Commentando con un lettore l’ultima parte del racconto sulla Caccia ai Nazgul! (parte II) mi sono reso conto che nel corso della sua narrazione Erfea non spiegava in quale occasione era entrato in possesso di uno scritto autografo del Re Stregone, utile poi per potergli permettere un confronto di grafie con un altro documento dal quale poi prendeva origine la sua ricerca della raccoforte dei Nazgul, nascosta nelle sabbie dei deserti dell’Harad.
Per questa ragione ho deciso di chiarire, in questo articolo, in quali circostanze Erfea entrò in possesso di quel documento e, allo stesso tempo, fornire ulteriori spunti di riflessione sul rapporto fra il principe di Numenor, Miriel e altri personaggi della sua giovinezza che saranno in grado di spiegare – come mi faceva notare acutamente una lettrice – quella personalità malinconica e al tempo stesso saggia che svilupperà Erfea nel corso della sua vita.
La mia fonte di ispirazione per il racconto che spero troverete di vostro gradimento è stata l’oscura vicenda di Lucio Sergio Catalina (108-62 a.C.) un nobile senatore romano noto per la sua celebre congiura che fu scoperta e denunciata nell’anno 63 a.C. da un altro illustre personaggio dell’antica Roma, Cicerone, che gli rivolse in Senato le parole divenute poi celebri: «Quo usque tandem abutēre, Catilina, patientia nostra?» (Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?) Ho immaginato, infatti, che negli ultimi secoli della sua gloriosa esistenza, il regno di Numenor si fosse trasformato in un luogo turbolento, simile alla Roma repubblicana giunta alla fine del suo ciclo storico, dove era facile corrompere (ed essere corrotto) e dove giovani ambiziosi di buone famiglie potevano aspirare ad ottenere un grande potere macchinando nell’oscurità, alle spalle di sovrani persi nell’accumulo di ricchezze, la cui politica, ormai, era controllata e a volte imposta dalle grandi famiglie principesche di Numenor. Il Consiglio dello Scettro, che ai tempi di Aldarion ed Erendis aveva soprattutto una funzione consultiva nei confronti del sovrano, aveva assunto, negli ultimi secoli di esistenza del regno numenoreano, una crescente importanza, fino a diventare una sorta di potere parallelo a quello sovrano: al suo interno ogni membro deteneva un voto (mentre al re ne spettavano due); alleanze e tradimenti erano, dunque, all’ordine del giorno, per far vincere questa o quell’altra fazione.
Fu proprio all’interno di questo clima torbido e violento che Erfea si trovò coinvolto, suo malgrado, in una vicenda che lo pose di fronte a una scelta difficile da compiere…e, come spesso accade in questi casi, ambito privato e pubblico si mescolano senza soluzione di continuità…
Buona lettura!
«Giunse infine l’ultimo giorno di quel mese ed i principi dell’Hyarrostar si recarono ad Andúnië, ove vivevano i Signori di Númenor. Pochi saluti si levarono allorché essi varcarono la soglia del grande salone della reggia degli eredi di Silmariel, ché erano invisi ai principi della fazione dei Númenóreani Neri. Molte voci si levarono, tuttavia, allorché fecero il suo ingresso Erfëa, figlio di Gilnar ed Arthol, figlio di Nargon. Alcune dame presero a sorridere allorché costoro si inchinarono dinanzi al Signore della Dimora, ché erano belli nell’aspetto e cortesi nei modi; pure, sebbene Arthol si mostrasse disposto nei confronti di codeste fanciulle, il suo compagno mostrava minor interesse, intento com’era a discutere con Numendil di quanto aveva appreso nella Terra di Mezzo.
Nel momento in cui i festeggiamenti giunsero al culmine, Arthol, fatto cenno al suo compagno di seguirlo, così gli parlò: “Dove è dunque la fanciulla di cui mi parlasti? Mi rammarico di non vederla in tale luogo, ché ella allieterebbe il tuo cuore. Sei un giovane uomo e molte sono le dame che gradirebbero danzare con te; perché non oblii codesti tristi pensieri, che da troppo tempo dimorano nel tuo animo?”.
