahil, infatti non v’era alcuna traccia nei Rotoli del Re e nessuno sapeva dire donde provenisse.

Incoraggiato da tali promettenti sviluppi, mi recai da un mercante di Umbar: egli aveva nome Draphis ed aveva sangue haradrim nelle vene; non era tuttavia crudele, anzi mi aveva offerto la sua amicizia e sovente deliziava il mio animo, raccontandomi delle leggende e dei canti che aveva udito in contrade remote; allorché mi presentai dinanzi al suo cospetto, gli mostrai la pergamena che un dì ormai remoto avevo recuperato dalla dimora dei principi del Mittalmar, ché egli mi rivelasse da quale contrada provenisse, dal momento che era esperto delle mercanzie straniere.

A lungo tastò con fare esperto la superficie resa ormai imbrunita dal tempo e dall’incuria cui l’avevo sottoposta, infine pronunciò il suo verdetto:

«O principe dei Númenóreani, codesta pergamena non proviene dalle contrade dell’occidente, bensì dalle città della mia patria».

Era chiaro che un Vala, forse Manwë stesso, aveva decretato che la mia cerca dovesse aver successo, sicché pregai il mio compagno di condurmi in quelle contrade: con gioia accettò costui, ché da molto desiderava far ritorno alla sua dimora, ed egli si prodigò di farmi da guida in quelle perigliose contrade, di cui molti hanno sentito parlare, ma che pochi hanno osato mirare con i propri occhi e ancor meno hanno avuto la sorte di poterle descrivere ai propri congiunti.

Sappiate, amici, che ivi si ergono antichi palazzi, le cui mura sono rischiarate da immensi bracieri che ardono da mane a sere, nonostante il Sole illumini quelle terre per molte ore al dì; maestosi minareti sovrastano ampi cortili, ove si aggirano bestie esotiche, fra cui riconobbi solo il temuto mumakil, che alcuni fra noi chiamano olifante.

Non vi sono solo sabbia ardente, né guerrieri sprezzanti della vita e dell’onore in quelle contrade, ché io vidi Uomini coraggiosi e leali e la mia guida mi salvò la vita in più di una occasione; lento fu il viaggio, ché, sebbene molte ed ampie siano le strade che attraversano codesta regione, pure esse sono sovente abbandonate all’incuria, sicché impiegammo circa quattro settimane per giungere a Khatiza, la fiorente capitale dell’Harad”.

S’interruppe per un istante, mirando il Sole che era prossimo ad immergersi nei profondi flutti dell’oceano, indi riprese a parlare: “Se anche avessi il tempo di Valinor, pure non potrei raccontare tutte le vicende che vissi in quella straniera terra, ché ben m’avvedo essere questo solo un capitolo di una più vasta storia; vi basti sapere, dunque, che giunto a tale cittadina, fummo bene accolti dal governatore locale, il quale non aveva alcuna intenzione di porre Númenor contro il suo impero fiorente, sicché fui libero di poter indagare a mio piacimento, sebbene impiegassi qualche tempo per apprendere la lingua e le usanze del luogo.

Infine, allorché era trascorso un mese dacché mi ero stabilito nell’Harad e la gioia iniziale aveva lasciato lo spazio alla delusione, mi avvidi che vi erano alcuni fra i pastori di gregge che lamentavano la perdita dei loro più pregiati capi di bestiame; stupito, per un oscuro presentimento domandai loro chi avesse compiuto tali furti e questa fu la risposta che essi pronunciarono alle mie orecchie:

«O possente Thundan[4], se le storie che si raccontano dinanzi ai bivacchi notturni sono veritiere, è possibile che esse siano state sottratte da coloro che noi chiamiamo i servi del dragone».

