Come promesso nel mio ultimo articolo…e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea sulla genesi di quello che è stato il primo racconto del mio romanzo, introduco in questo articolo la versione «Beta» di Elwen, ricostruendo la sua infanzia e adolescenza e motivando le ragioni che la condussero a compiere una difficile scelta fra Morwin, sire di Edhellond, una piccola città elfica posta in quella regione che, centinaia di anni più tardi, sarebbe poi divenuta parte del regno di Gondor, e un Numenoreano dal passato oscuro e misterioso, giunto dal Grande Mare della Terra di Mezzo alle sue coste in circostanze drammatiche…Erfea Morluin.
Buona lettura, aspetto i vostri commenti!
«Sul finire della Seconda Era grande era divenuto il potere dei Numenoreani, stanziatisi lungo la costa Sud-Est della terra di mezzo. Ivi avevano fondato numerose roccaforti e fortezze, tra le quali Pelargir e Umbar, sotto le quali prosperavano e si diffondevano sempre più, seguendo i corsi dei fiumi e le coste frastagliate di Endor, spinti però dalla cupidigia e non già dal desiderio di allietare le misere condizioni di vita dei mortali che abitavano in quelle terre. Simile ad un colosso dai piedi d’argilla, così la potenza Numenoreana iniziava a frantumarsi sotto i colpi della sua stessa arroganza e crudeltà, ché Sauron, il discepolo di Morgoth, aveva già impiantato con ferocia i suoi lunghi artigli nell’isola dell’Ovest. Ben pochi furono i Numenoreani che si sottrassero a tale corruzione, e questi furono a lungo perseguitati da sovrani avvizziti o vuoti, più simili a fantasmi che non a creature mortali. L’ultimo di questi re fu Ar-Pharazon il dorato, colui che nella sua follia immaginò di invadere la dimora degli dei, Aman, lungi nell’occidente: notevole fu il suo seguito e numerosi i capitani che si posero sotto il suo vessillo. Non tutti però lo seguirono, ché vi erano ancora molti spiriti liberi che si aggiravano nella terra di mezzo, esiliati per aver disobbedito al re, e dunque a Sauron. Fra questi massimo era Erfea Morluin, il capitano, e famose e molteplici le sue avventure, che lo condussero ad esplorare pressoché tutta Endor. Infatti, sebbene poche siano le canzoni e le storie sopravvissute alla caduta, quel poco che è rimasto, è fonte di grande meraviglia e stupore. Ché Erfea Morluin non solo era un capitano valente, un signore tra gli uomini, ma nei suoi occhi grigi come la spuma marina splendeva ancora la luce degli Eldar, che tanto tempo prima avevano istruito il suo popolo.
Erfea da tempo viaggiava nella terra di mezzo, capitano di molte navi [1], al servizio di Tar-Palantir l’ultimo sovrano che aveva tentato di riconciliare elfi e uomini. In seguito, tuttavia, il Numenoreano aveva lasciato il suo incarico, con grande sgomento e ira del suo signore Ar-Pharazon, che aveva in animo il desiderio di servirsene per guidare un massiccio attacco contro i popoli che ancora gli resistevano, fossero essi elfi o mortali; ché grande era la sua ingordigia e la sua ambizione, e spesso egli si definiva signore del mondo intero. Furente per il rifiuto del suo miglior capitano, il sovrano di Numenor diede disposizione che Erfea Morluin fosse esiliato fino alla fine dei suoi giorni dalla terra del Dono: “Ché ingrato davvero si è dimostrato – disse ai suoi consiglieri – quando gli fu offerto il comando”. “Si è venduto al nemico – aggiunse rivolto al popolo, che sgomento per la notizia attendeva un responso ufficiale – il vostro capitano è un traditore e bene ho agito, condannandolo all’oblio eterno”. Sebbene la maggior parte del popolo accettasse senza obiezioni le subdole parole del sovrano, tuttavia il gruppo dei fedeli scosse la testa, presagendo grandi sventure: “ Tale è il nostro destino – fece uno di loro, il cui nome era Elendil, della casa di Andunie, rivolto al figlio primogenito Isildur – per cui avremo bisogno di campioni simili, se vorremmo superare le avversità della nostra epoca”; ma l’altro rispose: “Padre, Erfea è il più forte tra noi, eppure temo che numerose difficoltà gli si presenteranno nel corso del suo lungo esilio. Ché non solo il male tende tranelli sulla strada dei giusti; è facile infatti che anche il cuore venga fatto prigioniero, e quando ciò accade, la vita di un uomo si scinde in due dolori contrastanti”. Stupito lo guardò Elendil, ché Isildur era ancora giovane e mai aveva parlato in modo così saggio; tuttavia non rispose e più parola pronunziò, fissando il sole divenire rosso sangue, presagio di chissà quali sventure.
