Caccia ai Nazgul! (parte II)

Proseguo la narrazione della ricerca, da parte di Erfea, della roccaforte dei Nazgul iniziata in Caccia ai Nazgul! (I parte) . Riuscirà il paladino di Numenor nel suo intento?

Buona lettura!

«Baluginarono gli occhi di Amdír, infine egli espresse il suo pensiero ad alta voce: “Questo dunque accadde! Bussare al cancello della cittadella degli Úlairi deve essere stata pura follia, come chiedere udienza a Sauron in persona!”

Sorrise Erfëa, indi riprese a narrare: “Amdír, parli di luoghi ove mai il tuo popolo si è recato, se paragoni la fortezza dei Nazgûl a quella di Sauron, ché nessuno fa ritorno dalla seconda, se non chi è esecutore della volontà dell’Oscuro Signore di Mordor. Quanto a me, non fu la follia a spingermi in tale contrade, bensì la necessità di comprendere quanto era ancora sconosciuto ai Saggi.

Viaggiai a lungo diretto a levante, occultato dalle dune di sabbia e roccia che si ergevano ovunque posassi lo sguardo; infine, dopo due settimane, giunsi ove pochi mortali avevano posato i propri occhi: una grande fortezza si ergeva dinanzi a me, cinta da robuste mura.

Guardando in basso, scorsi una lenta processione di uomini ricoperti di pesanti drappi condurre pesanti orci all’interno del cancello, il quale era protetto da imponenti guardie; esitai, ché non sapevo come introdurmi in tale luogo ed inadatti mi parevano gli abiti con i quali ricoprivo la mia carne alla malizia dei servi di Akhôrahil; infine, sceso lungo il pendio sabbioso che mi separava dalla strada che conduceva alle oscure aule, tramortii uno dei portatori e, lesto, mi impadronii delle sue vesti e della sua mercanzia, avendo cura di nascondere Sulring allo sguardo dei guardiani.

Accurato mi parve il piano, sicché mi diressi senza esitazione alcuna ove era mia intenzione recarmi; giunto dinanzi all’imponente cancello, tuttavia, avvertii una grande fitta e una intollerabile nausea prendere le mia membra, ché, mi resi conto essere veritiere le parole che l’anziano pastore aveva pronunciato quella sera, ché non vi erano solo sentinelle mortali a guardia dell’ingresso: sforzandomi di non cedere, vidi che ai miei fianchi erano poste due mostruose statue, le quali procuravano panico in chiunque avesse osato mirarle; non era però la fattezza di tali sculture ad atterrire il mio spirito, ché vi era qualcosa che si agitava in loro, forse un servo di Morgoth condannato dalla negromanzia di Sauron a risiedere per sempre in una simile dimora.

Non potevo più avanzare, né indietreggiare, sicché temevo che le sentinelle avrebbero potuto accorgersi della mia palese sofferenza: allora afferrai l’elsa della mia lama, deciso a morire da guerriero, piuttosto che da schiavo, eppure, quale non fu la mia sorpresa allorché mi avvidi che ogni dolore era cessato e che la resistenza dei guardiani era vinta.

Avanzai, allora, finché non oltrepassai il pesante cancello e l’oscuro barbacane e giunsi in un ampio piazzale ove gli Uomini che erano con me si accingevano a scaricare le proprie merci: un imponente soldato scortava un anziano sacerdote, la cui livrea mi rivelò essere un adepto del culto di Morgoth, affinché costui prendesse nota di quanto gli schiavi recavano seco; lesto, allora, abbandonai il mio sacco e mi diressi ove era un uscio socchiuso; apertolo cautamente, percorsi l’ampia sala che esso occultava, sulle quali pareti erano posti arazzi del quale contenuto, pur non avendolo obliato, pure preferisco non farne parola alcuna: grandi cataste di armi erano sparse sul pavimento, sicché credetti essere codesto un luogo ove avevano sede gli allenamenti e le esercitazioni militari di quanti servivano nella fortezza; non osavo introdurmi ove mai hanno udito gli idiomi elfici se non sotto forma di preghiere e di urla, ma temevo che sarei stato alfine costretto a ritirarmi se avessi indugiato ove mi trovavo.

