Dopo avervi presentato, nei precedenti articoli, la storia della gioventù di Erfea, passo adesso a dedicare la mia attenzione all’altro personaggio protagonista del «Ciclo del Marinaio»: Miriel, l’unica figlia di Tar-Palantir, destinata a diventare regina di Numenor. Un prima descrizione di questa bellissima e sfortunata donna potrete leggerla ai seguenti articoli: Miriel; Post-scriptum su Miriel; Ritratto di una principessa. In questi nuovi articoli, invece, leggerete dell’infanzia della principessa Numenoreana e degli oscuri presagi che, sin dalla sua nascita, gravarono sul suo destino. Questo racconto mi è stato ispirato dalla lettura di un’antica leggenda, intitolata «La bella Deirdre»: essa mi affascinò sin da quando era piccolo, perché il destino della protagonista, figlia di Conchobar, re d’Irlanda, mi aveva ispirato sentimenti di pietà e di commozione. Il nome di questa fanciulla, infatti, in gaelico era traducibile con «minaccia» e sulle sue spalle gravava un tremendo destino: la sua bellezza, quando fosse cresciuta, avrebbe scatenato grandi spargimenti di sangue, senza, tuttavia che lei potesse attribuirsi qualche colpa per queste sciagure, perché non avrebbe potuto fare nulla per evitare queste disgrazie. L’impossibilità di cambiare il proprio fato, nonostante tutti gli sforzi intrapresi in direzione opposta, rappresenta una delle punte più alte delle tragedie umane; basti pensare alla vicenda dell’eroe greco Edipo, «condannato» da una profezia a uccidere il proprio padre e a sposare la madre (non conoscendo la loro reale identità), sovvertendo così le leggi naturali, senza tuttavia avere alcuna intenzione di macchiarsi di tali crimini, ma finendo vittima di un Fato contro il quale non ci si può ribellare. Per gli antichi Greci, infatti, il Fato era una divinità così potente da atterrire perfino Zeus, il padre degli Dei dell’Olimpo…
Buona lettura, aspetto i vostri commenti! Il racconto che trascriverò nei prossimi articoli è uno di quelli che più mi hanno appassionato nel corso della sua ideazione: mi auguro che possa piacervi, così come a me è piaciuto scriverlo!
«Sul finire della Seconda Era della Terra di Mezzo, grande era diventata la potenza dei Numenoreani, fondatori di un impero quale mai fino a quel momento si era visto: grandi forzieri ricolmi di oro e pietre preziose, tra le più belle di Endor, riportavano in patria i possenti vascelli della flotta del re degli uomini.
Cresceva la gloria dei mortali, e altresì il malcontento e l’invidia, ché mai i Numenoreani erano sazi dei tributi che gli Edain della Terra di Mezzo inviavano loro e sempre desideravano l’immortalità degli elfi, al punto che disdegnavano le loro pur lunghe vite, ritenendole indegne e misere. Agenti di Sauron erano fra loro in quella epoca, ché anche questa era opera sua, ed egli si deliziava ascoltando, chiuso nella sua torre a Mordor, quali frutti avevano fatto germogliare i suoi semi avvizziti. Oscuri erano in quei giorni i pensieri dei Numenoreani, ed ecco essi non volsero più i loro chiari occhi alle limpide acque a levante, lì ove aveva sede Anor, ma presero a desiderare ardentemente le cerulee acque di Tol-Eressea e di Valinor, sede degli dei immortali.
Messaggeri furono inviati da Aman per placare la follia degli uomini, ma a nulla valsero la saggezza e la prudenza.