Sulle prime, attribuii una tale dichiarazione alla fervida immaginazione degli Haradrim, ché, se vi fosse stato un drago in quelle contrade, allora egli avrebbe preferito dirigersi su Khatiza, anziché accanirsi sulle misere greggi dei pastori della sabbia; pure, rimembrai che i guerrieri di Akhôrahil erano soliti adoperare usberghi di maglia ed elmi sui quali era impresso il simbolo di un dragone dorato; compresi, allora, di aver intrapreso il giusto sentiero, sicché domandai loro ove credevano fossero edificate le dimore dei servi del drago.

Con stupore essi mi osservarono ed invero, devo essere apparso un folle al loro sguardo; infine, il più anziano fra loro così mi rispose:

«Nessuno fra noi si è recato in quelle maledette sale, ché la luce del Sole non vi fa mai il loro ingresso, né, si narra, vi siano solo guardiani mortali a custodirne l’ingresso».

Annuì, infine sospirai profondamente, ché non sapevo come comportarmi: da un lato, infatti, avevo premura di raggiungere la fortezza quanto prima ed abbisognavo ancora dei servigi della mia guida; dall’altra, invece, temevo che avrei condotto me e lui ad una triste sorte: infine, gli domandai di procurarmi quanto servisse per un viaggio lungo e periglioso, ché intendevo recarmi ove erano gli uomini del drago.

Inutilmente Draphis tentò di dissuadermi, ché io vidi il terrore nei suoi occhi ed egli era divenuto pallido come il latte appena munto; infine egli acconsentì, seppure a malincuore, e mi concesse quanto gli avevo richiesto, sicché all’indomani fui pronto per recarmi ove nessuno avrebbe avuto il coraggio di addentrarsi».

Fine I parte – continua

Note

[1] Giugno, nella lingua dei Noldor

[2] Nel 3170 S. E. Erfëa aveva compiuto 63 anni.

[3] Si veda anche “Il Racconto del Marinaio e del Messere di Endórë”.

[4] Contrazione e deformazione dell’elfico “Dúnadan”.

L’oscura ambasciata di Sauron

Il dialogo fra Gandalf e la Bocca di Sauron – come avrà compreso chi ha letto il mio ultimo contributo (Nessuno tocchi la Bocca di Sauron! L’importanza del fairplay e delle leggi nelle opere tolkieniane) – è uno dei passaggi che più ho apprezzato del «Signore degli Anelli», non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche da quello stilistico, per il continuo «batti e ribatti» che si instaura tra i due contendenti verbali. Come avevo anticipato in quella sede, vi presento un brano tratto dal racconto del «Marinaio e della Grande Battaglia» nel quale ho voluto riprendere lo scontro verbale e diplomatico avvenuto sulle soglie del Nero Cancello, alla fine della Terza Era, ambientandolo invece ai tempi dell’Ultima Alleanza, quando Elfi, Uomini e Nani si unirono per contrastare i piani di conquista dell’Oscuro Signore. Questa scena è ambientata poco dopo il massacro degli Elfi Sindar e Silvani guidati da Oropher e Amdir, ragion per cui consiglio di leggere (o di rileggere) l’articolo Oropher o del cattivo Fato degli Elfi

Il brano, inoltre, contiene un importante indizio per comprendere quale sarà l’argomento del mio prossimo articolo…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Inquieti erano gli animi dei comandanti dell’Alleanza, ché essi non avevano ricevuto alcun messaggio proveniente da Oropher, né avrebbero potuto ignorare i motivi per i quali le missive tardavano a giungere; cinque giorni erano trascorsi dacché Oropher e le sue schiere avevano abbandonato gli accampamenti invernali, allorché le vedette avvistarono un corteo di cavalieri giungere dinanzi alle porte delle loro dimore; speranzosi in volto, i condottieri dell’Alleanza si fecero loro incontro, ma tosto i loro visi furono distorti dallo disgusto e dall’odio.

