Buongiorno e ben ritrovati. Dopo aver approfondito nel precedente articolo Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana i riferimenti di Tolkien, presenti nelle sue lettere e nel Silmarillion, inerenti alle cause che portarono alla crescente ostilità fra le due fazioni dei Numenoreani (Fedeli vs Uomini del Re), riprendo la narrazione del «Racconto dell’Ombra e della Spada», iniziata nel seguente articolo Numenor: Game of Thrones (I).
Buona lettura, aspetto i vostri commenti!
«Irrequieti, i camerati presero a rivolgersi l’un l’altro sussurri pregni di paura e di sospetto, temendo che Pharazôn avesse voluto tendere loro una trappola per eliminare quanti un giorno avrebbero potuto contestare la sua ascesa al trono: Ëargon, il più giovane fra gli Uomini del Re presenti al consesso, levò allora in alto la sua lama, unico fra i Principi ad aver condotto con sé armi, nonostante Pharazôn avesse ordinato severamente che nessuno potesse recarle dinanzi al suo cospetto, e così parlò: “Orsù, camerati! Perché dovremmo noi consegnare l’autorità della quale fummo investiti in virtù del nostro nobile lignaggio a favore di un esiliato, ultimo supersite di una casata reale da tempo privata di onore e forza? Fra noi vi sono, questo lo vedo bene, Signori quali mai il nostro Partito, che pure a lungo ha dominato le sorti della nostra isola, ha conosciuto: non dovremmo, forse, ottemperare quanto il fato benigno volle che i nostri animi conoscessero, ambendo a quel dominio che i Fedeli per troppo tempo ci hanno negato? Perché esitare ancora? Temete forse una sovrana sì vile da non aver mai avuto il coraggio di esporre la sua persona dinanzi al popolo riunito?”
“Non temiamo Tar-Miriel, la cui autorità non riconosciamo – interloquì allora Dôkhôr, levandosi irato dal suo scranno – eppure, non possiamo ignorare che ella abbia al suo fianco Uomini valorosi, i Paladini di Numenor. Credi forse che il pensiero di impossessarci del reame dell’Isola del Dono non abbia allettato i nostri animi, ben prima che tu venissi al mondo?”
“Hai forse udito la mia voce esprimersi in tal senso? – replicò seccato Ëargon – I Paladini di Numenor, tuttavia, sono vulnerabili quanto la regina stessa: essi, infatti, hanno profonda stima di un uomo che sarà la loro rovina, se noi sapremo condurlo sul cammino della perdizione e della infamia.”
“Ecco che sei nuovamente in errore – interloquì allora Khorazîd – ché finanche questa soluzione fu un tempo prospettata e infine rigettata: se, infatti, Numenor fosse sul punto di crollare e la regina si trovasse sull’orlo dell’abisso, stai pur certo che l’uomo di cui parli non esiterebbe a sacrificare la vita della figlia di Tar-Palantir pur di salvare il reame”.
Il figlio di Morlok sorrise compiaciuto, quasi che avesse sperato in una simile osservazione da parte del suo uditorio; fu, perciò, con palese soddisfazione che levò in alto una missiva, in modo che tutti potessero vederla: “Miei signori – esordì con tono sprezzante e ironico allo stesso tempo – le informazioni in vostro possesso sono obsolete. Ho qui le prove che dimostrano in modo confutabile quanto il legame fra Ërfea e Tar-Miriel non solo non sia scemato nel corso degli anni, ma sia divenuto addirittura più forte negli ultimi tempi.”
Khorazîd espresse le perplessità di tutti: “Di quali prove parli?”
Ëargon sogghignò brevemente, infine così rispose: “Non è stato semplice entrare in possesso di tale missiva riservata, ché per averla ho dovuto sedurre una delle ancelle della regina; tuttavia, ogni mio sforzo è stato premiato allorché ho scoperto che i miei sospetti erano fondati. Ërfea ama profondamente la figlia di Tar-Palantir – e qui parve, per un attimo, che la sua voce si incrinasse, nessuno seppe dire se per invidia o se per amarezza – ed ella potrebbe vincere in breve tempo le resistenze che ancora la vincolano a non pronunciare alcun giuramento nei suoi confronti.”