Dopo lungo esitare, sguainai la mia lama, Sulring di Gondolin e osservai con meraviglia che emanava una debole luce; spostandomi casualmente ove erano appese le armi del nemico, mi avvidi con grande stupore che l’intensità della luminosità della lama aumentava, sicché compresi essere quella una spada come ne forgiavano un tempo gli Eldar; incoraggiato da tale scoperta, puntai allora la spada in direzione di uno dei corridori ove mi sembrava l’aria diventasse più fetida ed oscura e, con mia somma soddisfazione, scorsi Sulring emanare una grande luce: seguii dunque il percorso che essa mi indicava ed attraversai ampi saloni deserti e negri corridoi, finché al termine del mio peregrinare non giunsi dinanzi ad una balaustra; avendo riposto la spada nel fodero, ché essa ormai emanava una luce troppo possente e poteva essere scorta da altri che non fossero i miei occhi, mi sporsi con cautela al di là di essa”.

Fece una pausa, infine sospirò profondamente, come se ciò che stesse per narrare si preannunciasse invero troppo orribile da ascoltare:

“Fu allora che io vidi, rischiarato dalla tremula luce di oscuri candelabri, un ampio tavolo, come se ne trovano talvolta nelle nostre dimore; dieci scranni erano allineati ad esso, sicché su ogni lato maggiore ve n’erano quattro, e solo uno su quello minore; non ebbi tempo per elaborare congettura alcuna, ché scorsi aprirsi lentamente un uscio, prima invisibile ai miei occhi; allorché mi fu possibile mirare chi aveva fatto il suo ingresso nella sala, mi avvidi che egli era un possente guerriero, adorno delle medesime armature indossate dai capitani delle genti del Khand. Sfregiato era il volto dell’uomo, come se egli avesse subito un duro colpo in combattimento; una profonda cicatrice si inoltrava dall’altezza della tempia fino alla mascella ed egli sembrava in preda a grande furore: una volta che ebbe preso posto, mi avvidi che innanzi a lui si apriva un secondo uscio dal quale fece il suo ingresso un altro uomo, di cui parimenti mi era sconosciuto il sembiante.

Colui che si era seduto dinanzi al primo guerriero, indossava una veste color del fuoco, sulla quale erano ricamate rune malefiche; ignoro cosa esse recitassero, ma, allorché il mio sguardo si posò su di esse fui nuovamente preso da nausea e vertigini, sicché, lesto, volsi altrove i miei occhi e mirai una terza persona fare il suo ingresso nella vasta sala; costei era una dama di indicibile bellezza, simile alle donzelle elfiche di cui narrano gli antichi canti; familiare mi era tuttavia il suo volto e la sua corvina capigliatura. A lungo riflettei, finché non reputai essere codesta donna colei che un tempo avevo osservato dinanzi alla dimora dei principi del Mittalmar: una lunga veste violacea ne ricopriva le carni ed ella indossava, come un tempo era solito essere, un diadema intorno al capo.

Lentamente, ella si sedette al suo scranno, senza pronunziare parola alcuna; allorché la dama ebbe prese posto, si aprì un sesto uscio e ne venne fuori un imponente uomo, alto sette piedi o forse anche più, rivestito di rozze pelli di animali e di bronzo: non recava su di sé ornamenti che non fossero una spenta spilla con la quale aveva fissato un pesante manto verde sulle sue poderose spalle ed una collana di smeraldi, appena visibile sul suo taurino collo.

In seguito, attraverso la medesima procedura che ho testé descritto, fecero il loro ingresso nella sala altri due Uomini; grande fu la mia sorpresa e soddisfazione allorché scoprii essere uno Akhôrahil, ché, sebbene egli avesse mutato abbigliamento e indossasse ora una cotta di maglia dorata ed un lungo mantello rosso, pure io ne riconobbi le bieche fattezze; ignoto, invece, mi era il sesto uomo, ché egli era abbigliato con vesti simili a quelle che indossano i Signori degli Haradrim, mentre sul capo aveva una pesante corona d’avorio ed essa era stata modellata a guisa del volto di un mumakil.

