Numenor: Game of Thrones (parte II). L’arrivo di Pharazon e dei Nazgul

Buongiorno e ben ritrovati. Dopo aver approfondito nel precedente articolo Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana i riferimenti di Tolkien, presenti nelle sue lettere e nel Silmarillion, inerenti alle cause che portarono alla crescente ostilità fra le due fazioni dei Numenoreani (Fedeli vs Uomini del Re), riprendo la narrazione del «Racconto dell’Ombra e della Spada», iniziata nel seguente articolo Numenor: Game of Thrones (I).

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Irrequieti, i camerati presero a rivolgersi l’un l’altro sussurri pregni di paura e di sospetto, temendo che Pharazôn avesse voluto tendere loro una trappola per eliminare quanti un giorno avrebbero potuto contestare la sua ascesa al trono: Ëargon, il più giovane fra gli Uomini del Re presenti al consesso, levò allora in alto la sua lama, unico fra i Principi ad aver condotto con sé armi, nonostante Pharazôn avesse ordinato severamente che nessuno potesse recarle dinanzi al suo cospetto, e così parlò: “Orsù, camerati! Perché dovremmo noi consegnare l’autorità della quale fummo investiti in virtù del nostro nobile lignaggio a favore di un esiliato, ultimo supersite di una casata reale da tempo privata di onore e forza? Fra noi vi sono, questo lo vedo bene, Signori quali mai il nostro Partito, che pure a lungo ha dominato le sorti della nostra isola, ha conosciuto: non dovremmo, forse, ottemperare quanto il fato benigno volle che i nostri animi conoscessero, ambendo a quel dominio che i Fedeli per troppo tempo ci hanno negato? Perché esitare ancora? Temete forse una sovrana sì vile da non aver mai avuto il coraggio di esporre la sua persona dinanzi al popolo riunito?”
“Non temiamo Tar-Miriel, la cui autorità non riconosciamo – interloquì allora Dôkhôr, levandosi irato dal suo scranno – eppure, non possiamo ignorare che ella abbia al suo fianco Uomini valorosi, i Paladini di Numenor. Credi forse che il pensiero di impossessarci del reame dell’Isola del Dono non abbia allettato i nostri animi, ben prima che tu venissi al mondo?”
“Hai forse udito la mia voce esprimersi in tal senso? – replicò seccato Ëargon – I Paladini di Numenor, tuttavia, sono vulnerabili quanto la regina stessa: essi, infatti, hanno profonda stima di un uomo che sarà la loro rovina, se noi sapremo condurlo sul cammino della perdizione e della infamia.”
“Ecco che sei nuovamente in errore – interloquì allora Khorazîd – ché finanche questa soluzione fu un tempo prospettata e infine rigettata: se, infatti, Numenor fosse sul punto di crollare e la regina si trovasse sull’orlo dell’abisso, stai pur certo che l’uomo di cui parli non esiterebbe a sacrificare la vita della figlia di Tar-Palantir pur di salvare il reame”.
Il figlio di Morlok sorrise compiaciuto, quasi che avesse sperato in una simile osservazione da parte del suo uditorio; fu, perciò, con palese soddisfazione che levò in alto una missiva, in modo che tutti potessero vederla: “Miei signori – esordì con tono sprezzante e ironico allo stesso tempo – le informazioni in vostro possesso sono obsolete. Ho qui le prove che dimostrano in modo confutabile quanto il legame fra Ërfea e Tar-Miriel non solo non sia scemato nel corso degli anni, ma sia divenuto addirittura più forte negli ultimi tempi.”
Khorazîd espresse le perplessità di tutti: “Di quali prove parli?”
Ëargon sogghignò brevemente, infine così rispose: “Non è stato semplice entrare in possesso di tale missiva riservata, ché per averla ho dovuto sedurre una delle ancelle della regina; tuttavia, ogni mio sforzo è stato premiato allorché ho scoperto che i miei sospetti erano fondati. Ërfea ama profondamente la figlia di Tar-Palantir – e qui parve, per un attimo, che la sua voce si incrinasse, nessuno seppe dire se per invidia o se per amarezza – ed ella potrebbe vincere in breve tempo le resistenze che ancora la vincolano a non pronunciare alcun giuramento nei suoi confronti.”