“Quale diritto hanno i Priminati, per custodire sì gelosamente l’ingresso alle Terre Imperiture? Perché gli dei hanno permesso che i nostri destini fossero mortali? Come bestie trascorreremo dunque le nostre vite, fin quando il presente non sarà più, e il passato e il futuro saranno ricolmi del fetore della morte? Se la nostra esistenza supera in durata quella degli uomini dell’oriente, dobbiamo forse ritenere che essa sia un dono? Dovremmo forse rallegrarci di trascorrere gran parte della nostra vita elevandoci per forza e possanza, per poi doverle cedere di colpo? Come un vascello che trascorre lunghi inverni, sfidando le impietose acque dell’oceano, per poi arenarsi e affondare triste quando le gomene sono strappate e le vele lacere, così la nostra vita si consuma e infine declina. Ahinoi! Tale è dunque il nostro destino, che sarebbe di gran lunga preferibile non godere del dolce ed effimero tepore della vita, piuttosto che doverlo soffocare nel freddo abbraccio della morte!”
Simili parole gli uomini levarono irati verso gli dei, senza mai aver tuttavia la pazzia o la sfrontatezza di invadere le beate terre di Aman.
Per lunghi secoli, essi rovesciarono il loro odio sulle popolazioni della Terra di Mezzo; tale fu dunque l’inizio della guerra tra Numenor e gli altri popoli, sì rovinosa che mai altra sventura portò conseguenze così amare per la stirpe degli uomini. Molti furono i vascelli che gettarono le loro pesanti ancore, colmi di saccheggiatori ingordi e arroganti, nelle verdi baie di Endor; bene conoscevano quelle acque, i Numenoreani, ché all’epoca della prima guerra contro Sauron, quando i loro cuori non erano ancor volti all’oscurità, essi avevano sollevato dalla miseria gli sfortunati e infelici abitanti, sbaragliando le armate dell’Oscuro Signore. Ora invece giungevano da padroni, bruciando villaggi e razziando tutto quello che le loro turpi mani riuscivano ad arraffare; alto allora si levò il grido di agonia e di dolore, e il rosso sangue macchiò le foreste che mai mano umana aveva osato deturpare.
Non tutti i Numenoreani, però, intrapresero la strada senza ritorno della follia; i Fedeli furono chiamati costoro, ché continuavano ad onorare gli antichi dei, mantenendo in vigore l’antica alleanza e amicizia sia con gli Eldar sia con i liberi popoli mortali. A quella epoca il più coraggioso e saggio tra loro aveva nome Erfea Morluin, figlio di Gilnar, della casata degli Hyarrostar, acerrimo nemico di Sauron e dei suoi servi. Numerose imprese il prode Numenoreano compì e grande fu la fama che raggiunse in quelli oscuri e perigliosi anni, quando le armate di Mordor dominavano sulla Terra di Mezzo e i lupi selvaggi scendevano dai monti del Nord in cerca di prede; molti viaggi intraprese Erfea, sia per mare che per terra, e a lungo visitò i boschi e le valli di Endor, subendone il fascino e ammirandone l’antica maestà e bellezza, sì che il suo cuore sempre desiderò riposare in quei luoghi ameni, e ivi attese il dono di Mandos, quando giunse l’ora. A lungo i bardi narrarono delle gesta che Erfea e i suoi compagni compirono in numerose occasioni; tuttavia questo racconto non tratta di quelli eventi, ma di un periodo precedente, prima che il Signore degli Stregoni cadesse innanzi al cancello di Edhellond e Erfea visitasse la fortezza di Umbar[1].
Sul finire di quell’anno[2] nuovamente si era accresciuto il potere dei Numenoreani Neri, ed essi ormai dominavano sia in Senato che nel Consiglio dello Scettro, allora preseduto da Tar-Palantir, che ben si avvide della loro grande influenza sul popolo; non era tuttavia lieto di quanto accadeva, ché i suoi pensieri andavano alla casa della madre, nota ai Fedeli per il suo carattere indomito e fiero.