Nulla poté rispondere Erfëa, ché in quel momento l’araldo annunciò ai presenti l’arrivo di Palantir e di sua moglie Silwen. Al loro apparire gli ospiti rivolsero loro deferenti inchini, ché egli sarebbe divenuto sovrano e, sebbene fosse del partito avverso agli Uomini del Re, pure coloro che erano suoi avversari avevano tema dalla sua lungimiranza e non osavano contrastarlo. Un’esile fanciulla, quasi occultata dall’ampia cappa bianca che ne copriva il volto, seguiva la coppia reale. Erfëa, naturalmente, come tutti gli altri principi suoi pari e i sudditi del regno, sapeva essere quella fanciulla Miriel, principessa figlia di Palantir e Silwen: non l’aveva mai vista in volto, tuttavia, poiché ella era solita trascorrere le proprie giornate in compagnia dei suoi precettori reali, lontana da occhi indiscreti.
Invano, i principi presenti in sala tentarono di scorgerne il viso, ché esso era occultato da una graziosa maschera impreziosita da perle: delusi, tornarono ai loro posti, rammaricandosi che il carattere della principessa fosse così schivo da evitare di mostrare il suo aspetto in pubblico. Con il trascorrere delle ore, tuttavia, essi parvero dimenticarsi di Miriel e concentrarono la loro attenzione sul vino e sulle altre dame presenti al banchetto. Sorse infine la Luna, eppure ancora i festeggiamenti erano lungi dal concludersi, ché Palantir si levò in piedi e colmato il suo calice di biondo nettare, così si rivolse a quanti erano con lui:
“Signori e Dame di Númenor, Padri dell’Isola e Custodi dell’Antica Tradizione, vi invito a levare in alto i vostri preziosi calici, ché questa sera accogliamo coloro che ritornano a noi dopo lunga assenza; brindiamo, dunque, ad Arthol e ad Erfëa, Cavalieri del Regno!”.
“Cavalieri del Regno!” risposero quanti erano presenti e i due giovani principi furono invitati a presentare le proprie armi dinanzi a Palantir, affinché fossero investiti e potessero ricevere gli speroni d’argento, simbolo della loro condizione. Per primo avanzò Arthol, accompagnato da suo cugino Brethil: giunto che fu innanzi al suo signore, egli si chinò e sguainata la lama, ne pronunciò il nome ad alta voce, consegnandola nelle mani di Palantir, che ne ordinò l’investitura. Il principe del Mittalmar fu assegnato all’armata di Númenor stanziata ad Umbar: grande fu il dolore che si impossessò del cuore di Erfëa, allorché udì tale notizia, ché avrebbe desiderato che entrambi avessero potuto restare a Númenor.
Lieto era invece Arthol, ché desiderava fare ritorno alla Terra di Mezzo, ove credeva di acquisire maggiore potere di quello che gli sarebbe spettato se fosse rimasto in patria. Sotto questo aspetto il principe del Mittalmar era differente da Erfëa, il quale aveva rinunziato alla vanagloria dopo aver ascoltato i saggi consigli di Tom Bombadil e di Gil-Galad. Arthol, al contrario, aveva sempre reputato essere la condizione della propria famiglia tale da dover conseguire imprese degne di nome per sedersi alla propria tavola senza provare timore alcuno; simili considerazioni sfuggivano tuttavia ad Erfëa ed egli non era a conoscenza delle ambizioni del suo compagno. [qui consiglio di proseguire con la lettura di Il primo incontro di Erfea con i Nazgul]
Lieti, i menestrelli ripresero a suonare ed i bardi cantarono delle gesta della casa del sovrano, sin dai tempi in cui l’isola era sorta dal mare ed Elros era divenuto il primo re di Elenna. I Fedeli, invece, presero a congratularsi con il giovane Erfëa, mostrandogli stima e affetto, sicché molti calici si alzarono in suo onore; pure, sebbene grande fosse la sua gioia, il pensiero dell’imminente perdita del suo amico d’infanzia molto lo rattristava.
Tali erano i suoi foschi pensieri che non si avvide di una fanciulla che gli si inchinò dinanzi; distrattamente, Erfëa replicò a tale gesto, eppure, grande fu il suo stupore allorché si avvide che era la figlia di Palantir: “Nobile capitano di Númenor, permettete alla principessa di Armenelos di congratularsi con voi? Avete ottenuto una magnifica vittoria su i vostri nemici, sicché immagino che il vostro cuore sia colmo di gioia”.
