Erfea e l’Albero Bianco

Uno degli elementi più affascinanti della storia della Terra di Mezzo è costituito dalla presenza dell’Albero Bianco a Gondor, erede della più antica pianta che un tempo ornava la dimora dei sovrani di Numenor. Nelle pagine del Silmarillion è narrata la vicenda che portò Isildur a sottrarre, a costo della sua stessa vita, un frutto dell’albero dalla reggia di Ar-Pharazon per preservarne l’esistenza, dal momento che era ormai chiaro ai Fedeli l’infausto destino che l’albero avrebbe conosciuto per mano di Sauron, che sobillava il sovrano affinché lo bruciasse. L’odio dell’Oscuro Signore nei confronti di questa pianta era spiegato in virtù delle sue nobili origini, che risalivano addirittura ai due Alberi di Valinor, la terra degli dei, scomparsi ormai da epoche immemorabili. Attraverso i secoli, nella Terza Era, si mantenne l’usanza di coltivare un esemplare dell’Albero Bianco, la cui sopravvivenza, in qualche modo, era legata a quella stessa di Gondor e della linea di successione di Isildur e Anarion: purtroppo, però, nell’anno 2852 di quell’epoca, l’ultimo esemplare conosciuto di Albero Bianco cessò di vivere e, in mancanza di un suo sostituto, fu deciso di conservarne le spoglie ormai rinsecchite. Nacque così la leggenda dell’Albero Morto, il cui sembiante è visibile anche nel terzo capitolo cinematografico del Signore degli Anelli: in questo film, tuttavia, l’albero rifiorisce dopo lungo tempo (oltre 150 anni più tardi), presumibilmente perché avverte l’arrivo dell’erede di Isildur, ossia di Aragorn. Per quanto la scena della prima rifioritura dell’Albero Bianco dopo così tanto tempo sia davvero suggestiva, nel romanzo gli eventi prendono una piega differente: il vecchio albero, infatti, è ormai irrecuperabile ed Aragorn, prossimo ad essere incoronato re di Gondor, si mostra piuttosto preoccupato per la mancanza di un nuovo virgulto. Gandalf, tuttavia, lo conduce attraverso sentieri ignoti verso un luogo remoto sul Monte Mindolluin che sovrasta la città di Minas Tirith: in quei luoghi l’ultimo erede di Isildur trovò un nuovo alberello. Alla legittima domanda mossa da Aragorn in merito alla provenienza di quel virgulto – che si trovava laddove nessun essere umano si recava più da anni – così rispondeva enigmaticamente Gandalf: «In verità questo è un alberello della linea di Nimloth il Bello; seme di Galathilion e frutto di Telperion dai molti nomi, il più antico degli Alberi. Chi può dire come mai si trovi qui all’ora indicata? Ma questo è un luogo antico, e prima che i re si estinguessero e che l’Albero appassisse, fu indubbiamente deposto qui un frutto. Perché dicono che benché il frutto dell’Albero maturi di rado, la vita in esso può tuttavia covare per lunghi anni, e nessuno può prevedere quando si desterà». (Il Signore degli Anelli, p. 731).