Tar-Palantir aveva un’unica figlia, Miriel, la cui bellezza era simile alla chiara notte estiva, quando alta splende Ithil sulle bianche montagne di Avallone[3]; luminosa era il lei la bianca luce di Earendil, ché era nata durante la notte di mezza-estate, quando Vingilot lasciava cadere le sue lacrime argentate sulle terre dei mortali. Grande era stata la gioia a corte e già echeggiavano i canti festosi, quando Manea la Veggente[4] si fece strada attraverso una folla ora ammutolita ed atterrita dalla sua venuta inaspettata. Dopo aver atteso che il silenzio ebbe dominato assoluto nella sala, ella levò alto il suo bastone e pronunciò parole terribili ad udirsi: “La sventura è caduta su voi, figli di Numenor! Terribile il giorno nel quale Anor tarda a morire e Ithil dorme nell’oceano profondo! O folli, che attendete lieti l’annunzio terribile, sappiate che la nuova nata domina sul vostro destino, ancor prima di reclamare la corona della Stella! Ascoltatemi dunque: grande sarà la tenebra che avrà come padre il giorno più lungo, ché la fine di Numenor si appresta, e già odo il sangue amaro mescolarsi con il mare salato, mentre il modo è travolto e l’isola sprofonda. Ricordate quanto dico: mai il sangue dell’erede dovrà amare il suo riflesso, mai il suo cuore dovrà essere soffocato dal suo stesso seme, ché altrimenti la fine giungerà trionfante sugli uomini sconfitti!”
Grave divenne allora il silenzio nella sala e i visi dei presenti impallidirono, come foglie sugli alberi spogli, che il vento freddo del Nord sfiora con il suo tocco gelido, solo per prolungarne l’agonia.
A lungo Tar-Palantir osservò l’indovina e rifletté sulle sue amare parole; mai egli aveva temuto i frutti della preveggenza, ché tante volte gli aveva assicurato la vittoria, eppure ora ne scorgeva i limiti amari. Forse egli aveva il coraggio di afferrare con forza il destino futuro che ora così velocemente si ritirava dalla sua mano, niente altro che sabbia soffocante sulla spiaggia di Andunie?
Infine, vedendo crescere in sé la paura e l’angoscia, incapace di domarli ancora, si sforzò di parlare: “Se tale è dunque il suo destino Manea, che cosa desideri che faccia ora? Vuoi che la mano che l’ha accolta al mondo, la rigetti nelle braccia di Mandos? Non chiedermi una tale follia! Eppure se tu sei qui, vi è un motivo ben preciso che entrambi conosciamo: se, infatti, la tenebra cadrà e il modo degli uomini affogherà nell’oblio di una notte senza fine, allora il nostro compito sarà quello di assicurare che la speme possa sopravvivere anche negli anni di là a venire, quando le ceneri del re saranno confuse con quelle del pescatore e insieme giaceranno nel dolce sonno delle morte. Manwe ti ha inviata da me come suo messaggero e di questo ben mi avvedo; forse un altro uomo, preso dal dolore e dallo sconforto chiederebbe agli dei vendetta. Io però non leverò con astio e rabbia le braccia verso il cielo, né spegnerò nelle lacrime la mia triste vita, ché bene conosco quali effetti possano avere i sentimenti degli uomini, anche quando mirano a realizzare il giusto Fato. Ti chiedi se io voglia conoscere il luogo ove si realizza il destino degli uomini? Volere non è potere, e la risposta giace lontana da me quanto da te, ché se alcuni tra noi possono spingere le loro menti di là degli esili confini del presente, tuttavia nemmeno il più potente e saggio tra noi, può prevedere il senso segreto che è dietro ogni esistenza, ogni nostro gesto, ogni nostra parola”.
A lungo ascoltò Manea, poi con voce remota eppure forte così rispose: “O signore dell’isola del dono, bene hai parlato, sebbene abbia tenuto nascosti i tuoi pensieri. Seguimi dunque e ti mostrerò quanto ho appreso nel corso della mia lunga meditazione”. Nessuno, tra coloro che furono presenti quel lontano giorno, ascoltò le silenziose parole che si scambiarono il re e la veggente e mai nessun mortale riuscì a scoprire cosa si celasse dietro la profezia di Manea, fin quando il velo del modo venne squarciato e ogni cosa divenne sì luminosa da accecare per sempre la vista degli stolti e degli usurpatori.