Sorrise Erfëa nel risponderle: la voce della dama gli era familiare e sebbene non ricordasse più in quale luogo o in quale tempo l’avesse ascoltata, pure la trovava melodiosa. “Graziosa dama, gentili sono state le vostre parole, e non sarò io a negare la mia soddisfazione. Io però non anelo all’onore delle armi, né ai forzieri ricolmi di oro e argento che giacciono nelle dimore dei principi di questa contrada: i miei occhi, infatti, hanno scorto altre meraviglie, quali mai gli uomini e le donne qui presenti hanno visto”.
Piacquero alla fanciulla le parole che Erfëa aveva pronunziato, sicché ella gli chiese di narrarle della dimora di Gil-Galad e degli Alti Elfi che dimorano al di là del mare. A lungo il figlio di Gilnar si intrattenne con Miriel, infine, allorché il suo racconto ebbe termine, ella parlò a sua volta:
“Ora comprendo per quale motivo i vostri occhi siano scuri, Erfëa di Númenor. Qualunque uomo sarebbe colmo di tristezza se non potesse più ammirare simili meraviglie, di beltà e luce intrise”.
Amaro risuonò il riso di Erfëa: “Mia signora, se tale fosse il motivo per il quale provo dolore, non potrei che imputare a me stesso l’aver abbandonato il popolo degli elfi; colei che io rimpiango di aver perso, invece, rinunciò di sua volontà alla mia amicizia”.
Stupore misto a commozione si dipinse sul volto della principessa, eppure Erfëa non poté notarlo, occultato com’era dalla maschera che indossava; nondimeno, il Dúnadan avvertì che la sua voce era incrinata e le chiese perdono per averla rattristata con simili storie.
“Mia signora, non era mia intenzione turbarvi. La dolce amica di cui vi ho parlato, infatti, appartiene alla mia infanzia”.
“Non piango per la vostra sventura, giovane principe, ché, sebbene dolorosa, pure è comune a tutte le sorti umane. Se il mio cuore è triste, lo è perché teme la fine di questi giorni felici. Non vi è gioia più grande, infatti, che assaporare, come un dolce frutto proveniente dal lontano oriente, la letizia del tempo presente”.
Erfëa l’osservò stupito e gli parve saggia e lungimirante; a lungo discorsero i due giovani, sicché grande fu il rammarico di entrambi allorché dovettero prendere congedo l’uno dall’altra.
“Mia signora – la salutò il figlio di Gilnar – avete allietato il banchetto e le danze; concedetemi, dunque di mirare il volto di colei alla quale porsi il mio calice “.
Miriel, tuttavia, scosse graziosamente il capo: “Mio signore, voi siete ora avvezzo ai volti delle fanciulle elfiche, sicché trovereste disdicevole porre i vostri occhi su quelli mortali. Non sarò io a rivelarmi dinanzi a voi, né dovrete portarmi rancore per tale mia scelta, ché, ecco, molto ne avrei a soffrire. Sia dunque, codesto, un pegno presso il vostro cuore che rimembrerete ogni giorno”.
Curiosa parve la risposta ad Erfëa ed egli non ne comprese appieno il motivo; pure, chinò il capo e si allontanò senza pronunciare parola alcuna. Una profonda stanchezza lo aveva avvolto ed il suo corpo desiderava il riposo.
Nei giorni seguenti il figlio di Gilnar si recò sovente nella contrada di Numendil: costui era divenuto, infatti, il suo signore ed egli doveva al principe di Andúnië ben più della stima che un giovane capitano nutre nei confronti del suo comandante. L’animo del parente più prossimo del sovrano gli sembrava insondabile, né il suo volto esprimeva letizia: sovente, egli si recava ad Armenelos, ove prendeva parte alle sedute del Consiglio dello Scettro, sicché il principe dell’Hyarrostar trascorreva le sue giornate in solitudine. Nei mesi successivi, tuttavia, Erfëa si avvide che Numendil invecchiava precocemente e, sebbene questi fosse un uomo anziano, anche secondo il metro dei Númenóreani, pure il suo mutamento era sembrato assai repentino.
Trascorsero infine tre mesi e Numendil, avvertendo che la morte gli era ormai prossima, convocò a sé Erfëa, affinché fosse posto a parte di eventi di cui pochi erano a conoscenza, ma in cui molti erano implicati. Sgomento, il figlio di Gilnar l’ascoltò senza pronunziare parola alcuna: gravi erano le rivelazioni che il suo signore gli aveva confidato, sicché giurò solennemente che mai avrebbe svelato ad altri le sue ultime confessioni. Molti anni dopo, allorché i suoi passi lo condussero alla fortezza degli Schiavi dell’Anello, l’animo di Erfëa si volse grato verso colui che l’aveva messo al corrente degli occulti segreti di cui era divenuto depositario.