Questo passaggio mi ha incuriosito fin dai tempi della mia prima lettura del Signore degli Anelli: per questa ragione ho deciso di ispirarmi alla misteriosa presenza di un virgulto dell’Albero Bianco in un luogo così inospitale per tracciare un filo invisibile in grado di legare Erfea ai suoi più lontani discendenti…ma non voglio anticiparvi altro, vi auguro buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Grandi distanze egli percorse, e mai nessuno gli si parò innanzi; la sua venuta a Feneria non passò tuttavia inosservata, ché se gli occhi dei mortali sovente sono accecati da empi pensieri, altri sguardi, più acuti, avevano osservato quanto era accaduto nel bianco santuario: le grandi aquile di Manwe, infatti, riconobbero le sembianze del Dunadan e alto levarono un grido di gioia.
Quella notte esse avevano udito squillare il possente olifante di Earendil, ed ora le parole di Erfea Morluin risuonavano al loro udito come una sfida rivolta a Sauron e ai suoi servi; veloci, le ambasciatrici di Manwe si librarono in volo, raggiungendo infine la maestosa città di Andunie. Ivi avevano dimora i discendenti di Silmariel, congiunti dei sovrani di Numenor: Amandil era in quei giorni il loro capostipite e sagge e gradevoli ad udirsi erano le sue parole; Elendil l’Alto, assistito dai suoi eredi Isildur e Anarion, uomini d’arme valorosi, erano con lui. Numerose gesta essi avevano compiuto ed erano altresì esperti di tradizione, tuttavia grande fu lo stupore che essi palesarono, allorché Ar-Thoron, sovrano delle aquile, si inchinò dinanzi a loro.
“A te Amandil del seme di Elros Tar-Mynatur e ai tuoi eredi auguro che mai il vento cessi di soffiare sotto le vostre ali!”
Amandil, che conosceva quale fosse la giusta risposta, replicò inchinandosi: “Possano il sole e la luna splendere ovunque le tue grandi ali ti conducano, araldo di Manwe Sùlimo! Quale motivo ti ha spinto lungi dalla tua remota dimora? Invero questa notte il mio sonno è stato turbato da uno squillo di corno e poi da un altro e da un altro ancora. Rapido mi vestii e, sceso in strada, mi apprestavo a seguirne l’eco, quand’ecco che la Tenebra fu tutta intorno a me e smarrì il sentiero: dovetti attendere l’alba, ché scacciasse le tenebre, per tornare alla mia dimora; tuttavia, molti dei miei congiunti hanno udito il medesimo suoni e si pongono simili quesiti.”
“La mia venuta in questo luogo e quanto accaduto questa notte sono fatti di estrema importanza e tra loro intrecciati, Amandil, ché i miei occhi hanno scorto colui che ha turbato il tuo riposo.”
“Dov’ è costui? – l’interruppe il signore di Andunie – Deve essere stato un uomo di grande vigore, se l’eco del suo olifante è giunto da sì lontano.”
Annuì lentamente Ar-Thoron, mentre con il suo becco adunco lisciava il suo prezioso piumaggio: “Quanto affermi, corrisponde a verità, figlio di Numendil, ché invero possente è Erfea dell’Hyarrostar, che il tuo popolo chiama il Morluin.”
Palese divennero allora il sollievo e la gioia sui visi dei signori di Andunie, ché il figlio di Gilnar era loro noto e ne conoscevano il fiero valore. Tosto Elendil soffiò nel suo magnifico olifante il cui nome era Culkarak [1], ché era stato ricavato da una zanna di mumakil, che oggi si dice viva ancora nelle remote foreste dell’estremo Harad; forte e limpido echeggiava il suo suono, ed ecco, ora convocava  tutti i fedeli che avevano dimora nella signoria di Andunie.
Non dovette attendere a lungo il figlio di Amandil, ché tosto uomini e donne, possenti giovani e canuti anziani, si radunarono all’ingresso della sua dimora.
“Non tutti i Numenoreani sono sottoposti al volere di Sauron”, fece notare Amandil, mentre la folla inneggiava agli Eldar e all’Uno che è sopra i custodi di Arda; finanche Ar-Thoron rimase sorpreso nello scorgere la moltitudine di Fedeli che si erano ivi radunati: “Se tale è il corso del mondo, per cui tutto debba andare in rovina, tuttavia oggi dico che la speme sopravvivrà a lungo fintanto che la tua stirpe, Amandil di Andunie, perduri.”
Isildur, giunto in quel momento, ascoltò quanto l’aquila aveva detto e serbò nel suo cuore la sua ultima osservazione, ché presagiva quale valore la sua casata avrebbe conservato nei giorni a venire, quando la stirpe di Ar-Pharazon sarebbe stata consumata dallo stesso odio che gli aveva permesso di giungere al potere; parola però non pronunciò, ma afferrata la propria spada, la levò in alto in un impeto di gioia e rise a lungo.
Frattanto, Amandil aveva pregato l’aquila di raccogliere quante più informazioni possibili, ché egli era cosciente di quale minaccia gravasse il peso sulle spalle di Erfea, mentre alcuni fra la sua gente, uomini abili e furtivi, si erano offerti di rintracciare il Morluin prima che la luna tramontasse.
Lunga sarebbe stata però la cerca, ché non solo i Fedeli, ma anche agenti dei Nazgul erano stati inviati in ogni contrada dell’isola, spinti dal medesimo obiettivo, né Sauron l’Aborrito si era dato per vinto, ché covava nel suo nero cuore la speranza di avere in dono le spoglie del paladino quanto prima.