Trenta lunghi anni trascorsero e mai Tar-Palantir dimenticò le parole della Veggente, sebbene questa riposasse ora nelle case degli avi e il suo segreto giacesse con lei.
Mai il sovrano fece parola con alcuno di quanto aveva appreso; egli vedeva sua figlia crescere sotto i suoi occhi, rallegrarlo con il canto e la grazia della giovinezza, senza che mai la sua luce riuscisse a rischiarare le tenebre che si infittivano, tristi, ogni giorno in misura maggiore.
Infine, stanco di non poter condividere il suo dolore con altro uomo, Tar-Palantir prese la decisione che riteneva la migliore fra quante si prospettavano e mandò a chiamare il suo migliore capitano, Erfea figlio di Gilnar, della casata degli Hyarrostar, che il popolo chiamava il Morluin, perché quando era ancora giovane aveva sconfitto un drago così chiamato; quando gli fu innanzi, il sovrano congedò i suoi attendenti e prese la parola:
“Grave è la causa che mi ha spinto a chiamarti, capitano degli Hyarrostar. Sei stato un mio leale paladino, fin da quando hai giurato di servire la nostra causa. È giunto ora il momento di mostrarmi le tue vere qualità, Erfea figlio di Gilnar, ché molti destini dipenderanno dalla tua volontà.”
Tacque per qualche momento, poi lentamente riprese a parlare, rivolgendosi più a sé stesso che ad Erfea:
“La Seconda Era della Terra di Mezzo volge ormai al crepuscolo. Lo sento nell’aria, lo sento nel mare, lo sento nel cuore degli uomini. Io non vedrò tramontare l’ultimo sole”, concluse osservando alcune navi di pescatori ondeggiare placide sulle calme acque; poi con grande fatica proseguì: “Io sono vecchio Erfea, molto vecchio. Il mio tempo si appresta a terminare. In passato i sovrani di questa terra, istruivano i propri eredi al trono nella difficile arte di governare: ma quale popolo governerà un giorno la mia discendenza?”
Si alzò dallo scranno, guardando fisso innanzi sé, quasi che con i suoi occhi volesse penetrare la tenebra che si infittiva: “Noi siamo divisi, Erfea figlio di Gilnar, divisi come il dì e la notte”. Sospirò un istante, poi riprese a parlare con voce sempre più rauca, finché fu poco più che un bisbiglio soffocato dallo scrosciare del mare:
“Io l’ho visto – rantolò infine – ho scorto il destino che attende Numenor. Non posso dirti cosa i miei occhi abbiano scrutato nelle nebbie del tempo, né in che modo sia venuto a conoscenza di quanto ho detto; sappi invece che vi è ancora una speme, alla quale gli uomini potranno aggrapparsi, per non precipitare nelle profondità dell’Abisso”.
“Quale ancora mio signore? – domandò Erfea, osservandolo attentamente con i suoi occhi, grigi come la spuma marina all’alba – Quali uomini oseranno aggrapparsi a tale speme? La vostra lungimiranza è superiore a quella di ogni altro mortale, pari a quella dei figli di Feanor; tuttavia, mi chiedo per quale motivo il consiglio dello Scettro e il Senato dovrebbero sostenere la nostra causa”. Rifletté un attimo, poi riprese a parlare, con tono malinconico: “Sempre meno uomini si rifiutano di prestare ascolto alle menzogne del Nemico. Ho mirato navi sempre più possenti e massicce, reclamare il loro tributo di sangue. Ho scorto la follia danzare selvaggiamente negli sguardi dei soldati e dei marinai. Ho visto la morte, rapida come il colpo di una lama ben assestato, recidere i fragili fili della esistenza umana.”