Un cavaliere avanzava verso i Signori dell’Occidente, attorniato da mostruosi cani da combattimento e orchi dallo sguardo bieco; lesti, i capitani delle libere genti posero mani alle loro armi, tuttavia i loro intenti furono frustati allorché fu innalzata una bandiera bianca, segno che codesta era un’ambasciata dell’Oscuro Signore; baldanzosa avanzava la sinistra figura sul suo nero destriero ed essa sembrava farsi beffa dei suoi nemici; sconosciuto era il suo sembiante a Gil-Galad e ad Elendil, eppure Erfea non aveva obliato quanto aveva appreso allorché, molti anni addietro, era riuscito a penetrare nella fortezza dei Nazgul, occultata nelle remote piane dell’Harad; lesto allora si approssimò al suo signore Anarion e pronunziò simili parole: “Questi è Dwar di Waw, Terzo in Possanza fra gli Ulairi; Signore dei Cani lo chiamano i suoi accoliti ed i segugi che lo circondano ringhiando sommessamente sono la sua laida prole”. Annuì lentamente il figlio minore di Elendil, ché mai aveva mirato uno degli spettri dell’anello ed invero possente era quel giorno la figura del Comandante dell’armata di Udun, sicché egli incuteva timore in quanti lo miravano.

A lungo l’unico suono che si udì fu il sommesso latrare dei segugi del Nazgul, infine, costui, rivelando apertamente il suo disprezzo per i suoi interlocutori, posò uno sguardo terribile a sostenersi su ognuno di loro e parlò:

“Costoro sarebbero dunque gli sfidanti del mio glorioso signore? Chiunque, osservando i loro cenciosi stracci elfici e i loro miserevoli usberghi di maglia potrebbe credere che essi non siano altro che dei ladri appropriatisi delle ricchezze lasciate incustodite da qualche ricco e sciocco signore!

Ben m’avvedo come nei vostri sguardi si celi la volontà di trucidare me e quanti compongono il mio seguito, sicché la vostra codardia possa sembrare inferiore e la gente possa dire, stupefatta, che essi hanno sconfitto uno fra i capitani di Sauron il Dominatore della Terra di Mezzo; ebbene, io non mi opporrò certo, se codesta sarà la vostra volontà! Trucidateci pure, ché non rechiamo armi con noi, ma solo parole sagge; eppure, sopravverrebbe in voi terribile vergogna, se tale desiderio dei vostri animi fosse realizzato, ché conosco bene le vostre leggi ed esse vietano di levare le armi verso coloro che, disarmati, giungono innanzi alle dimore dei Signori dell’Occidente”.

Rise, ed orribile fu ad udirsi tale suono, sicché molti, all’interno degli accampamenti, si coprirono le orecchie con le mani, desiderando che gli stranieri tosto si allontanassero; pure, i cuori dei comandanti dell’Alleanza non vennero meno ed essi non tremarono dinanzi al servo di Mordor; Erfea prese dunque la parola e tale fu la sua risposta al crudele spettro:

“Alcuni fra noi, Dwar di Waw, potrebbero affermare che la parola sia di per sé un’arma temibile, ché essa scuote gli animi di coloro che le prestano ascolto; nulla hai tuttavia da temere dalle nostre persone, sin quando la bandiera bianca del tuo schiavo resterà ritta, ché nessuno dei tuoi falsi pensieri ha corrotto il nostro cuore, né la parola di uno degli schiavi di Sauron è temuta in tale luogo! Parla, dunque, se tale desio soddisfa la tua sconcia volontà; sappi tuttavia che non vi sarà alcun tuo gesto o affermazione che possa costringere i voleri di quanti ti contrastano a venire meno al giuramento stretto due anni or sono!”

Lesto si posò lo sguardo del Nazgul sul Sovrintendente di Gondor e parve a tutti che sul suo volto si leggesse incredulità e timore; infine egli rise nuovamente e ostentò il suo disprezzo per colui che aveva parlato:

“Sei dunque tu il portavoce di questi folli, Morluin? Non credere che io sia sorpreso, ché l’eco delle tue stolte azioni è giunto sino a Barad-Dur ed esse non costituiscono per me motivo di meraviglia”.