Ad ogni modo, Erfea Morluin, nulla aveva appreso di quanto era accaduto, ché si trovava lungi dalla sua casa, essendo in corso la stagione della navigazione. Sebbene dunque nessuna nuova fosse trapelata al comandante di Numenor, alcuni marinai, gente infida e gelosa degli altrui successi, ne erano stati informati precedentemente, ché anteriore al viaggio era il desiderio di Ar-Pharazon di eliminare quello che considerava il suo più acerrimo nemico. Obbedendo dunque agli ordini degli emissari reali, tali marinai avevano sabotato la nave, simulando un incidente: non di rado, infatti, nelle acque che percorrevano si verificavano incidenti di ogni sorta, dovuti all’arroganza degli uomini, nonché a misteriose creature serve di Sauron. Tale sarebbe stata dunque la fine di Erfea, e il popolo l’avrebbe di certo interpretata come un segno del volere divino, obliando dalla propria mente il ricordo del capitano, se Erfea non fosse stato salvato da un generoso delfino, riuscendo a raggiungere terra. “In quale regione mi trovi, non saprei dire; tuttavia se il volere di Osse protegge il mio cammino, e se egli ha voluto che mi salvassi da morte certa, devo dunque credere che questa terra sia abitata da un popolo pacifico e industrioso”. Il suo presentimento, come avrebbero testimoniato le abitazioni situate di là della riva, era giusto, ché egli era giunto nella regione dove sorgeva Edhellond, il bianco porto elfico. Molteplici sono i canti che parlano del suo argenteo cancello, delle mura intarsiate di marmo bianco e rosato. Ivi avevano dimora alcuni di quei priminati, che al principio della prima era avevano abbandonato le terre Imperiture: fra loro vi erano Galadriel e Celeborn, che spesso si soffermavano in quelle aule per lunghi periodi. Tuttavia il signore dei porti non era né l’una, né l’altro, ma un Noldor membro della famiglia di Fingolfin, il quale aveva osato sfidare Melkor nella sua fortezza di Angband, perdendo poi la vita a causa delle ferite da questi inflittegli. Le storie narrano che il nome di tale principe era Morwin[2], e di lui si dice che fosse simile al suo avo Feanor, per ingegno e per aspetto: pregevoli infatti erano le sue opere artistiche e si narra che, con la stessa forza con la quale batteva il ferro rovente nella sua fucina, abbattesse i campioni di Sauron o dei suoi servitori. Tuttavia grande era anche il suo orgoglio e la sua possanza; ché egli, seppur a torto, credeva di dover vendicare l’avo da lungi scomparso, per potersi ergere simile a lui, come un eroe tra i capitani: ma codardo era il suo cuore e torbidi i sentimenti che da esso scaturivano, soprattutto verso la stirpe dei mortali, da lui ritenuti causa di ogni male. Morwin, infatti, era solito ripetere agli altri della sua famiglia quanto fosse dannosa la stirpe dei secondogeniti: “Forse che nessuno di voi non ricorda la strage della Nirnaeth Arnoediad [3], in cui i nostri avi perirono a causa del tradimento di quella indegna specie? Forse che adesso Fingon non sarebbe qui, se la guerra fosse stata condotta solo da noi Eldar?” Simili pensieri egli diffondeva, e mai l’odio per i mortali scemò, ma simile ad una terribile peste, si allargò e ne consumò l’animo, fino a renderlo impotente davanti al male, che in quel tempo si alzò in numerose contrade. In quella medesima città, molti erano i figli degli Eldar e alto il loro lignaggio, tale che poche erano le unioni con membri di stirpe diversa dalla loro. Vi fu tuttavia un uomo, marinaio di Pelargir, che invaghitosi di un elfa di quella contrada, la rapì e con lei concepì una figlia; la piccola fu chiamata Elwen, perché sembrava che nei suoi occhi si specchiassero tutte le luci del creato: “Sacra ad Elbereth sarà questa nostra figlia – fece notare la madre rivolta a quanti le stavano vicino – ma un’ombra le aduggia il capo, ché tuttavia la sua parte mortale ne risentirà quando il momento della scelta verrà, inevitabile e terribile”. Gravi furono le sue parole, e ancor più triste fu il suo destino, ché mai profezia si rivelò