Akhôrahil, che sino a quel momento era stato assorto in profonda ed oscura meditazione, levatosi dal suo alto scranno, espresse allora il suo parere: “Se la prova da te addotta fosse veritiera, non vi sarebbe alcun dubbio sulle parole colme di superbia che hai poc’anzi pronunciato. Fra noi vi sono alcuni che ricordano cosa accadde diversi anni or sono, allorché il figlio di Gilnar era giovane ed era stato da poco nominato Cavaliere del Regno: vi è forse la possibilità che quanto non riuscì a compiersi allora, divenga presto realtà.”
Ëargon, il quale era prossimo a compiere i quarant’anni, sollevò stupito il capo ed il suo tono espresse palese stupore: “Cosa accadde dunque, Akhôrahil? Vorresti forse dire che Ërfea e Tar-Miriel si conoscevano fin da quei lontani anni, prima ancora che io venissi al mondo?”8
Il Quinto fra i Nazgûl annuì lentamente con il capo, infine parlò: “Tar-Palantir aveva infinita fiducia nel giovane principe dell’Hyarrostar e non vi è dubbio alcuno che gli avrebbe permesso di prendere la mano di sua figlia, se Ërfea glielo avesse chiesto; eppure, questo non avvenne, ché il giovane capitano di Numenor fu sedotto da una donna, Gilmor, sorella di Arthol, compagno e confidente del figlio di Gilnar. Quando la principessa di Andor fu messa al corrente di quanto era accaduto, sebbene fosse scoppiata in lacrime – e qui parve che le labbra di Akhôrahil sorridessero silenziosamente – cercò il Morluin promettendogli che avrebbe perdonato il suo errore: questi, tuttavia, era troppo scosso per gli avvenimenti accaduti di recente o forse era troppo codardo per ambire al suo perdono e lo rifiutò, abbandonando per lunghi anni queste contrade.”
Khôrazid, che aveva ascoltato attentamente ogni parola pronunciata dal Nazgûl, interruppe la sua narrazione: “Non metto in dubbio la veridicità di ogni tua affermazione, ché sei invero il più saggio ed anziano fra noi, eppure non posso fare a meno di chiedermi come tu sia venuto in possesso di codeste informazioni.”
“Ero presente all’ultimo incontro fra i due giovani – rispose dopo aver atteso qualche istante l’Ulairë – sebbene essi non abbiano conservato memoria della mia presenza. Vidi le lacrime bagnare i loro volti e ascoltai gli amari singulti spezzare il quieto canto della risacca sulla battigia. Non è forse sufficiente?”
Dôkhôr rispose: “Che sia vero o no quanto affermi ha poca importanza oggi. Mi basta sapere che tra il Paladino e la Regina vi è un sentimento tale da provocare la rovina di entrambi”.
Akhôrahil sorrise sprezzante: “Dicono che l’abilità di Dôkhôr stia nella forza con la quale ha guidato gli stermini ed i saccheggi nella Terra di Mezzo, non nella sua mente, rozza e tarda a comprendere. Sciocco! – gridò con forza lo Spettro dell’Anello e tutti coloro che erano presenti furono atterriti dalla sua ira – non comprendi che aver conoscenza del passato potrà assicurarci la vittoria? La morte colpisce con più celerità ove corrompe un cuore già oltraggiato dal medesimo sicario.”
Ëargon, il quale era lesto negli atti come nei pensieri, comprese quanto si celava nel pensiero del Re Tempesta e così ribatté: “Credi dunque che potremmo servirci del Morluin per giungere al trono di Numenor?”
“No – rispose Akhôrahil, palesemente irretito da una tale proposta – egli ora è potente nel corpo e nello spirito e non sarebbe facile per alcuno di noi corromperlo.”
Dôkhôr, ancora irato per lo smacco testé subito, non nascose il suo pensiero: “Dovrei forse dedurre che tu tema il figlio di Gilnar più di quanto non tema la tua stessa vanagloria? Sei esperto nell’eloquio, ma nell’arte del combattimento in molti ti sono superiori; forse, dici bene quando riconosci che il Morluin sia per te una preda troppo grossa perché tu la possa afferrare con le tue sudice mani; eppure, amici, se mi consegnerete il Principe dello Hyarrostar, io spegnerò in lui la fiamma vitale. Perché, infatti, perdere tempo prezioso nel dibattere su Amanti, obliati o recenti che siano, Tradimenti e Viltà? Uccidiamo il Numenoreano Fedele e nessuno oserà opporsi alla nostra ascesa al trono!”