L’agonia di Numendil fu lunga e dolorosa, poiché un invisibile veleno pareva scorrergli nelle vene e la sua carne era restia a consumarsi nell’oblio della morte. Infine, allorché il moribondo ebbe esalato l’ultimo respiro, Erfëa pianse: mai, infatti, prima d’allora aveva mirato quella che i menestrelli elfici definiscono le funesta sorte dei Secondogeniti. La morte, tuttavia, era un dono e non una punizione: i cuori degli Uomini, tuttavia, divenuti preda dell’angoscia e del timore, avevano preso ad interpretarla come una maledizione, temendone gli esiti. Nessuno sfuggiva a questa paura atavica: persino gli animi dei Fedeli, in parte corrotti dalle paure di quei tempi, scongiuravano il momento della dipartita, facendo appello a tutte le loro conoscenze, senza alcuna fortuna.
Triste fu il cuore di Erfëa mentre versava silenziose lacrime sul petto del suo signore. Egli inviò un messaggero ad Amandil affinché lo raggiungesse nella casa paterna, ché questi era allora nella Terra di Mezzo.
Penosi erano gli sguardi che i due uomini si scambiarono allorché furono l’uno dinanzi all’altro ed essi a lungo tacquero; infine, avvedutosi che il dolore nell’animo di Amandil non era inferiore al suo, così gli parlò Erfëa:
“Fratello nel sangue e nel dolore, triste è la dipartita del nostro signore e padre. Tu fosti il suo seme naturale, ed egli fu per me leale guida e maestro: inutili, tuttavia, saranno le nostre lacrime attuali e altre, ancora più cruenti, verseremo in futuro, se non porremo termine alla minaccia che incombe su di noi”.
Stupito, Amandil lo invitò a prendere posto, accanto al suo trono, pregandogli di narrare quanto era accaduto negli ultimi tempi. Pensoso fu il suo sguardo ed egli si avvide che non vi era menzogna nelle parole del suo congiunto, né temette che tali rivelazioni fossero tremulo parto di una mente resa cieca dal dolore della perdita. Amandil, tuttavia, era esitante: la sua gente era in numero troppo esiguo nel numero per tentare di sopraffare con le armi i propri nemici. Il principe esitò, dunque, riservandosi il diritto di adoperare quelle informazioni nel modo che avrebbe ritenuto opportuno; pregò Erfëa di non farne parola con alcuno, per tema che gli incogliesse un grande male. Riluttante, il figlio di Gilnar annuì, sebbene nutrisse nel cuore il timore che grandi sofferenze sarebbero derivate da tale scelta.
Lesta, si sparse nell’isola la notizia della morte di Numendil: i servi del Re ne furono lieti, ché Amandil, sebbene fosse un uomo lungimirante e saggio, pure era troppo giovane per incutere in loro timore. La carica di Custode delle Leggi del Regno e delle Antiche Tradizioni, che un tempo apparteneva a Numendil, restò per qualche tempo vacante: gli Uomini del Re, allora, presero a mormorare che presto tale incarico sarebbe spettato ad uno di loro. Akhôrahil, tuttavia, esortava loro a non esultare anzitempo, ché sebbene fossero principi dotati di forzieri traboccanti d’oro ed argento, pure non erano a conoscenza degli scritti che antichi legislatori avevano annotato in tomi di pelle nera ed argentata. Riluttanti, perché non avrebbero voluto che Akhôrahil aggiungesse altro potere a quello che già possedeva, gli altri principi lo esortarono, affinché fosse proposta la sua candidatura per tale carica. Il servo di Sauron rifiutò: “Gli Uomini avveduti – replicò – sono soliti governare mediante coloro che si mostrano incapaci di comprenderne i propositi. Costoro, infatti, sono facili prede dei loro intenti”.
Il quinto Nazgûl, tuttavia, considerava con interesse la carriera del giovane Arthol, un uomo forte nel corpo e ambizioso, ma poco lungimirante. Come molti della sua generazione, Arthol dissipava il patrimonio paterno in lussurie e atti dei quali la pudicizia degli uomini consiglierebbe di tacere. In breve tempo la sua giovanile ambizione si tramutò in arroganza e infine in smania di potere; reputò allora che il suo incarico fosse indegno di un uomo del suo genio, mentre l’invidia per colui che un tempo aveva amato come un fratello cresceva nel suo animo e ne occupava i reconditi pensieri, rendendolo cieco dinanzi a qualunque altra cosa.