così veritiera. Qualche tempo dopo, la giovane Elwen ritornò in quella che era stata la città della madre: e grande davvero le parve, abituata come era alle abitazioni dei Numenoreani, di sicuro ben più modeste. Una sera, però, rossa in volto, e con gli occhi illuminati da una luce, quale mai si era vista in quelle contrade, Elwen si presentò alla madre: “Sono angosciata da un dubbio; mi chiedo infatti se per me sia salutare frequentare la compagnia dei nobili Eldar. Troppo piccola, infatti, mi pare la loro reggia maestosa, ché le vaste distese del mare il mio cuore ambisce”. Scura in volto divenne la madre, che le rispose in tali termini: “Figlia, invero possente è la stirpe degli Eldar e grande il suo potere. Tu però porti nelle vene il sangue di tuo padre, mortale come i pastori che sulle colline conducono i loro armenti, sebbene di diversa stirpe”. E così le raccontò la sua origine, la morte del padre e quanto sapeva sul popolo dei Numenoreani. Allora grande si fece in Elwen il desiderio del mare, delle sue candide spume e triste rivolse lo sguardo al porto dorato, quasi che le fosse possibile, al di là del muro d’acqua, intravedere le verdi coste di Numenor e oltre i confini mortali, la beata Aman. La madre, pur notando la malinconia impressa sul volto della figlia, parole non aggiunse; ma da quel giorno ben poco si fece vedere, convinta che il tempo della sua partenza fosse giunto: “Il mare attende anche me” era solita sussurrare nelle lunghe ore della notte, quando allontanato da sé il sonno, trascorreva la veglia mormorando dolci nenie, immersa in malinconici pensieri. E infine giunse l’ora in cui ella si allontanò e mai più fu vista da occhi mortali.
Tutto questo accadeva qualche tempo prima dell’arrivo di Erfea, e mai in Elwen si estinse il desiderio del bianco mare, nemmeno quando i tempi mutarono e le coste furono stravolte da immensi terremoti.
Tuttavia, in un primo momento, tale desiderio fu soffocato dal suo cuore, ché non riteneva fosse giunto il momento di allontanarsi dalle città di Endor, e molte erano le bellezze che ancora non conosceva; inoltre ambiva alla potenza degli avi di sua madre, sembrandole la massima vetta del potere. Tali erano dunque i suoi pensieri quando in quelle contrade il nome di Erfea Morluin iniziò a diffondersi, facendo germogliare nel suo animo una fanciullesca curiosità. Non era egli forse un uomo del mare proveniente dalle gloriose città di Elenna? Grande invero era la sua curiosità, ma ancora più profondo in lei era radicato il desiderio della gloria, e un mortale, seppur Numenoreano, ben poca cosa le pareva rispetto ai visi gravi e saggi degli Eldar di Edhellond. E sì maestoso le sembrava il portamento di Morwin, sire del suo popolo; e spesso trascorreva le sere dialogando o passeggiando con lui lungo gli antichi giardini della sua reggia. Lo stesso Morwin, che pure non era avvezzo alla compagnia di stirpi che fossero, anche in parte, differenti dalla sua, iniziò a trarre piacere da quelle visite; dapprima in modo lieve, e poi sempre in maniera crescente, il suo cuore si volse ad Elwen, senza tuttavia mai rivelarle alcunché dei suoi propositi. Nulla la mezzelfa presagiva dei suoi intenti, ché ancora erano latenti in lei le facoltà del popolo paterno, essendo lontana dalla maggior età.
Fu proprio in quel lasso di tempo che Erfea la incontrò e allora il suo triste destino gli fu rivelato, ché invero duro sarebbe stato l’esilio, come Isildur tempo prima aveva previsto. Più maestosa delle donne numenoreane che fin a quel momento aveva frequentato gli parve Elwen: tuttavia, non lasciò trapelare il suo sentimento considerando ancora prematuri i tempi. Fu solo dopo l’incontro con il capitano dei Dunedain, che la stirpe paterna prese il sopravvento su quella materna e in Elwen qualcosa mutò: il suo viso si addolcì e parve ancor più bella agli occhi di coloro che la circondavano; e simultaneamente ebbe il dono della lungimiranza e manifesti le divennero allora i sentimenti di Erfea, nonché quelli di Morwin.