Akhôrahil, che sino a quel momento era stato assorto in profonda ed oscura meditazione, levatosi dal suo alto scranno, espresse allora il suo parere: “Se la prova da te addotta fosse veritiera, non vi sarebbe alcun dubbio sulle parole colme di superbia che hai poc’anzi pronunciato. Fra noi vi sono alcuni che ricordano cosa accadde diversi anni or sono, allorché il figlio di Gilnar era giovane ed era stato da poco nominato Cavaliere del Regno: vi è forse la possibilità che quanto non riuscì a compiersi allora, divenga presto realtà.”
Ëargon, il quale era prossimo a compiere i quarant’anni, sollevò stupito il capo ed il suo tono espresse palese stupore: “Cosa accadde dunque, Akhôrahil? Vorresti forse dire che Ërfea e Tar-Miriel si conoscevano fin da quei lontani anni, prima ancora che io venissi al mondo?”
Il Quinto fra i Nazgûl annuì lentamente con il capo, infine parlò: “Tar-Palantir aveva infinita fiducia nel giovane principe dell’Hyarrostar e non vi è dubbio alcuno che gli avrebbe permesso di prendere la mano di sua figlia, se Ërfea glielo avesse chiesto; eppure, questo non avvenne, ché il giovane capitano di Numenor fu sedotto da una donna, Gilmor, sorella di Arthol, compagno e confidente del figlio di Gilnar. Quando la principessa di Andor fu messa al corrente di quanto era accaduto, sebbene fosse scoppiata in lacrime – e qui parve che le labbra di Akhôrahil sorridessero silenziosamente – cercò il Morluin promettendogli che avrebbe perdonato il suo errore: questi, tuttavia, era troppo scosso per gli avvenimenti accaduti di recente o forse era troppo codardo per ambire al suo perdono e lo rifiutò, abbandonando per lunghi anni queste contrade.”
Khôrazid, che aveva ascoltato attentamente ogni parola pronunciata dal Nazgûl, interruppe la sua narrazione: “Non metto in dubbio la veridicità di ogni tua affermazione, ché sei invero il più saggio ed anziano fra noi, eppure non posso fare a meno di chiedermi come tu sia venuto in possesso di codeste informazioni.”
“Ero presente all’ultimo incontro fra i due giovani – rispose dopo aver atteso qualche istante l’Ulairë – sebbene essi non abbiano conservato memoria della mia presenza. Vidi le lacrime bagnare i loro volti e ascoltai gli amari singulti spezzare il quieto canto della risacca sulla battigia. Non è forse sufficiente?”
Dôkhôr rispose: “Che sia vero o no quanto affermi ha poca importanza oggi. Mi basta sapere che tra il Paladino e la Regina vi è un sentimento tale da provocare la rovina di entrambi”.
Akhôrahil sorrise sprezzante: “Dicono che l’abilità di Dôkhôr stia nella forza con la quale ha guidato gli stermini ed i saccheggi nella Terra di Mezzo, non nella sua mente, rozza e tarda a comprendere. Sciocco! – gridò con forza lo Spettro dell’Anello e tutti coloro che erano presenti furono atterriti dalla sua ira – non comprendi che aver conoscenza del passato potrà assicurarci la vittoria? La morte colpisce con più celerità ove corrompe un cuore già oltraggiato dal medesimo sicario.”
Ëargon, il quale era lesto negli atti come nei pensieri, comprese quanto si celava nel pensiero del Re Tempesta e così ribatté: “Credi dunque che potremmo servirci del Morluin per giungere al trono di Numenor?”
“No – rispose Akhôrahil, palesemente irretito da una tale proposta – egli ora è potente nel corpo e nello spirito e non sarebbe facile per alcuno di noi corromperlo.”
Dôkhôr, ancora irato per lo smacco testé subito, non nascose il suo pensiero: “Dovrei forse dedurre che tu tema il figlio di Gilnar più di quanto non tema la tua stessa vanagloria? Sei esperto nell’eloquio, ma nell’arte del combattimento in molti ti sono superiori; forse, dici bene quando riconosci che il Morluin sia per te una preda troppo grossa perché tu la possa afferrare con le tue sudice mani; eppure, amici, se mi consegnerete il Principe dello Hyarrostar, io spegnerò in lui la fiamma vitale. Perché, infatti, perdere tempo prezioso nel dibattere su Amanti, obliati o recenti che siano, Tradimenti e Viltà? Uccidiamo il Numenoreano Fedele e nessuno oserà opporsi alla nostra ascesa al trono!”