Arthol prese a sussurrare, da principio in gran segreto, in seguito con maggior audacia, che gli eredi maggiori di Elros Tar-Minyatur avrebbero dovuto rinunciare allo scettro. Molti furono i Númenóreani che seguirono le sue parole e ne ricavarono malvagi insegnamenti, sicché egli prese a riunire nella dimora paterna una combriccola di uomini e donne corrotti ed esperti di tutte quelle arti che sono degne solo degli Orchi di caverna. In poco tempo essi approntarono un piano che avrebbe permesso loro di impadronirsi di quanto desideravano ardentemente e che non riuscivano ad ottenere se non con l’assassinio e il bieco furto. Akhôrahil, i cui servi avevano preso parte ad alcune riunioni indette da Arthol, si avvide che costui avrebbe costituito un valido alleato per il suo Signore, sempre che fosse riuscito ad arrestarne il giovanile ardore.
Dei cavalieri e delle dame che il principe númenóreano sedusse è dato sapere poco, ché essi agivano in gran segreto e non si occupavano di nulla che non fosse lo Stato stesso. A quanti fossero stati all’oscuro dei loro biechi progetti, pareva che essi fossero degni della posizione che la sorte aveva assegnato loro. L’unica dama del quale fu conosciuto il nome era Gilmor, sorella di Arthol; nulla poteva lamentare che la sorte le avesse negato, ché era bella e nobile nel portamento, né era dotata di minor intelligenza di quanto non lo fosse nella grazia. Le sue doti, tuttavia, era solito porle al servizio dei suoi interessi: era solita concedersi agli uomini, allorché le aggradava ed era a conoscenza delle arti che soggiacciono la volontà degli uomini a coloro che ne pronunciano le oscure parole. Infida non lo era stata dalla nascita, ché aveva subito una educazione quale si confà alla nobiltà della sua stirpe; la precoce morte della madre e il dolore che mai si dipanò nel suo animo per la sua dipartita, la spinsero alla disperazione, e indi al rancore, sicché, ancor prima che il fratello fosse corrotto, era divenuta avvezza ad ogni sorta di vizio. Abile nell’occultare le sue perversioni a quanti non fossero a conoscenza della sua malvagità, lo era parimenti nell’eloquio e nel canto e in quelle arti che sono proprie delle altre dame della sua condizione.
Molti fra quanti presero parte alla congiura ai danni della stirpe del sovrano, appartenevano proprio alla fazione che ne avrebbe dovuto sostenere l’influenza a Númenor, né tuttavia, erano estranei a tali complotti gli Amici degli Elfi. Gli uni, infatti, erano attratti dalla lussuria e dalla cupidigia, gli altri dalla falsa speme di liberare il proprio paese dal dominio di un uomo che tanto disprezzavano. In gran segreto essi si addestrarono e compirono efferati delitti: avevano, infatti, gran bisogno di denari per acquistare le armi e corrompere le guardie di palazzo. Akhôrahil donò molte delle sue ricchezze ad Arthol, convinto che se costui fosse riuscito nel suo intento, il suo padrone avrebbe gioito, ché avrebbe spazzato via dalla Terra di Mezzo le colonie númenóreane; se invece il principe del Mittalmar avesse fallito nella sua impresa, lo Spettro dell’Anello avrebbe avuto facoltà di incrementare maggiormente la sua influenza a corte. Ar-Gimilzôr, infatti, non avrebbe avuto alcuna remora ad affidare la repressione dei congiurati al Nazgûl. Nei riguardi dei Fedeli, Akhôrahil nutriva poco interesse, convinto che quelli avrebbero mostrato maggior comprensione per gli assassini del sovrano che per il sovrano stesso. Arthol, invece, non era del suo stesso parere: molto temeva Gilnar, ritenendo che questi non avrebbe tollerato che alla tirannia del sovrano succedesse la sua. Ar-Gimilzôr era ormai al termine della sua esistenza: imbelle, sedeva sul suo regale trono in preda a crisi di follia che abili ministri dissimulavano dinanzi agli occhi del popolo. Presto il sovrano sarebbe morto e lo scettro passato nelle mani del suo erede Palantir, il quale poco amore nutriva per il padre e per quanti ne sostenevano la causa.