“Se tale è il tuo parere, servo di Sauron, per quale motivo hai abbandonato la fortezza del tuo padrone? Non dubito che sia giunto in tale luogo per compiere qualche azione abietta, eppure non vedo cosa tu possa domandare a coloro che hanno giurato di sterminare tutte le armate di Mordor”.

Rise ancora una volta il Signore dei Cani, e sul suo volto era visibile soddisfazione, quasi che avesse desiderato ardentemente che gli fosse rivolto un tale quesito; infine rispose e lo stridio della sua lugubre voce fu udito per molte miglia intorno:

“Domandare? Molta pazienza il mio glorioso signore ha dimostrato, accogliendovi, armati, nella sua dimora, eppure vi sono stati alcuni fra voi che hanno insudiciato la sua contrada, osando condurre la guerra sino alle sue porte; egli, tuttavia, è invero uno spirito lungimirante e magnanimo, né gradirebbe che le cenciose schiere di coloro che chiamano sé stessi Signori dell’Occidente possano trovare una indegna morte per mano di coloro che non furono saggi a sufficienza da comprenderne gli scopi. No, figlio di Gilnar, il Re del mondo non ha nulla da domandare a coloro che impunemente lo contrastano; sì grande è stata tuttavia l’offesa che egli ha subito, ché io sono stato inviato presso di voi per mostrare cosa accade a chi commette azioni malvagie”.

Attoniti, i condottieri dell’alleanza lo videro scagliare un triste fardello nella cupa notte e ascoltarono parole di odio e sarcasmo intrise: “Se l’ospite incauto oblia cortesia e onore, riceverà un trattamento adeguato alla sua scelleratezza”.

Lesto gli rispose tuttavia Erfea:  “Se il tuo signore spoglia l’ospite di ogni suo bene, sappia allora che la sua ingordigia si dimostra maggiore della sventura che colpisce chi, per sorte o per follia, calpesta le sue oscure contrade”.

“Non sprecare parole con il Nazgul, numenoreano! Sauron non mi ha condotto innanzi a voi per mostrarvi quanto sia grande il suo potere, ché qualunque brigante proveniente dalle vostre contrade potrebbe consegnare la testa del proprio nemico vinto a coloro che ne compiangerebbero il triste fato! Il Signore di Endor desidera che i vostri occhi possano, invece, scorgere quanto grande sia la sua pietà, ché se non siete stati ancora trucidati lo dovete solo alla sua infinita pazienza; ritirate dunque i vostri eserciti e non una freccia, né una lancia si leveranno contro le vostre carni; rifiutate e nessuno fra voi scorgerà la luna sorgere nel prossimo plenilunio!”

Crudele fu il riso di Dwar e cupi i latrati delle sue fiere; tosto, allora, egli si allontanò, avendo soddisfatto la missione che il suo signore gli aveva comandato; non aveva, però, percorso che pochi passi, allorché una lancia vibrò alle sue spalle, andando a conficcarsi nell’asta che il suo bieco accolito reggeva nella grinfia; stupefatto, egli si voltò e ascoltò la chiara voce di Aldor Roch-Thalion librarsi nell’aria: “Riferisci al tuo padrone, schiavo di Mordor, ché gli eserciti dell’Alleanza si ritireranno solo quando la sua oscura torre sarà rasa al suolo ed egli avrà trovato un destino di morte; sei ancora un ambasciatore e non posso trafiggerti con la mia lama: valga perciò come monito per coloro che sostengono la tua bieca causa quanto il mio poderoso braccio ha compiuto innanzi a te. Allontanati dunque, e non darti pena di estrarre il mio giavellotto dall’asta del tuo servo, ché sarà mia premura recuperarlo di persona!”

Furente, Dwar si voltò e pronunziò tali parole di commiato: “E sia! Se i vostri voleri guerrafondai desiderano la pugna, allora soddisferemo i vostri insani desideri!” e lanciata una maledizione nella lingua degli schiavi di Mordor, si lanciò alla carica, seguito dai suoi accoliti».