“Sei sempre stato molto divertente, mio caro Dôkhôr – esclamò una voce che sino a quel momento nessuno aveva udito in quel consesso – Mio padre affermava che fra tutti i camerati tu eri l’unico che preferiva il rozzo ferro dell’Harad ai calici preziosi, solo perché così ubriaco da non aver capacità di discernimento allorché essi si spartivano il bottino.” La voce tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Nessuno oserà opporsi alla nostra ascesa al trono, dici? Suppongo che tu intenda affermare che tutti siano così sciocchi da aver dimenticato che un solo signore fra noi siederà sul marmoreo scranno del palazzo reale di Armenelos; e, a meno che un morbo improvviso mi privi della capacità di intelletto, intendo proclamare per me tale diritto.”
Sbigottiti, gli Uomini del Re arretrarono, domandandosi gli uni gli altri donde provenisse quella voce, ché non scorgevano alcun uomo innanzi a loro ed erano confusi e furiosi al tempo stesso; Akhôrahil, al contrario, essendo l’unico, come fu chiaro alcuni mesi dopo, ad essere stato messo a conoscenza di ogni cosa, con un rapido gesto della sua mano destra aprì un uscio nella roccia che nessuno sino a quel momento aveva notato e lasciò che tre figure facessero il loro ingresso nell’oscura sala; tuttavia, tale era la confusione che regnava tra coloro che avversavano il regno di Tar-Miriel, che pochi vi fecero caso e quanti scorsero tale gesto, in seguito non serbarono più memoria di quell’avvenimento.
Turbati, coloro che erano del Partito del Re lasciarono scorrere fra due ali coloro che erano apparsi sì repentinamente; sebbene avessero inteso la reale identità di almeno uno di loro, ché ne conoscevano la voce, ignoravano ogni cosa riguardante le altre due figure: solo, Khôrazîd ebbe un fremito di terrore e si coprì il volto con il proprio mantello, egli che era stato un tempo un Paladino e ora avvertiva nell’aria una grande malvagità. Stupita, Ântenora, moglie del principe del Forostar, così gli si rivolse: “Cos’hai? Temi a tal punto la voce di Pharazôn da non osare mirarlo in volto? Egli è solo un giovane il cui animo è colmo di boria. Perché, dunque, sei così turbato?”
Khôrazîd rantolò, infine rispose: “Sono dunque l’unico ad avvertire la malvagità addensarsi in questa aula? Sono stato Paladino per molti anni, sin quando il nerbo del governo di Numenor è stato nelle mani di uomini valorosi e sprezzanti di ogni pericolo e ho appreso molte abilità delle quali oggidì la gran parte dei camerati non serba più alcuna memoria. Sappi dunque questo: mai, in tutta la mia lunga esistenza, ho conosciuto un simile potere emanare dalle figure che hanno ora fatto il loro ingresso fra noi.” Sulle prime, dopo aver udito questa risposta, Ântenora, rise, ché non gli pareva possibile che il giovane Pharazôn fosse latore di una simile potenza; tosto, tuttavia, il suo sorriso si mutò in timore ed infine in sbigottimento allorché scorse che molti altri signori fra i Numenoreani colà presenti erano in preda alla medesime convulsioni che avevano colto il marito: stupefatta, ella stessa si rese conto che il corpo non le ubbidiva più e in breve fu costretta, contro la sua volontà, che pure era forte come quella di poche fra le dame presenti, a chinare dapprima il capo, infine a prostrare tutto il corpo dinanzi alle due alte figure che accompagnavano il principe ribelle.
Pharazôn, giunto al centro della sala, rivolse un breve cenno a quanti l’avevano accompagnato ed essi presero posto accanto a lui: un mormorio colmo di attesa si levò dall’assemblea e finanche coloro che sino a quel momento, per forza interiore o per sorte fausta, avevano evitato di cadere sotto la loro preponderante volontà, furono avvinti alle loro oscure menti. Ëargon, l’unico uomo ad aver saputo opporre una valida resistenza fra quanti erano presenti dinanzi a tale rivelazione, fu tuttavia incapace di parlare per lungo tempo, ché una grande inquietudine si era impadronita del suo cuore e, sebbene non avrebbe mai osato confessarlo a nessuno, temeva i due forestieri come non aveva temuto mai alcun nemico. Colui che era alla destra del figlio di Gimilkhâd indossava una lunga tunica nera adornata da intarsi dorati; una ricca cappa in pelliccia bianca copriva le sue possenti spalle ed egli cingeva una spada al fianco sinistro, la cui elsa, rischiarata da freddi diamanti, rifletteva cupa le torce della sala. Il volto dell’uomo, sebbene fosse bello e nobile, era tuttavia imperscrutabile e lo stesso Ëargon, che pure aveva osato mirarlo negli occhi, fu tosto costretto a chinare, riluttante, il capo, ché era stato colto da conati e a stento riusciva a reggersi in piedi: non vi era luce alcuna nei grigi occhi dello straniero ed essi erano immobili e silenti; eppure, osando quanto nessuno prima di lui aveva tentato, il figlio di Morlok respirò profondamente e spinse lo sguardo oltre i confini della sala, oltre Numenor e al di là del Grande Mare Orientale, finché non credé di scorgere una remota fiamma bruciare lugubre a levante.