Erfea Morluin, sebbene il fardello sulle sue spalle non fosse svanito e il capo gli dolesse per la stanchezza, era riuscito, a costo di grandi fatiche, a far perdere le proprie tracce ai seguaci dei Nazgul, mentre percorreva l’antica strada che dal Luogo del silenzio conduceva ad Armenelos, sede dei re e dimora dell’Albero Bianco, erede del frutto di Nimloth il Bello, germoglio dell’Albero di Tirion, che si diceva fosse l’immagine vivente di Telperion il Bianco, che in epoche passate reggeva le sorti del mondo.
Il Dunadan attraversò le strade di Armenelos, celato dal suo manto scuro, mentre intorno a lui bambini si rincorrevano senza alcuna sosta fra i vicoli sporche e senza luce; giunto infine dinanzi alla valle di Noirinan, ove erano conservate le spoglie mortali dei monarchi di Elenna, il Dunadan arrestò il proprio passo, ché era sua intenzione onorare l’ultima dimora di Tar-Palantir, sovrano di Numenor e padre di Tar-Miriel. A lungo egli vagò, in cerca di quanto i suoi occhi desideravano, finché si prostrò innanzi al suo sepolcro: questo era imponente, edificato con marmo pregiato e intarsiato di laen nero e non era meno nobile delle sepolture che tutto intorno si ergevano; eppure l’opera del tempo corruttore non l’aveva risparmiato, corrodendo le iscrizioni ivi scolpite. Nessuno fra i mortali udì le silenziose parole che Erfea, figlio di Gilnar, pronunciò in quell’ora, ché nessuno era con lui in tale luogo ed esse sono per noi perdute: tuttavia egli non sostò a lungo, ché il giorno giungeva al meriggio e non aveva completato ancora la sua missione; allora si levò, e fatto scivolare il suo lungo manto, egli rivelò il suo sembiante al sovrano, in segno di eterna riconoscenza. Infine, abbandonato quel luogo deserto, affrettò il passo, ché una minaccia gli opprimeva il cuore ed egli era confuso e stanco, ostinato tuttavia nel voler portar a termine il proprio compito: dopo aver percorso dieci miglia, sospirò, ché, sebbene avesse raggiunto la sua meta, pure il suo cuore era turbato e tetro.