Nei giorni seguenti un nuovo timore sorse nel cuore di Arthol, provocato dalla profonda amicizia sorta tra Erfëa e colei che sarebbe succeduta a Palantir, qualora fosse giunto il suo tempo. Arthol mutò allora i suoi piani e prese ad organizzare un complotto ai danni dell’erede maggiore di Ar-Gimilzôr, nella speranza che, ottenuta la sua morte e quella della sua figlia, egli avrebbe potuto colpire più facilmente l’anziano sovrano. Questo sviluppo piacque all’Úlairë: egli, infatti, non tollerava Palantir, temendone lo spirito lungimirante, ed avrebbe, invece, gradito che lo scettro passasse nelle mani di suo fratello, Gimilkhâd il Crudele, che era ambizioso non meno che iracondo, e dunque facile da ammaestrare agli scopi del suo padrone.
Nulla sospettava Erfëa di quanto tramava il suo compagno d’armi in gioventù: non aveva dimenticato gli avvertimenti di Numendil, eppure la sua ira era scemata, perché prossimo a compiere la maggiore età e distratto da altri pensieri. Il figlio di Gilnar spesso conduceva il suo destriero sino alle bianche spiagge di Andúnië, ove era solito interrogare i pescatori ed i marinai sulla sorte che aveva conosciuto Eärien, se ella fosse andata in sposa ad uno di loro, oppure se la morte l’avesse colta in giovane età; costoro, tuttavia, non sapevano rivelargli alcunché, né avevano mai udito tale nome prima di allora. Quando non era occupato dalla ricerca della sua amica di un tempo, Erfëa si recava nei suoi possedimenti, ove badava che i destrieri paterni fossero ben curati, oppure, nelle silenti sale della biblioteca di Armenelos ove più nessuno si recava di innumerevoli anni».
Continua
Ancora una volta complimenti per la storia.
Bellissimo il paragone rispetto a Catilina e mi ha fatto piacere rileggere la citazione di Cicerone, fa sempre la sua figura.
Scendendo nel dettaglio, la storia di Numenor mi ha sempre affascinato e mi dispiace davvero tanto che Tolkien non abbia approfondito il discorso.
Tuttavia, se lo avesse fatto probabilmente tu non avresti scritto Il Ciclo del Marinaio.
Devo ammettere che scrivi in modo molto simile a Tolkien, hai avuto qualche contatto con il figlio?
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Ti ringrazio, i tuoi complimenti mi fanno davvero piacere! Sono contento di essere riuscito, nel mio piccolo, a ricreare un po’ quello stile epico che Tolkien adoperò per la scrittura del Silmarillion…purtroppo non ho mai avuto contatti con il figlio… chissà…magari un giorno ci riuscirò. Hai ragione, se Tolkien avesse dedicato più spazio a Numenor, non credo che avrei mai scritto il Ciclo del Marinaio: i miei racconti, infatti, sono nati proprio allo scopo di inserirsi nel grande legendarium tolkieniano, lasciando sufficiente spazio alla mia fantasia e, allo stesso tempo, rispettando però le basi narrative e linguistiche sulle quali Tolkien aveva impostato il suo lavoro. Grazie ancora per i tuoi commenti!
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Figurati, sono meritati.
Inutile dire che il tuo libro arriverà prima o poi nella mia libreria 😁
Per Christopher affrettati, ha una certa età…
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Grazie, ne sarei davvero contento:) Già, ormai Cristopher è davvero anziano…ma credo che la famiglia Tolkien continuerà ad occuparsi anche in futuro delle opere del professore di Oxford.
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Titolo stupendo, in futuro mi piacerebbe vedere l’arrivo di Akhôrahil a corte (magari anche un accordo col Re Stregone), immagino che sia dietro alla presa di potere del consiglio, dato che ho sempre visto il re di Numenor come uno che ascolta e poi prende le decisione, e mi sembra di capire che nell’ultimo periodo questo consiglio abbia cominciato a contrastare il re con le sue idee e per i propri vantaggi, oppure viceversa: il re è diventato infame e allora il consiglio ne ha cominciato a contrastarlo per evitare conseguenze ancora più nefaste. Necessito di un chiarimento. Aspetto la fine della storia, ma devo confermare quanto detto da lei tempo fa: Akhorahil è il Nazgul più pericoloso
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Ma quindi la prima parte di questo post avviene durante il racconto dell’incontro tra Erfea e Il Re della Tempesta quando viene smascherato?