Nessuno di questi Secondogeniti pareva accorgersi di quanti erano con loro in quel momento, né essi rivolgevano l’un l’altro cenno o parola alcuna; ancora una volta, due porte furono spalancate ed esse lasciarono posto a due nuovi uomini; il primo era abbigliato di una lunga veste, il cui colore era indecifrabile a vedersi, ma sulla quale erano chiaramente distinguibili, finanche dalla posizione in cui ero, rune malvagie ed altri segni a me ignoti: costui era calvo e non recava con sé alcuna arma, eccetto un lungo pugnale che talvolta faceva capolino fra le sue vesti; due mostruosi segugi erano ai suoi fianchi ed essi erano fra le bestie più orribili che io avessi mirato sino a quel momento.

Il secondo Uomo, invece, era palesemente un guerriero, ché indossava una corona in oro massiccio, adorna di cinque gemme quali mai i miei occhi avevano scorto fino a quel dì; al suo fianco era cinta una possente scimitarra ed un arco di tasso gli pendeva sulle spalle.

Non appena anche quest’ultimo sovrano si fu accomodato, una nona porta si aprì e, con mio sommo orrore e crescente inquietudine, fui colto dal panico e da una forte fitta al capo; tuttavia, ero ormai avvezzo a simili esperienze, sicché posi subito mano all’elsa della mia lama e in breve tempo ritornai padrone dei miei pensieri e guardai nuovamente in basso: un possente signore si era ora approssimato al tavolo ed egli rivolgeva silenti cenni di saluto ai suoi camerati; questi, invece, gli si prostrarono innanzi, sicché compresi essere costui il loro capitano.

Alto e bello era il suo sembiante, ed egli indossava una veste nera, mentre le sue spalle erano cinte da una cappa argentata: grande fu la mia sorpresa, tuttavia, allorché mi accorsi che egli indossava un elmo quale mai nessuno della mia stirpe avrebbe potuto obliare”.

“Di quale cimelio parli, figlio di Gilnar? – domandò Elendil – Invero, ché lo leggo nel tuo sguardo, deve essere stato un oggetto assai prezioso”.

“Così è, o re, ché esso era l’elmo un tempo appartenuto a Tar-Ciryatan, re di Númenor secoli or sono; egli era davvero Er-Mûrazôr, ché solo l’erede del sovrano avrebbe potuto reclamare una simile reliquia dei tempi remoti, quando Númenor non era ancora stata sommersa e Sauron dormiva ad Est.

A questo punto, amici, la mia cerca poteva dirsi conclusa, in quanto avevo accertato essere Er-Mûrazôr sopravvissuto ai limiti mortali che Ilúvatar ha imposto ai Secondogeniti e, sono certo concorderete con me, l’immortalità è procurata ai mortali solo dai Grandi Anelli e non già da altri sortilegi”.

A lungo rifletterono coloro per i quali questo resoconto risultava nuovo, infine Círdan, che era della schiatta dei Sindar, si levò dal suo scranno e chiese la parola:

“I Saggi non mettono in dubbio che codesto Uomo sia perdurato nei secoli e che serva uno scopo malvagio; eppure, tu stesso hai rivelato essere tali esseri ammantati di spoglie mortali e non già mostratisi ai tuoi occhi quali spettri immondi a vedersi; puoi forse dare prova di aver veduto gli Úlairi nella forma in cui essi sono soliti mostrarsi a coloro che li contrastano?”.

“Círdan del Lindon, quanto tu domandi troverà giusta risposta nelle parole che la mia bocca deve ancora pronunziare; allorché, infatti, il figlio minore di Tar-Ciryatan ebbe preso posto innanzi a me, essi mutarono improvvisamente forma, mostrandosi come creature la cui carne non era più visibile; un canto intonarono allora ed oscene mi parvero le parole che essi pronunziavano; infine, proprio quando iniziavo a credere che avrei smarrito il senso, il canto ebbe fine e mi avvidi che costoro erano ritornati alla loro forma primigenia.

A lungo fra i Nove – ché, ormai, non mi sembra più possibile possano esservi dubbi sulla loro vera identità – regnò il silenzio; infine colui che aveva preso posto per ultimo, levatosi dal suo scranno parlò:

“Ûvatha, Ren, Adûnaphel, Hoarmûrath, Akhôrahil, Indûr, Dwar e Khamûl, vi ho convocati perché possiate prendere visione di quanto il nostro Signore, il Padrone della Sorte, ha decretato che debba accadere; egli è palesemente soddisfatto delle vostre conquiste e si duole alquanto di non poter presenziare tale consiglio, ché gravi impegni lo trattengono a Barad-Dûr; tuttavia, poiché io ricevetti il primo fra gli Anelli – e dicendo questo, lo sollevò in alto, affinché tutti potessero vederlo – ha incaricato me di prenderne le funzioni.