Silenzio si poteva udire per molte leghe intorno, disturbato solo dal pesante incedere dei passi del ramingo perso nella cupa nebbia, repentinamente levatesi.
“Una potenza malefica è all’opera – mormorò Erfea, rabbrividendo nel pronunciare simili parole, ché mai aveva avvertito un simile orrore sulla cima del Menalterma, ed egli era solo e privo d’aiuto; tuttavia il tempo non s’era arrestato, ed egli si mosse nuovamente, sguainando la sua lunga lama, Sulring la splendente, forgiata secoli addietro dalla sapiente arte dei fabbri di Gondolin; grande era il legame che vincolava Erfea alla propria arma, ché le era stata consegnata anni prima direttamente dalle mani del supremo re dei Noldor Gil-Galad; tuttavia, soffocato com’era dalla nebbia insidiosa, egli si avvide tardivamente dell’apparizione di una luce azzurra, in principio tenue, poi vivida sulla lama della sua possente spada, latrice di grave pericolo; tale era infatti il comportamento delle armi forgiate a Gondolin, quando esse si imbattevano nei servi di Morgoth, fossero orchi o di altra razza.
Improvvisa, una voce si levò nella tenebra: “Tarda è l’ora di Numenor, figlio di Gilnar, e ancora più tarda è la tua venuta in questo luogo. A lungo hai percorso il tuo cammino nelle tenebre tessute di inganni, eppure sappi che nulla può essere celato al nostro sguardo.”
Pronta fu la risposta del Dunadan, ché non gli era sconosciuta l’identità del suo invisibile interlocutore, ed era conscio della presenza di altri nemici tutto intorno a lui: “È lecito supporre da parte mia che quanto tu dica sia vero, perché negarlo sarebbe insensato e pericoloso. Tuttavia, sebbene il vostro dominio su quest’isola debba perdurare per dolorosi anni, essa sarebbe solo un frammento di Arda e non Arda stessa.”
Rise un’altra voce nella Tenebra: “Parole artificiose le tue, Morluin, dettate da una mente ormai vacillante. Non è forse Elenna prossima a Tol-Eressea, cancello dell’immortalità? Cos’altro potrebbe essere la conquista di questo avamposto per le Terre Imperiture, se non la promessa di un successo, del raggiungimento di un fine?”
“Il vostro padrone – ribatté Erfea, tenendo accanto al proprio corpo la spada, ché sapeva essere prossimo un attacco – non può dimostrarsi al tempo stesso corruttore ed ispiratore, dominante e dominato. Presto egli rivelerà il suo vero sembiante e palese diverranno le sue intenzioni.”
“Veritiere sono le tue parole, Numenoreano – pronunciò una terza voce nell’oscurità – temo tuttavia che tu non possa impedire in alcun modo al nostro signore di reclamare il proprio dominio su questa isola; già le mie orecchie odono i cuori degli uomini avvizzire e consumarsi nel lungo gelo della loro lenta agonia.” Luminosa era ora la spada di Erfea Morluin, ché egli era prossimo a raggiungere l’ingresso della sala e i suoi nemici gli erano prossimi; tuttavia non esitò a parlare nuovamente: “Quale ricompensa vi ha riservato il vostro signore? Oppure ritenete che la schiavitù eterna sia un dono sufficientemente grande da placare la vostra insaziabile ambizione?” Risa orribili ad udirsi riecheggiarono nel cortile deserto, ora distanti, ora prossime al guerriero di Numenor; infine una voce stridula si levò sopra le altre: “Non essere sciocco, Dunadan! Credi che le nostre orecchie siano sorde e ciechi i nostri occhi? Se nessuno ha ancora levato la propria spada contro di te avviene perché altri sono i nostri scopi.”
Beffardo ripose Erfea: “Forse quanto affermi corrisponde a verità, eppure mi è sconosciuta la vostra risposta alla mia domanda! Avanti dunque, servi di Sauron, rivelate i vostri scopi!”
Una quinta voce si levò nel grigiore della sera, ed era colma di scherno: “Nessun intelletto mortale può comprendere quali ricchezze i nostri spiriti abbiano accumulato: saggezza infinita si è dischiusa innanzi alle nostre menti, lungi dalla vostra scienza.”
Rabbiose ululavano adesso le voci dei servi di Sauron, ché essi erano impazienti di distruggere il loro nemico, intrappolato dagli oscuri lacci della negromanzia di cui erano esperti usufruitori, ed ora seguitavano a parlare senza interruzione alcuna: “Qualunque mortale può impugnare codeste armi e indossare tali cenciosi stracci elfici! Morte è il tuo destino, ché ignoti sono a te e a quanti si oppongono al nostro dominio, gli artifizi per giungere a una sorte diversa.”
“Così è – fece eco una settima voce – dal momento che Eru Iluvatar è fuggito dal mondo e gli Ainur si sono dimostrati imbelli nel governarlo, ché il loro dominio è prossimo a crollare. Grandi saranno le ricompense per coloro che si riuniranno sotto lo stendardo di Melkor, il padrone del Fato: immenso è il suo potere e inevitabile la sua vittoria”. Un ottavo essere proseguì nel parlare: “Egli è dio delle Verità, ed esse sono infinite. Io sono una Verità” concluse, ridendo beffardo.
Più parola venne pronunciata, mentre il lieve tintinnare dell’acciaio risuonava fosco alle orecchie del Dunadan; egli tuttavia attese ancora, infine parlò nuovamente: “Ho ascoltato le voci di ciascuno di voi, ed esse non mi sono ignote, al pari dei vostri nomi: Uvatha, Ren, Adunaphel, Hoarmurath, Akhorahil, Indur, Dwar e Khamul, gli spettri dell’Anello, servi di Sauron. Tuttavia, esitate ad attaccarmi, ché non avverto la presenza del vostro capitano, essendo egli lontano: altri incarichi gli ha affidato il signore di Mordor in sua assenza, e non può soccorrervi.” Rise, dapprima in modo sommesso, infine con forza, poiché il momento del confronto era giunto: “Aure entuluve! Il giorno risorgerà!” e così dicendo soffiò nel proprio corno con forza. I Nazgul, tuttavia, non scomparvero, ché era desiderio del loro padrone impossessarsi di Erfea onde corromperlo e acquistarlo alla propria causa, cosicché avanzarono lentamente, con le lunghe lame protese in avanti: scintille schizzarono via, quando le spade furono a contatto, si ché la nebbia fu illuminata da bagliori simili a stelle remote ed effimere nella notte. Lesta era la mano di Erfea e potente il suo braccio; tuttavia vana sarebbe stata la sua difesa, se non fosse intervenuto tempestivamente Ar-Thoron, re dei Venti. Forte gridò Erfea, quando riconobbe il magnifico uccello che gli si parava innanzi, e il suo cuore fu colmo di gioia e sorpresa, ché aveva obliato le grandi aquile di Manwe e la loro lungimiranza: rapido si aggrappò al possente grinfio illuminato dalla luna e presto fu sollevato in aria, mentre al suolo, gli Ulairi chiamarono con urla stridule il loro capitano. Il Re-stregone, tuttavia, avrebbe dovuto percorrere circa settecento leghe a volo d’uccello, cosicché egli non fu in grado di soccorrerli tempestivamente, ragion per cui essi si ritirarono nella Tenebra, delusi e sconfitti, recando notizie di cattivo auspicio al Maia decaduto. Nessuno fra i Numenoreani dormì quella notte, ché il loro sonno fu turbato da fantasmi ed arcane paure, sebbene levatisi al mattino, conservarono solo un pallido ricordo di quanto era apparso loro in sogno.
Più furono visti i Nazgul a Numenor, ché l’Oscuro Signore destinò i loro spiriti ad altri incarichi, ed essi mutarono nuovamente sembianza, risultando così irriconoscibili agli occhi dei mortali; pure, è stato detto che essi covassero nel profondo dei loro cuori neri odio indicibile per Erfea Morluin, e non smettessero mai di dargli la caccia, fin quando la Seconda Era non fu conclusa ed essi scomparvero nell’ombra.