Inorridito, Ëargon arretrò ed il suo timore crebbe allorché scorse la medesima fiamma oscura negli occhi del forestiero; per un istante, gli parve che l’intero corpo dell’uomo non fosse altro che un ricettacolo per uno spirito dotato di un potere quale mai i suoi occhi avevano mirato sino a quel momento e, sebbene l’aura che questi emanasse fosse luminosa, il Numenoreano comprese che non della luce degli Eldar si trattava, bensì di qualcosa di diabolico e crudele.
L’uomo, assorto come era nelle sue oscure meditazioni, non parve accorgersi che Ëargon era intento a studiarlo; tuttavia, pur non degnandolo di uno sguardo, la sua malvagità era tale che il giovane ammiraglio ne risultò schiacciato: distogliendo i suoi azzurri occhi da quelli dello straniero, il figlio di Morlok notò che, occultata parzialmente dalle tenebre che aleggiavano nella sala e che ora sembravano essersi infittite, vi era una corona posta sull’ampia fronte dell’uomo. Sulle prime, non vi fece quasi alcun caso, prigioniero com’era dell’inquietante sguardo che emanava quel corpo; infine, un urlo gli morì in gola, allorché comprese essere quell’uomo un Numenoreano e, per giunta, uno di alto lignaggio: la corona che adornava il suo capo, infatti, non assomigliava affatto a quelle che erano soliti indossare i barbari re dell’Oriente, bensì era simile, piuttosto, agli alti elmi che i Comandanti degli Uomini del Re indossavano in battaglia. Affascinato e allo stesso tempo inorridito dalla forma e dai colori della corona dell’uomo, infine Ëargon comprese quanto sulle prime gli era sfuggito, ché solo una corona, forgiato in bianco laen e adorno da splendente madreperla poteva essere simile a quella: riluttante a prestare fede a quanto i suoi occhi scorgevano, fu nuovamente colto da forti conati, ché l’artefatto in questione era appartenuto un tempo ai sovrani di Numenor e di esso si era smarrito nel tempo ogni traccia, sebbene il ricordo perdurasse vivido nella memoria di ciascun Ammiraglio. L’elmo di Tar-Cyriatan, che presso alcuni storici di Andor fu considerato la prima corona che i Sovrani di quella terra avessero portato, splendeva ora innanzi ai suoi attoniti occhi: molti interrogativi senza risposta allora lo turbarono; nomi che un tempo aveva creduto appartenere alle leggende narrate nelle gelide notti di inverno da anziane donne ed uomini senza alcun ritegno parvero ora prendere vita dinanzi a lui. Per quanto, tuttavia, si sforzasse di riportare alla mente nozioni di storia che un tempo aveva appreso, egli non fu in grado di comprendere la reale identità dell’uomo che aveva dinanzi, né, forse, questo era un compito alla sua portata, ché questi era Er-Murazôr, il Principe Nero, Signore degli Eserciti di Mordor e Re degli Stregoni. Il discepolo prediletto da Sauron giungeva ora alla contrada dei Numenoreani, dopo una lunga assenza, per portare a compimento la missione che gli aveva affidato il suo Padrone e sebbene nel suo cuore il risentimento per il figlio di Gilnar si fosse accresciuto nel tempo, da quando questi aveva osato profanare la sua fortezza occultata dalle sabbie del deserto, pure aveva avuto ordini precisi a riguardo e la sua ira era destinata, per il momento, a restare inespressa.