Confusione e dubbio allora la invasero, costringendola a ritirarsi nella sua bella dimora, ché non comprendeva quello che le stesse accadendo. Non le pareva possibile, infatti, che un sentimento di tal genere potesse oscurare in lei l’amore per il mare; e grigio divenne il suo volto, nei giorni che seguirono l’incontro con l’uomo dell’Ovest. Nondimeno Erfea era preso dal dubbio, tuttavia essendo maggiore in lui la sapienza e la maturità del suo popolo, ben comprese infine quale fosse lo stato d’animo della fanciulla, sebbene sulle prime fosse esitante nel parlarle, ché non era del tutto certo di prevedere quali effetti avrebbero prodotto in lei le sue dichiarazioni; tuttavia, essendo egli uomo chiaro e saggio, preferì affrontarla direttamente, che già alcuni mesi erano trascorsi e grave nel suo cuore avvertiva il peso di una minaccia: “Mia signora, niente in questi giorni sembra essere sicuro, eppure sarebbe non poca cosa che tu mi rivelassi quello che ti angustia” “Preferiresti una verità amara o una menzogna dolce?” – gli rispose lei, intimorita e al tempo stesso infelice – ché spesso i mortali travisano le parole che dal cuore degli Eldar di rado sfuggono”. “La verità senza dubbio – rispose il Numenoreano dopo alcuni istanti di silenzio – ché per quanto dura possa essere – aggiunse – tuttavia molto tempo avrei dinanzi a me per dimenticarla”. “Sei dunque certo di averne a sufficienza?” replicò lei, profondamente turbata. Allora egli rabbrividì, sebbene l’aria non fosse ancora fredda e le prime stelle sbocciassero in cielo. “Poiché tu vuoi la verità, eccola dunque, orgoglioso capitano dei Numenoreani. Ed ella lo baciò, incurante di essere osservata da Morwin, il quale rabbia e sgomento provò innanzi a quel gesto.
“Piacevole è quindi la risposta, ben più di quanto avessi osato sperare. Tuttavia non è mia consuetudine giudicare prima che i tempi siano maturi, fanciulla elfica” le disse Erfea dopo qualche attimo. “Sii felice del mio consenso, signore – gli fece notare Elwen – ché un’orgogliosa fanciulla tu hai davanti agli occhi e mai ella si chinerà ad altri volere se non il suo. Consentimi dunque, prima di suggellare il nostro amore, di recare visita alle profonde acque di Osse, di giungere all’isola che i Valar donarono alla tua gente”. A quelle parole, forte si risvegliò in Erfea il rimpianto per la terra perduta; e fu con difficoltà che egli le rispose: “Mia signora, grandi invero sono le acque di Osse, ma non altrettanto le menti di coloro che si avventurano in queste acque senza il volere degli dei. Sii dunque paziente e in primavera veleggeremo insieme su una nave d’argento con le vele intessute di ithildin”. Convincente parve ad Elwen la risposta che Erfea le diede e più non fece domande, rivolgendo il proprio pensiero alla primavera che le pareva ancora distante; ben diversa, sarebbe stata, tuttavia la sua reazione, se avesse davvero compreso quello che il capitano temeva di doverle dire. Trascorse alcune settimane, accadde che nuovamente Elwen e Morwin parlassero; da tempo, ormai, i due evitavano qualunque conversazione, ché un velo adombrava i loro visi quando si incontravano e parola no pronunciavano. Quella sera però Morwin si trattenne a lungo e ambigue furono le frasi che le rivolse: “Ti saluto, signora degli Eldar! Ecco il sole che nuovamente si riposa oltre la coltre di nubi – e così dicendo le indicò il tramonto, rosso sullo sfondo dell’orizzonte – “Poiché ben di rado ci incontriamo in questi giorni, devo dunque dedurre che il tuo cuore sia diventato gelido, come la neve sulle alte vette. Tuttavia so bene quanto la prima impressione si dimostri spesso errata; eppure mi è nota la tua nuova passione che ti tinge di rosso il viso, simile al sole che tramonta nel freddo inverno, pur sempre caldo, ma troppo remoto per riscaldare i cuori che errino lontani sulla terra, sempre che essi non lo supplichino con vive preghiere. E anche allora Arien non troverebbe nessuna ragione per dar loro ascolto, ma anzi deriderebbe la loro fragilità, ritenendo giusto concedere la sua calda luce alla luna e non già a