“Figlio di Gilnar, non è la prima volta che i miei occhi si posano sulle tue sembianze mortali, ché ieri ti vidi discorrere a lungo con la sovrana di Numenor. Ar-Thoron è il mio nome, re dei venti e messaggero di Manwe Sùlimo. Quali notizie porti dalle contrade ove hai trascorso il tuo lungo esilio? Quali auspici ti spinsero a recarti in luoghi ove la Tenebra regna sovrana? Pochi sono coloro che fra i mortali possono opporsi ai nove servi di Sauron, e ancora meno coloro che conoscono i loro nomi.”
“Temo che niente di quanto ho compiuto nei miei tristi pellegrinaggi sia per te ignoto” gli rispose Erfea, mentre sorvolavano ampi pascoli e borghi fatiscenti.
“Acuto è il mio udito, e molti racconti giungono dinanzi al re degli uccelli, eppure finzioni e realtà sovente si accompagnano. Tuttavia, quanto dici è vero, ché sebbene tu abbia compiuto imprese degne di nota, in luoghi remoti e oscuri, le aquile di Manwe sono ancora vigili e nulla di quanto i figli di Eru compiono è motivo di sorpresa. Rapido è il nostro volo, silenzioso nella bruma della sera, tale che ben pochi fra gli Edain e gli Eldar avvertono la nostra presenza; eppure, l’Oscuro Signore è vigile e le sue spie sono ovunque. Il mio cuore mi dice che verrà un tempo in cui il loro potere si estenderà all’intera Numenor, e noi saremo costretti a fuggire altrove.” A lungo meditò Erfea, infine gli rispose: “La grande guerra contro Sauron è prossima, ché se anche Elenna fosse avvolta nella tenebra corruttrice, ecco che altri popoli prenderebbero le armi per battersi contro Mordor e le sue schiere. I cuori della Seconda Stirpe non sono stati tutti corrotti, e la speme vive ancora, nelle aule dei nani nelle profondità delle montagne, così come tra le foglie dei boschi della Terra di Mezzo, ove dimorano ancora gli Eldar, nei ricchi palazzi dei signori e nelle umili capanne dei pescatori del Belfalas[2]. Finanche a Numenor alcuni oppongono resistenza a Sauron, ed essi sono miei leali congiunti. Dove è la dimora di Amandil, figlio di Numendil, signore di Numenor? Conducimi presso la sua città, te ne prego, ché grande è il mio desiderio di discorrere con lui.”
Rise la grande aquila di Manwe: “Curiosi sono invero i destini dei mortali, e lungimiranti i figli di Elros Tar-Minyatur! Sappi, infatti, Erfea Morluin, che codesta è la meta del nostro viaggio, ché altri sanno della tua presenza qui ad Elenna e non tutti fra essi sono tuoi nemici. Sii paziente, e narrami le vicende che ti hanno spinto ad attraversare il tempestoso dominio di Osse, conscio della condanna che grava sul tuo capo.”