“Sei sempre stato molto divertente, mio caro Dôkhôr – esclamò una voce che sino a quel momento nessuno aveva udito in quel consesso – Mio padre affermava che fra tutti i camerati tu eri l’unico che preferiva il rozzo ferro dell’Harad ai calici preziosi, solo perché così ubriaco da non aver capacità di discernimento allorché essi si spartivano il bottino.” La voce tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Nessuno oserà opporsi alla nostra ascesa al trono, dici? Suppongo che tu intenda affermare che tutti siano così sciocchi da aver dimenticato che un solo signore fra noi siederà sul marmoreo scranno del palazzo reale di Armenelos; e, a meno che un morbo improvviso mi privi della capacità di intelletto, intendo proclamare per me tale diritto.”

Sbigottiti, gli Uomini del Re arretrarono, domandandosi gli uni gli altri donde provenisse quella voce, ché non scorgevano alcun uomo innanzi a loro ed erano confusi e furiosi al tempo stesso; Akhôrahil, al contrario, essendo l’unico, come fu chiaro alcuni mesi dopo, ad essere stato messo a conoscenza di ogni cosa, con un rapido gesto della sua mano destra aprì un uscio nella roccia che nessuno sino a quel momento aveva notato e lasciò che tre figure facessero il loro ingresso nell’oscura sala; tuttavia, tale era la confusione che regnava tra coloro che avversavano il regno di Tar-Miriel, che pochi vi fecero caso e quanti scorsero tale gesto, in seguito non serbarono più memoria di quell’avvenimento.
Turbati, coloro che erano del Partito del Re lasciarono scorrere fra due ali coloro che erano apparsi sì repentinamente; sebbene avessero inteso la reale identità di almeno uno di loro, ché ne conoscevano la voce, ignoravano ogni cosa riguardante le altre due figure: solo, Khôrazîd ebbe un fremito di terrore e si coprì il volto con il proprio mantello, egli che era stato un tempo un Paladino e ora avvertiva nell’aria una grande malvagità. Stupita, Ântenora, moglie del principe del Forostar, così gli si rivolse: “Cos’hai? Temi a tal punto la voce di Pharazôn da non osare mirarlo in volto? Egli è solo un giovane il cui animo è colmo di boria. Perché, dunque, sei così turbato?”
Khôrazîd rantolò, infine rispose: “Sono dunque l’unico ad avvertire la malvagità addensarsi in questa aula? Sono stato Paladino per molti anni, sin quando il nerbo del governo di Numenor è stato nelle mani di uomini valorosi e sprezzanti di ogni pericolo e ho appreso molte abilità delle quali oggidì la gran parte dei camerati non serba più alcuna memoria. Sappi dunque questo: mai, in tutta la mia lunga esistenza, ho conosciuto un simile potere emanare dalle figure che hanno ora fatto il loro ingresso fra noi.” Sulle prime, dopo aver udito questa risposta, Ântenora, rise, ché non gli pareva possibile che il giovane Pharazôn fosse latore di una simile potenza; tosto, tuttavia, il suo sorriso si mutò in timore ed infine in sbigottimento allorché scorse che molti altri signori fra i Numenoreani colà presenti erano in preda alla medesime convulsioni che avevano colto il marito: stupefatta, ella stessa si rese conto che il corpo non le ubbidiva più e in breve fu costretta, contro la sua volontà, che pure era forte come quella di poche fra le dame presenti, a chinare dapprima il capo, infine a prostrare tutto il corpo dinanzi alle due alte figure che accompagnavano il principe ribelle.