misere creature terrestri. Ben m’avvedo quanto il Numenoreano ti abbia stregato al punto tale da obliare antiche promesse” e così dicendo egli fece per andare via, non avendo altro da aggiungere. “Infame davvero è ogni tua dichiarazione, e ora, ecco, la mia stima nei tuoi confronti diminuisce ulteriormente. No! Frena la tua ira, signore, ché io non ti sono debitrice di nessun giuramento. Dì piuttosto che il tuo risentimento nasce da codardia, più che da rabbia legittima”. Dinanzi a quella affermazione, il viso del sire di Edhellond rimase impassibile: “Può essere – replicò in tono neutro – eppure anche tu riterrai che ben più grave della codardia sia l’infamia. Un cuore menzognero è simile ad una pianta rigogliosa che abbia però radici divorate da vermi ciechi e feroci. Sei tu abbastanza saggia da individuare la prole di tali parassiti?” concluse, abbandonandola allo sconforto. Morwin si era a lungo informato sul misterioso uomo, che così repentinamente era apparso all’orizzonte: emissari egli aveva inviato a Pelargir, dove voci crudeli e cuori codardi gli avevano riferito dell’editto emanato da Ar-Pharazon il dorato contro Erfea. Mai avrebbe dovuto ascoltare la voce della menzogna, l’eco di quella di Sauron: perché anche questa era opera sua ed invero difficile ignorarla quando si possiede un animo tormentato, come quello di Morwin. Grave davvero fu il suo errore, ché pure egli sapeva benissimo quanto fosse malvagio e infido Ar-Pharazon, così come era informato sull’attività dei servi di Sauron tra le genti Numenoreane: eppure, malgrado tutto ciò, veritiera gli parve la notizia pervenutagli. “Bene – si disse – tale è dunque il suo destino, ed è un destino di morte, a meno che non ritrovi il senno e si penta. Grave atto è infatti tradire la propria famiglia”: tale era stato l’inganno teso dai servi di Sauron, che il sire di Edhellond aveva creduto Erfea assassino del proprio padre e della propria madre, e dunque punito giustamente con una grave pena; tuttavia egli non aveva il coraggio di affrontarlo, ritenendolo al di sopra delle sue forze, ché bene conosceva le imprese del Dunadan contro le schiere di Mordor. Il sire di Edhellond intensificò dunque la sua opera di persuasione presso Elwen; e la fanciulla, che sulle prime si rifiutava di credere alle sue parole, alla fine ne fu succube, la sua mente fu oscurata e più non splendettero le stelle nei suoi grigi occhi. “Egli è un traditore e un assassino. Non ritieni che la vita di Elwen sia in pericolo con un uomo così malvagio? Non credi più opportuno salvare l’onore della tua stirpe, piuttosto che un uomo già condannato dal fato? Ricorda quanto la casa di tua madre soffrì per il comportamento subdolo degli uomini; ché se è forte è nel tuo animo il desiderio del mare, ancor più splendente è la luce dei due alberi, che si nutrono del tuo luminoso animo”.
Note
[1] In realtà Erfea non era un ammiraglio, ma il comandante della cavalleria di Tar-Palantir; tuttavia, data la penuria di alti ufficiali nella flotta, ché molti fra questi erano stati corrotti da Sauron e dai suoi servi, il sovrano gli aveva delegato anche tale incarico.
[2] Il sangue di Fingon non scorreva però nelle vene di Morwin, ché questi era stato insignito del titolo di principe allorché il sovrano dei Noldor lo aveva accolto nella sua casa ancora in fasce, in seguito ai saccheggi che gli orchi avevano compiuto nella contrada dello Hitlum durante la Seconda Battaglia (Dagor-nuin-Giliath, La battaglia sotto le stelle) combattuta contro le schiere di Morgoth. Al termine della Prima Era, Morwin aveva condotto una numerosa schiera di Eldar a sud, ove essi avevano edificato il porto di Edhellond.
[3] “La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime”, la quinta fra le battaglie combattute contro Morgoth: essa si concluse con la sconfitta dei nemici del Vala caduto e con la morte di Fingon, Alto Re dei Noldor, per mano di Gothmogh, Signore dei Balrog e Capitano di Angband; durante tale scontro, gli orientali di Uldor tradirono l’alleanza con Maedhros, figlio di Feanor, e si schierarono con il Nemico.