A lungo Erfea gli parlò di quanto era accaduto nella Terra di Mezzo durante il suo esilio, narrandogli dei suoi viaggi da Tharbad a Rhun[3], da Mordor fino all’estremo Harad, ove le costellazioni sono differenti dalle nostre. Ar-Tharon ascoltò con attenzione, infine sospirò profondamente: “Mi erano giunte voci sulle tue peregrinazioni, eppure non avrei mai creduto che un mortale si fosse spinto finanche a Gorgoroth[4]! Eppure, Erfea, sei un uomo di grande valore, né leggo malizia o inganno alcuno nei tuoi occhi. Ahimè – continuò – pondererò quanto mi hai riferito; sappi tuttavia che il fato è immutabile così come lo è la Profezia di Mandos; cupi sono stati i miei pensieri in questi giorni disperati, eppure il tempo dell’attesa è ormai terminato.”
Tacque Ar-Thoron, e parola non pronunziò più Erfea, affascinato dalla visione che gli si schiudeva in basso: come un fiore in primavera dischiude lentamente il suo calice, trepidando di gioia per l’evento, così ora le bianche nuvole si sollevarono ed egli vide una grande città di uomini; bianca e remota pareva, eppure egli ne conosceva ogni segreto recondito, ché quella era Andunie la Bella, fortezza dai potenti bastioni e feudo di Amandil il Lungimirante, della stirpe di Elros Tar-Minyatur. Breve fu la discesa, ché l’aquila puntò su una grande piazza, lì ove molti uomini e donne si erano radunati: fra essi vi erano tre imponenti guerrieri, la cui l’altezza superava quella di ogni altro tra i presenti.
Lieto divenne il volto di Erfea, quando riconobbe i volti di coloro che l’attendevano trepidanti; tuttavia, ancora prima di porgere loro il saluto, egli si congedò dalla sua possente guida e salvatore: “Possano i giorni dei Valar perdurare allorché la Tenebra calerà i suoi velenosi strali sui regni degli Eldar e degli Edain! Non tutto mi è dato di conoscere, tuttavia, se il mio cuore non si inganna, sappi che all’ora prestabilita dal Fato, quando ogni speme sembrerà perduta, ci rincontreremo e molti altri della tua stirpe saranno con noi.”
“Possa quel giorno non tardare – gli rispose l’aquila, mentre Erfea le si inchinava grato – sebbene numerosi mali debbano sopraggiungere in quell’ora disperata. A lungo squillerà il tuo olifante, che la pugna sarà feroce e la morte prossima, tuttavia esso infiammerà molti cuori e non tutto andrà perduto.” Prostratosi a sua volta, Ar-Thoron volò via, mentre il tripudio della folla accoglieva festante l’esule Numenoreano: bardi e cantori presto accorsero da ogni contrada e ivi fu celebrato un grande banchetto, ché la venuta di Erfea era a tutti gradita. Balli e canti animarono il lungo festino, eppure il volto di Erfea, dopo aver al principio gioito, adesso era scuro e neppure le luci dei grandi bracieri si riflettevano nei suoi occhi: a lungo egli ristette solo, tormentato da numerosi pensieri, ignoti a quanti lo circondavano.
Infine Anarion, il secondogenito di Elendil, gli si avvicinò: “Quali angustie ti tormentano, signore di Minas Laure? Talvolta il desio irrealizzabile causa profondi dispiaceri; ignoro quale sia il motivo per cui parola non pronunci, tuttavia non pretenderò di conoscerne la causa, se il tuo parere sarà contrario.”
“Mio signore, invero lungimirante  è stato  il tuo pensiero. Sono prigioniero delle medesime paure inflittemi in questi anni di tormento, e sebbene il mio cuore desideri recarsi al di là del mare nella ridente Edhellond, ove ogni cosa è a me cara, qui ha dimorato per lungo tempo la mia anima ed essa esige il suo riscatto.” Parola più non pronunciò Erfea, ma fatto cenno al giovane principe di seguirlo, cavalcò a lungo nella notte, e dopo alcuni giorni raggiunse la sua città natia.
Silenziosi erano i colli e le stelle splendevano vivide e remote nell’oscura cappa che avvolgeva Endor: giunti che furono innanzi al cancello, nessuna voce li accolse, né alcun suono allietò l’animo di colui che era stato capitano sotto Tar-Palantir. Solo il silenzio diede il suo benvenuto ai due viaggiatori, e solo l’eco di quello che un tempo era stato echeggiava ora nel cuore di Erfea, mentre egli si aggirava tra rovine corrose dall’incuria del tempo. Nessuno, ad eccezione dei piccoli animali furtivi della notte, scorse i due uomini, ed essi mai fecero parola con altri di quanto avevano scorto.
Nulla fu detto del loro viaggio a ponente e i ricordi furono gelosamente custoditi; tuttavia gli storici ritengono che da quell’episodio sia sorta la forte amicizia che Erfea ed Anarion strinsero e che perdurò fino alla morte di quest’ultimo, durante l’assedio a Barad-Dur.

Trascorse alcune settimane nella città di Andunie, alla vigilia di Loende[5], Erfea si recò alla dimora di Amandil e gli rivolse la parola: “Forte è in me il richiamo delle spiagge della Terra di Mezzo, ed ecco il mio cuore anela ad esse. Giungo alle aule del signore di Andunie per salutarlo, affinché il suo destino possa essere diverso dal mio ed egli non abbia a disgiungersi dagli affetti che lo circondano.”
Silenzio regnò nella sala, mentre Amandil accarezzava la sua corta barba; infine così rispose al suo ospite: “Erfea, figlio di Gilnar, della casa degli Hyarrostar, le porte della mia dimora e di quelle della mia gente saranno sempre aperte per te. Ahimè! Qualunque sia il tuo compito in questa contrada, esso deve essere di gran lunga più arduo di quanto io possa immaginare: tuttavia, se tale è il tuo volere, possa la mia benedizione accompagnarti fino alla fine dei miei giorni, ché verranno tempi in cui il tuo volere plasmerà le sorti di tutti noi. Sono lieto di aver dato a te la mia più calda ospitalità, tuttavia rimpiango il poco tempo che ci è stato concesso per discutere di quanto hai appreso in questi sofferti anni d’esilio. Va’ ora e che la buona sorte ti accompagni ovunque si dirigano i tuoi passi!” [qui consiglio di leggere il seguente articolo: Sauron, il politico]