Pharazôn, giunto al centro della sala, rivolse un breve cenno a quanti l’avevano accompagnato ed essi presero posto accanto a lui: un mormorio colmo di attesa si levò dall’assemblea e finanche coloro che sino a quel momento, per forza interiore o per sorte fausta, avevano evitato di cadere sotto la loro preponderante volontà, furono avvinti alle loro oscure menti. Ëargon, l’unico uomo ad aver saputo opporre una valida resistenza fra quanti erano presenti dinanzi a tale rivelazione, fu tuttavia incapace di parlare per lungo tempo, ché una grande inquietudine si era impadronita del suo cuore e, sebbene non avrebbe mai osato confessarlo a nessuno, temeva i due forestieri come non aveva temuto mai alcun nemico. Colui che era alla destra del figlio di Gimilkhâd indossava una lunga tunica nera adornata da intarsi dorati; una ricca cappa in pelliccia bianca copriva le sue possenti spalle ed egli cingeva una spada al fianco sinistro, la cui elsa, rischiarata da freddi diamanti, rifletteva cupa le torce della sala. Il volto dell’uomo, sebbene fosse bello e nobile, era tuttavia imperscrutabile e lo stesso Ëargon, che pure aveva osato mirarlo negli occhi, fu tosto costretto a chinare, riluttante, il capo, ché era stato colto da conati e a stento riusciva a reggersi in piedi: non vi era luce alcuna nei grigi occhi dello straniero ed essi erano immobili e silenti; eppure, osando quanto nessuno prima di lui aveva tentato, il figlio di Morlok respirò profondamente e spinse lo sguardo oltre i confini della sala, oltre Numenor e al di là del Grande Mare Orientale, finché non credé di scorgere una remota fiamma bruciare lugubre a levante.

Inorridito, Ëargon arretrò ed il suo timore crebbe allorché scorse la medesima fiamma oscura negli occhi del forestiero; per un istante, gli parve che l’intero corpo dell’uomo non fosse altro che un ricettacolo per uno spirito dotato di un potere quale mai i suoi occhi avevano mirato sino a quel momento e, sebbene l’aura che questi emanasse fosse luminosa, il Numenoreano comprese che non della luce degli Eldar si trattava, bensì di qualcosa di diabolico e crudele.

L’uomo, assorto come era nelle sue oscure meditazioni, non parve accorgersi che Ëargon era intento a studiarlo; tuttavia, pur non degnandolo di uno sguardo, la sua malvagità era tale che il giovane ammiraglio ne risultò schiacciato: distogliendo i suoi azzurri occhi da quelli dello straniero, il figlio di Morlok notò che, occultata parzialmente dalle tenebre che aleggiavano nella sala e che ora sembravano essersi infittite, vi era una corona posta sull’ampia fronte dell’uomo. Sulle prime, non vi fece quasi alcun caso, prigioniero com’era dell’inquietante sguardo che emanava quel corpo; infine, un urlo gli morì in gola, allorché comprese essere quell’uomo un Numenoreano e, per giunta, uno di alto lignaggio: la corona che adornava il suo capo, infatti, non assomigliava affatto a quelle che erano soliti indossare i barbari re dell’Oriente, bensì era simile, piuttosto, agli alti elmi che i Comandanti degli Uomini del Re indossavano in battaglia. Affascinato e allo stesso tempo inorridito dalla forma e dai colori della corona dell’uomo, infine Ëargon comprese quanto sulle prime gli era sfuggito, ché solo una corona, forgiato in bianco laen e adorno da splendente madreperla poteva essere simile a quella: riluttante a prestare fede a quanto i suoi occhi scorgevano, fu nuovamente colto da forti conati, ché l’artefatto in questione era appartenuto un tempo ai sovrani di Numenor e di esso si era smarrito nel tempo ogni traccia, sebbene il ricordo perdurasse vivido nella memoria di ciascun Ammiraglio. L’elmo di Tar-Cyriatan, che presso alcuni storici di Andor fu considerato la prima corona che i Sovrani di quella terra avessero portato, splendeva ora innanzi ai suoi attoniti occhi: molti interrogativi senza risposta allora lo turbarono; nomi che un tempo aveva creduto appartenere alle leggende narrate nelle gelide notti di inverno da anziane donne ed uomini senza alcun ritegno parvero ora prendere vita dinanzi a lui. Per quanto, tuttavia, si sforzasse di riportare alla mente nozioni di storia che un tempo aveva appreso, egli non fu in grado di comprendere la reale identità dell’uomo che aveva dinanzi, né, forse, questo era un compito alla sua portata, ché questi era Er-Murazôr, il Principe Nero, Signore degli Eserciti di Mordor e Re degli Stregoni. Il discepolo prediletto da Sauron giungeva ora alla contrada dei Numenoreani, dopo una lunga assenza, per portare a compimento la missione che gli aveva affidato il suo Padrone e sebbene nel suo cuore il risentimento per il figlio di Gilnar si fosse accresciuto nel tempo, da quando questi aveva osato profanare la sua fortezza occultata dalle sabbie del deserto, pure aveva avuto ordini precisi a riguardo e la sua ira era destinata, per il momento, a restare inespressa.