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In realtà i due racconti si integrano l’uno nell’altro: l’articolo che avevo dedicato al primo incontro tra Erfea e Akhorahil, infatti, era uno stralcio di un racconto più lungo, nel quale si assiste, come avrà capito dalla lettura di quest’ultimo articolo, alla proclamazione di Erfea e Arthol a cavalieri del regno. Tenga conto, tuttavia, che Erfea non ha ancora capito di essersi confrontato con un Nazgul: come leggerà prossimamente, infatti, in Erfea i dubbi sull’identità e sugli scopi reali di Akhorahil cresceranno, ma sarà solo dopo la cattura del Libro Nero dei Nazgul, custodito nella loro fortezza nell’Harad, che ogni dubbio sulla reale identità di Akhorahil sarà fugato.
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La ringrazio per gli apprezzamenti, sono contento che il titolo le sia piaciuto. Quanto alla sua domanda, posso risponderle in questo modo: il Consiglio di Numenor era diventato, negli ultimi secoli di esistenza del regno, un vero e proprio organo esecutivo. Alla base di questa trasformazione c’era stata l’evoluzione stessa della società numenoreana: i principi reali, infatti, erano divenuti governatori delle colonie fondate nella Terra di Mezzo ed avevano acquisito un potere politico ed economico sempre più grande. Essi, perciò disdegnavano ormai di essere sudditi del sovrano, e cercavano di ritargliarsi sempre più larghi spazi di autonomia. Fondamentalmente, il Consiglio dello Scettro era costituito da sei individui: il sovrano (che poteva essere sostituito dal coniuge o dall’erede) e i 5 principi delle principali regioni di Numenor, tutti discendenti dai quattro figli maschi che aveva avuto Elros al principio della Seconda Era. La casata degli Hyarrostar, per esempio, quella cioè a cui apparteneva Erfea, discendeva dall’ultimo figlio di Elros. Ogni principe disponeva di un voto, mentre al sovrano ne spettavano due. Negli ultimi secoli, i Numenoreani nazionalisti erano stati sempre in maggioranza, perché disponevano dei voti delle seguente casate: Andustar, Fornostar e Ondustar; all’opposizione, invece, erano le casate di Hyarrostar e di Andunie. Quando Palantir assunse lo scettro, i rapporti di forza in seno al Consiglio mutarono di conseguenza: Palantir (2 voti); Hyarrostar e Andunie (1 voto ciascuno) per un totale di 3 voti: gli stessi di cui disponevano i Nazionalisti, è vero, ma in caso di parità valeva la scelta del re. Per questa ragione, (e per altre, naturalmente) Ar-Pharazon voleva diventare sovrano: in quel modo, infatti, la maggioranza sarebbe tornata nuovamente nelle mani del suo partito. Mi fa piacere che abbia riconosciuto la pericolosità di Akhorahil, che fu il vero nemico di Erfea durante la sua giovinezza.
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Tutto ciò l’ha aggiunto lei? Io ricordo solo Fedeli e Uomini del Re, cmq sia approvo.
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Mea culpa: sommando i voti di Palantir, Andunie e Hyarrostar si ottiene una somma di 4 voti, il che rendeva possibile una maggioranza assoluta
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Sì, questa descrizione della struttura normativa di Numenor l’ho elaborata io: i Nazionalisti, naturalmente, corrispondono agli Uomini del Re.
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Bene
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Aspetta, sono io la lettrice alla quale accenni all’inizio…?
Devo dire che Miriel mi ha fatto quasi tenerezza, anche perché non immaginavo quale ragione potesse esserci dietro la sua insistenza nell’indossare la maschera (l’ho scoperto leggendo subito la continuazione del racconto, che adesso andrò a commentare). E mi chiedevo chi fosse la misteriosa Earien…
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Sì, mi riferivo proprio a te, ricordando una tua osservazione sul carattere di Erfea;) Indubbiamente in Miriel risiede una grande dolcezza, unita ad una certa fermezza nel trattare con Erfea. Questo suo nascondersi dietro l’identità di Earien, tuttavia, alla lunga porrà le basi per un progressivo allontamento da parte di Erfea, che non riuscirà mai a comprendere del tutto le ragioni che avevano spinto Miriel a mentirgli sulla sua reale identità…
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bellissimo e la prossima fermata sarà il continuo 😉 Grazie Domenico
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Grazie a te:)
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