Erfea, sebbene non avesse sentore di quanto accadeva, pure avvertì tangibile la presenza di un’Ombra, la quale si dileguò rapidamente così come era giunta; allora, egli si recò nel cortile dell’Albero Bianco e ivi inginocchiatosi, ché esso era emblema di Varda e benedetto da Yavanna, ne colse un frutto, che ripose poi nella propria sacca. Rapido allora si allontanò, percorrendo sentieri sconosciuti ai servi di Mordor, finché, al calar del sole, non giunse al porto di Romenna, ove recuperò il suo naviglio; tardivi furono i guerrieri di Sauron, ed essi non lo seguirono in mare, ché temevano la collera di Osse di gran lunga rispetto a quella del loro padrone, né questi aveva potere sulle vaste acque del Belagaer. Calma era adesso la notte e il vento spirava nella direzione corretta, tuttavia Erfea non prese riposo, ma ritto sulla poppa, mirò allo specchio che Celebrian gli aveva donato, e il suo cuore ne fu sollevato, ché da tempo non osservava il dolce sembiante di colei a cui volgeva il pensiero grato. Lunga fu la sua navigazione ed egli molto dovette penare, eppure al termine di Yaramie, giunse alle bianche spiagge di Harlindon, ove Cirdan lo attendeva lieto. “Ben m’avvedo che quanto cercavi hai ottenuto, tuttavia non vi è letizia nei tuoi occhi.” Triste Erfea lo osservò, infine rispose: “Lungimirante è la mente di Cirdan del popolo dei Sindar! Invero un grande dolore alberga nel mio cuore ed esso non potrà mai essere lieto, salvo che il destino del mondo venga mutato e quanto accaduto di recente svanisca dalle menti ottenebrate.” Altre parole non pronunziò, congedandosi in tal modo dal Signore dei Porti: questi però scosse il capo e a lungo sospirò, ché i suoi occhi scorgevano in profondità negli animi degli Eldar e degli Edain più di chiunque altro nella Terra di Mezzo, ed egli tosto comprese quanto il silenzio del Dunadan avesse occultato.

Erfea Morluin, allontanatosi dal Lindon, si diresse in seguito alla volta della città di Tharbad, ove un tempo aveva vinto una grande battaglia contro i seguaci di Ar-Pharazon; tuttavia, pochi fra i cittadini serbavano ricordo di quell’evento e ancora meno osavano farvi accenno, ché molti e potenti erano i seguaci di Sauron e del re al Nord; abbandonata allora la città, egli intraprese un grande e periglioso viaggio, che lo condusse, attraverso la breccia del Calhenardon e i guadi dell’Angren[6], fino a Sud, alle dorate sponde dell’Anduin il Grande.
Altri uomini avevano occupato quelle contrade deserte e grande fu lo stupore di Erfea, allorché comprese che essi non erano soldati del sovrano, ma suoi consanguinei ed amici degli Eldar, fuggiti da Numenor alcuni anni prima. A lungo Erfea rimase presso codesti esiliati, condividendone le pene e la rabbia che covavano nei loro cuori: alcuni, infatti, avevano compreso che Numenor era per loro perduta e che mai più vi avrebbero fatto ritorno; altri, invece, figli di Numenoreani e delle donne locali, non erano stati ben accetti agli arroganti sostenitori del Re, che consideravano corrotta la loro discendenza, e fuggivano da essi.
Grandi edifici furono innalzati, e presto gli esuli ebbero dimore confortevoli situate su entrambi gli argini del Grande Fiume: in tal modo ebbe dunque origine la città di Osgiliath, che sarebbe divenuta la capitale del regno di Gondor nei secoli futuri, quando Numenor sprofondò negli abissi. All’epoca, tuttavia, ben pochi fra gli esuli avrebbero immaginato una simile rovina; sebbene, infatti, le opere che edificassero in quei giorni allontanassero dai loro cuori la nostalgia e le privazioni delle loro esistenze, esse non erano altro che pallide imitazioni di quanto i loro animi desideravano con veemenza e sapevano non poter più mirare. Torri e manieri, porti e santuari essi eressero a guardia di quelle contrade, ché il Nemico era molto potente ed essi temevano le scorrerie che gli orchi compivano nella notte: i reami degli Haradrim a meridione e quelli degli Esterling a settentrione ne segnavano i confini, mentre a levante, le lugubri fortezze di Mordor pullulavano di creature ricolme di nequizia; pure sarebbe giunta alla fine la vittoria, sebbene lo scotto che i Popoli Liberi avrebbero pagato sarebbe stato arduo da obliare.