L’ombra di Er-Murazôr crebbe nella sala e l’oscurità si infittì: una luce chiara, eppure remota, risplendeva tuttavia alla sinistra dello scranno di Pharazôn ed il giovane figlio di Morlok ne fu inesorabilmente attratto: la figura che aveva preso posto accanto al cugino della sovrana, sebbene non avesse ancora rivelato il suo sembiante agli altri Numenoreani, pure sembrava essere la fonte di tale luminosità. Con crescente stupore, Ëargon mirò lo straniero mentre, con un gesto lento e al tempo stesso elegante, lasciava cadere il manto che ancora rivestiva la sua carne e la sua sorpresa, questa volta, fu troppo grande per poter essere occultata, né egli fu l’unico a mostrare un tale atteggiamento: l’ospite, infatti, non era un uomo, come molti avevano creduto, bensì una donna di indicibile bellezza. I Principi di Numenor ed i loro servi, gente scaltra e senza alcun ritegno, al solo guardarla furono vittime della lussuria e sussurrarono tra loro commenti che qui non saranno riportati; le Signore di Andor, invece, presero subito a detestarla, perché la donna il cui sembiante era stato ora scoperto, rappresentava ai loro occhi molto di quanto avevano perso in gioventù e che sapevano fin troppo bene non avrebbero più riottenuto: giovane era e non dimostrava avere superato la maggiore età[1], ché la sua chiara pelle era vellutata come seta e la sua capigliatura emetteva riflessi bluastri alla luce delle torce, tanto era scura. Per nulla seccata o intimorita dagli sguardi, ora lascivi, ora invidiosi che le venivano rivolti, la donna, con femminile grazia, si acconciò la chioma, leggermente scomposta a causa del lungo viaggio che aveva dovuto compiere per giungere fino a codesto luogo, e tutti ebbero modo di scorgere la sua affusolata mano carezzare dolcemente il capo; terminato che ebbe questo compito, ella rivolse i suoi azzurri occhi, sì splendenti che nessuno ne aveva mai visto un paio simili, al suo affascinato pubblico ed essi le furono soggiogati. Lentamente, l’ospite si levò nuovamente dallo scranno sul quale mollemente si era adagiata, lasciando cadere il nero mantello che l’aveva avvolta, simile ad una nube che oscura la luna nel plenilunio; un secondo mormorio colmo di stupore, ammirazione ed astio si levò, allora, ed il cuore di Ëargon fu trafitto, senza che egli potesse opporre una valida resistenza alla brama di lei che di istante in istante diveniva più forte nel suo animo. Superbamente bella, la donna si mostrava ora nella sua seducente femminilità: un lungo abito bianco le cingeva morbidamente il corpo, aderendo sui suoi seni e sui suoi fianchi, simile ad un abbraccio che un amante tenti di rivolgere all’oggetto del suo disio, mentre da una nera cinta, i cui intarsi argentati splendevano lugubri nella notte rischiarata dalla bellezza della donna, pendeva una leggera lama, la cui foggia, tuttavia, a molti parve essere simile a quelle portate dalle donne numenoreane – poche in verità – che erano esperte nell’arte della scherma e la cui elsa, ricavata da un unico frammento di ametista, risplendeva anch’essa nella notte.
Un grazioso diadema era posto sul capo di colei che aveva ridotto al silenzio un uditorio che sino a pochi istanti prima era sconvolto da dispute e da rancori ed Ëargon si avvide che la medesima pietra preziosa che costituiva l’elsa della sua lama era posta al suo centro: incapace di parlare, egli non poté, tuttavia, evitare di pensare che la bellezza di codesta dama superava di gran lunga quella di qualunque altra donna avesse conosciuto, finanche di Miriel, che pure era da ogni Numenoreano considerata il fiore più grazioso che fosse mai stato concepito sull’isola sin dai tempi di Elros Tar-Minyatur. Affascinato, il figlio di Morlok osò mirarla nei suoi glaciali occhi e scorse, in un turbinare di sensi, la spietatezza dell’acciaio, la ferocia di una tigre del lontano meridione, l’intelligenza dello sparviero che sorvola le cime dei monti immersi nella bruma e la malizia della furtiva volpe che erra raminga nei campi di grano: sospirò d’amore e di desiderio e la volle per sé ed ella in verità, non fu tarda nel concedersi ai suoi desideri, sebbene, come fu chiaro in seguito, non agì seguendo il medesimo desiderio che ora si agitava furioso nel petto del Numenoreano, quanto piuttosto la sua lussuria ed il suo freddo raziocinio, ché ella era Adûnaphel l’Occultatrice, Settima fra i Nazgûl e Spadaccina di indicibile valore ed esperienza».
Note
[1] Si ricordi che presso i Numenoreani il conseguimento della maggiore età avveniva al compimento del trentacinquesimo anno di età.