Tacque un attimo, rimembrando quegli orrendi momenti, cui aveva assistito in numerose occasioni della sua vita. Poi, con voce roca e bassa, proseguì il suo racconto: “Io ho visto con questi occhi ricolmi di tristezza e di dolore gli immensi arsenali di guerra che il Nemico ha realizzato in questi lunghi anni, mentre tra la gente di Numenor l’ombra andava crescendo. Non vi è alternativa per i Popoli Liberi della Terra di Mezzo, se non quella di distruggere Sauron, prima che tutti i reami siano occupati e annientati. Ost-in-Edhil ha già dovuto soccombere, Khazad-Dum e Lorien sono assediate, così come il Lindon e Rivendell[5].”
Erfea si alzò, dirigendosi verso una terrazza, desideroso di respirare la fresca e salubre aria del Vespro, prima che la notte sopraggiungesse. Nonostante fosse giunto Narie[6], una rapida brezza si alzava dalla baia di Eldalonde[7], facendo gemere gli alberi e sollevando lacrime di Ulmo.
Si voltò poi, lentamente, come se stesse soppesando le sue parole; infine, le pronunciò, guardando fisso avanti a sé: “Mio sire, se la speranza sopravvivrà nei cuori degli uomini, allora tornerà per qualche tempo la Primavera, che sino a poco fa, spandeva delicatamente i suoi profumi; ma finché essa rimarrà imprigionata nelle buie prigioni della disperazione, ebbene non posso che temere per tutti noi.”
Tar-Palantir annuì lentamente: “Le tue parole sono figlie della saggezza e della lungimiranza di Numenor: sempre risuoneranno graditi i tuoi passi nella mia reggia e mai la mia amicizia ti verrà meno. Temo tuttavia che i tuoi lunghi pellegrinaggi ti abbiano stancato; sei giovane e forte, eppure Erfea Morluin, a te dico che deve ancora giungere il momento in cui la tua forza verrà posta alla prova. Suvvia, ora riposati e fa sì che il tuo fardello non gravi troppo sulle tue spalle. Questa sera – proseguì, dopo essersi fermato un istante – darò un ricevimento nel corso del quale festeggeremo il compimento della maggior età di mia figlia Miriel. Ti prego di essere presente” concluse il sovrano, ritirandosi nelle sue stanze private».
Note
[1] Si veda “Il Racconto del marinaio e della mezzelfa”.
[2] Come risulta dal “Calcolo degli anni” posto nell’appendice B, tale anno risulta essere il 3146 della Seconda Era
[3] Aman.
[4] Veggente ed astronoma, Manea predisse le sorti di numerosi uomini e donne di Numenor, compresa quella di Erfea Morluin; nessuno, tuttavia, fu in grado di apprendere il suo vero nome o la sua ascendenza ed ella era solito ripetere che non vi erano favelle atte a pronunciarlo; sebbene nel presente testo si accenni ad una sua dipartita dal mondo, nessuno conobbe il luogo ove era sepolta e vi fu chi, negli anni seguenti, credette di aver compreso che ella non fosse altri che l’incarnazione di Varda, Vala e Signora delle stelle: non tutti, però, prestarono fede a tale rivelazione, ed il suo nome fu obliato al termine della Seconda Era.
[5] Gloriosi regni della Terra di Mezzo durante la Seconda Era, tutti abitati dagli Eldar e dai Moriquendi, ad eccezione di Khazad-Dum, dimora dei nani della stirpe di Durin.
[6] Giugno, nella lingua Sindar o degli elfi grigi: il calendario a Numenor era ispirato a quello degli elfi in esilio e simili fra loro erano i nomi dei mesi e delle maggiori festività dell’anno.
[7] Tale era il nome del litorale sabbioso che si estendeva a poche miglia dalla città di Armenelos, capitale di Numenor.