In quei giorni Erfea prestava la sua collaborazione a quanti la richiedevano e cavalcava velocemente, percorrendo numerose leghe: ad est i suoi passi lo conducevano, per respingere l’Oscurità di Mordor, eppure il suo cuore ambiva alla splendente luce del Vespro, ed egli sovente guardava nello specchio donatogli da Celebrian di Rivendell. Una grande inquietudine si agitava nel suo animo, ché Inrive[7] era prossimo e nessun segno gli era giunto; infine una notte di Ringare[8], in sogno gli apparve Tar-Silwen, un tempo regina di Numenor e madre di Tar-Miriel, morta anni prima: a lungo ella gli parlò, sì ché il Dunadan comprese che il segno da lui atteso era finalmente giunto. Il mattino seguente, egli cavalcò ratto diretto al Mindolluin, un monte posto all’estremità orientale degli Ered Nimarais[9]; ivi giunto, percorse sentieri impervi, ignoti ai mortali, finché non raggiunse la vetta: il sole era appena tramontato e grandi nubi riflettevano i variopinti colori del tramonto. Erfea, compresa che l’ora prestabilita era giunta, scavò una fossa profonda un piede e larga altrettanto, ove ripose il seme dell’Albero Bianco; quando ebbe terminato, una voce parlò nella sua mente: “Hai operato bene, figlio di Numenor ed io farò sì che nessuno possa disturbare la sacra quiete di questo luogo, finché l’Erede non venga a reclamare il suo trono.”
Lentamente Erfea si chinò e ivi rimase in silenziosa preghiera, ché il suo compito era ora svolto; infine si levò, e l’ultimo scintillio del sole fu catturato dall’elmo in mithril che egli recava con sé, mentre discendeva lungo i declini scoscesi: più il figlio di Gilnar vi fece ritorno, finanche quando stabilì definitivamente la propria dimora nel regno di Gondor, ché smarrita era in lui la memoria di codesto luogo.
Eppure, lungimiranti furono i Valar e benedetto il coraggio del Morluin, ché Aragorn figlio di Arathorn, discendente di Elendil, fu incoronato Re di Gondor, e come narrano le cronache di quei giorni, insieme a Mithrandir[10] individuò e diede dimora al germoglio dell’Albero Bianco, erede del seme che il Dunadan aveva recato da Numenor, affinché fosse vivida testimonianza della maestà e della bellezza degli Antichi Giorni e auspicio di prosperità per i tempi futuri».

Note

[1] “Corno rosso” nella favella dei Noldor.

[2] Promontorio situato nella regione di Gondor, a sud delle Montagne Bianche.

[3] Regione di Mordor.

[4] Contrada posta ad est del fiume Celudin e abitata dagli Esterling.

[5] Il centottantatreesimo giorno dell’anno, detto anche di Mezza Estate.

[6] Il Calhenardon era una contrada posta a nord di Gondor e scarsamente abitata; durante gli anni del dominio di Sauron, tale regione fu fortificata e ne fu impedito l’accesso a chi non fosse servo dell’Oscuro Signore: codeste fortezze andarono tuttavia in rovina negli anni in cui Sauron fu tratto in catene a Numenor. L’Angren, chiamato dagli uomini del Rhovanion Inondagrigio, attraversava la breccia del Calhenardon nella sua lunghezza ed era immissario dell’Anduin.

[7] “Inverno”, nella favella degli Elfi Grigi.

[8] “Dicembre” nella favella degli Elfi Grigi.

[9] I Monti Bianchi.

[10] Mithrandir era uno degli Istari (stregoni) giunti da Valinor per aiutare le genti libere nella loro lotta contro i servi di Morgoth; egli era anche noto con il nome di Gandalf presso gli uomini del Nord, Tarkhun presso i nani ed Incanus nelle terre del Sud; pochi furono in grado di comprendere la reale identità che lo stregone celava sotto mentite spoglie, tuttavia in seguito alla sua di partenza si seppe che egli era un Maia di Manwe, il cui nome nelle lingua degli elfi di Valinor era Olorin.