A lungo discorsero i Nazgûl, ora parlando nelle favelle degli Uomini, ora in quella che io credetti essere la lingua oscura di Mordor; infine, allorché furono trascorse quattro ore, essi si ritirarono nelle proprie sale, lasciando, incustodito sul tavolo, un voluminoso tomo; incuriosito e credendo essere solo, mi calai dalla balaustra, e posi le mie mani su quello che si rivelò essere un cimelio non meno prezioso dell’elmo dei Re degli Uomini”; detto questo, Erfëa posò, sotto lo sguardo attonito dei presenti, un libro avvolto da una nera pelle: oscure scritte ne ornavano la superficie, eppure essi, pur non comprendendole, ne furono atterriti.

“Círdan, e voi tutti amici, non credo che abbisogniate di altre prove che non sia questa che ho testé presentato innanzi a tale consiglio; questo, infatti, altro non è che il medesimo tomo che sottrassi ai Nazgûl nella loro dimora”.

Stupito, Aldor così gli si rivolse: “Erfëa, possiedi invero uno spirito dotato di lungimiranza e coraggio quali pochi fra gli Uomini possono vantare di avere! In nome dei Valar, come sei fuggito da un luogo sì maledetto?”

A lungo Erfëa ristette in silenzio, come se il ricordo gli arrecasse il medesimo dolore che un tempo tali eventi avevano inflitto alle sue carni; infine parlò e gli sguardi di tutti erano su di lui:

“Non vi era alcuno nella sala, o così mi parve essere; mi fu sufficiente sfogliare il tomo per comprendere quali contenuti celasse, ché alcune pagine erano scritte in Adûnaico ed io le comprendevo; tuttavia, ebbro del trionfo com’ero, non mi accorsi che i segugi di Dwar erano apparsi da un invisibile pertugio e avevano posato i loro famelici occhi sulla mia persona: non vi fu tempo di estrarre alcuna arma, ché codeste bestie mi furono addosso; la cotta di maglia che i sovrani elfici mi avevano donato, tuttavia – e qui egli si inchinò in segno di rispetto, rivolto a Gil-Galad – impedirono alle fauci dei servi del Nemico di trafiggere le mie carni, sicché essi furono colti da rabbia e furore.

Disturbati dalle loro oscure meditazioni dai latrati e dalle grida, gli Úlairi accorsero nella sala ed ivi si resero conto della mia presenza; grande fu la loro ira e stupore, tali che esse non possono essere descritte in alcuna lingua dei Figli di Ilúvatar: tosto, Akhôrahil, che era stato tra i primi ad accorrere, mi riconobbe e pronunziò il mio nome: “È il Morluin! Siamo stati dunque scoperti, ché costui è un servo di Tar-Palantir”.

Sulle prime, Er-Mûrazôr non pronunziò parola alcuna, né parve visibile sul suo volto ira o furore; tuttavia, mossi alcuni passi nella mia direzione, egli mi fissò sì intensamente, che la mia mente fu ottenebrata e il mio corpo parve venire meno, eppure, non cedevo ancora; allora, avanzò e formulò un oscuro sortilegio, quale io non ripeterò alle vostre orecchie: egli, tuttavia, commise un errore, ché i mastini abbandonarono la loro presa, atterriti dalle oscene parole che si udivano riecheggiare nell’aria – nessuna bestia, infatti, può resistere al potere del Capitano dei Nove – ed io fui libero di afferrare nuovamente la mia lama; atterriti da una simile apparizione, i Nazgûl indietreggiarono mentre il loro capitano, seppur per un solo istante, abbassò lo sguardo per proteggere i suoi occhi dalla penetrante luce della mia lama.

Incoraggiato dal timore che gli Spettri provavano per la mia spada, avanzai di un passo, puntandola verso i loro volti incolleriti; più volte lessi ad alta voce l’iscrizione che essa recava sulla sua lama, finché il loro potere non fu spezzato ed io non fui libero di inerpicarmi nuovamente sulla balaustra”.

Su quanto accadde in seguito, sebbene il mio animo non l’abbia ottenebrato, io non pronunzierò parola alcuna, ché vi sono eventi che non è bene narrare alla luce del Sole, a meno che non la si voglia oscurare; cosa dirvi, infatti, di luoghi ove regna solo il terrore ed i pianti delle vittime si mescolano alle imprecazioni di crudeli aguzzini?

Fuggii ed essi mi erano dietro, né io mi volsi mai; pure udivo le loro oscene voci e l’eco dei loro passi affievoliva le mie forze; infine giunsi su di un’ampia terrazza, ché ero arrivato sulla sommità della torre: grande fu la mia disperazione allorché mi resi conto di aver intrapreso il percorso sbagliato!

Non indugerò ulteriormente sull’angoscia e sul dolore che si impadronirono in quel momento del mio cuore, ché non ne tollero il ricordo; pure, allorché ogni speme parve svanire, mi accorsi che vi era infine una via d’uscita; distante non più di cento passi, infatti, era una enorme voliera come ve ne sono nelle regge dei Signori degli Edain e degli Eldar: grande fu la mia meraviglia, tuttavia, allorché mi accorsi che in essa non era custodito che un unico possente uccello, simile ad una della Grandi Aquile, messaggere di Manwë.

Orrido era il suo sembiante ed esso aveva un solo occhio posto al di sopra del suo adunco becco; rade piume ne coprivano le carni ed esse erano olezzanti a causa del fetore che emanavano; codesto esemplare di crudeltà e ferocia intriso, non pago della mia presenza, si avventò sulle pareti della gabbia, tentando di spezzarne le robuste sbarre; con cautela, mi avvicinai a tale essere e gli parlai nel linguaggio degli Elfi, ché sapevo essere codesto compreso dalle bestie selvatiche; con sommo stupore e crescente preoccupazione, tuttavia, mi avvidi che codesto mostro non solo non comprendeva le mie parole, ma sembrava in preda ad una collera ben più feroce di quella precedente.

Esitai; tosto, i servi del Nemico sarebbero giunti alle mie spalle e mi avrebbero condotto dal loro Oscuro Signore, ove la mia mente ed il mio corpo sarebbero stati straziati dalla sua malizia; tuttavia, fu proprio tale pensiero a trarmi in salvo, ché, forse, tale creatura avrebbe compreso il linguaggio del suo padrone e si sarebbe piegata al mio volere e alla mia necessità.

Lentamente pronunziai alcuni vocaboli della lingua dei servi del Nemico e, meraviglia! Essa, pur non cessando di detestarmi e temermi, pareva essersi acquietata; senza porre alcuno indugio, allora, le saltai sul dorso, ché la gabbia non aveva soffitto alcuno e con un solo colpo della mia lama, tranciai la pesante, ma rozza catena che le stringeva il possente artiglio al suolo.

Imprecarono i servi di Mordor allorché si avvidero che la loro preda era sfuggita alla cattura, eppure non poterono nulla, ché non vi erano altre creature simili per darmi la caccia ed essi erano troppo lenti per seguirla a piedi; lungo fu, o amici, il mio volo, finché non raggiunsi i contrafforti di Umbar ed ivi costrinsi la mia perigliosa cavalcatura ad arrestare la sua corsa; abbandonatala al suo destino, entrai in città, ove riposai le mie stanche membra su un comodo giaciglio. Invero, i Valar vollero che io mi recassi ove mai nessuno era stato, sicché il volere dell’Uno si realizzasse, ché finanche un servo del nemico fu utile per conseguire il mio obiettivo, ed io mi avvidi, come altre volte era già accaduto, che i disegni dei servi di Morgoth non hanno altro motivo di esistere se non per recare maggiore gloria ad Eru Ilúvatar stesso e non già alla loro bieca volontà”.

Un fragoroso applauso si levò allora dai presenti ed essi presero ad elogiare il coraggio e l’astuzia del Dúnadan; molte voci si levarono allora, le une per congratularsi con il figlio di Gilnar, le altre per commentare stupite quanto la sua bocca aveva pronunciato».

Fine