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L’ombra di Er-Murazôr crebbe nella sala e l’oscurità si infittì: una luce chiara, eppure remota, risplendeva tuttavia alla sinistra dello scranno di Pharazôn ed il giovane figlio di Morlok ne fu inesorabilmente attratto: la figura che aveva preso posto accanto al cugino della sovrana, sebbene non avesse ancora rivelato il suo sembiante agli altri Numenoreani, pure sembrava essere la fonte di tale luminosità. Con crescente stupore, Ëargon mirò lo straniero mentre, con un gesto lento e al tempo stesso elegante, lasciava cadere il manto che ancora rivestiva la sua carne e la sua sorpresa, questa volta, fu troppo grande per poter essere occultata, né egli fu l’unico a mostrare un tale atteggiamento: l’ospite, infatti, non era un uomo, come molti avevano creduto, bensì una donna di indicibile bellezza. I Principi di Numenor ed i loro servi, gente scaltra e senza alcun ritegno, al solo guardarla furono vittime della lussuria e sussurrarono tra loro commenti che qui non saranno riportati; le Signore di Andor, invece, presero subito a detestarla, perché la donna il cui sembiante era stato ora scoperto, rappresentava ai loro occhi molto di quanto avevano perso in gioventù e che sapevano fin troppo bene non avrebbero più riottenuto: giovane era e non dimostrava avere superato la maggiore età[1], ché la sua chiara pelle era vellutata come seta e la sua capigliatura emetteva riflessi bluastri alla luce delle torce, tanto era scura. Per nulla seccata o intimorita dagli sguardi, ora lascivi, ora invidiosi che le venivano rivolti, la donna, con femminile grazia, si acconciò la chioma, leggermente scomposta a causa del lungo viaggio che aveva dovuto compiere per giungere fino a codesto luogo, e tutti ebbero modo di scorgere la sua affusolata mano carezzare dolcemente il capo; terminato che ebbe questo compito, ella rivolse i suoi azzurri occhi, sì splendenti che nessuno ne aveva mai visto un paio simili, al suo affascinato pubblico ed essi le furono soggiogati. Lentamente, l’ospite si levò nuovamente dallo scranno sul quale mollemente si era adagiata, lasciando cadere il nero mantello che l’aveva avvolta, simile ad una nube che oscura la luna nel plenilunio; un secondo mormorio colmo di stupore, ammirazione ed astio si levò, allora, ed il cuore di Ëargon fu trafitto, senza che egli potesse opporre una valida resistenza alla brama di lei che di istante in istante diveniva più forte nel suo animo. Superbamente bella, la donna si mostrava ora nella sua seducente femminilità: un lungo abito bianco le cingeva morbidamente il corpo, aderendo sui suoi seni e sui suoi fianchi, simile ad un abbraccio che un amante tenti di rivolgere all’oggetto del suo disio, mentre da una nera cinta, i cui intarsi argentati splendevano lugubri nella notte rischiarata dalla bellezza della donna, pendeva una leggera lama, la cui foggia, tuttavia, a molti parve essere simile a quelle portate dalle donne numenoreane – poche in verità – che erano esperte nell’arte della scherma e la cui elsa, ricavata da un unico frammento di ametista, risplendeva anch’essa nella notte.

Un grazioso diadema era posto sul capo di colei che aveva ridotto al silenzio un uditorio che sino a pochi istanti prima era sconvolto da dispute e da rancori ed Ëargon si avvide che la medesima pietra preziosa che costituiva l’elsa della sua lama era posta al suo centro: incapace di parlare, egli non poté, tuttavia, evitare di pensare che la bellezza di codesta dama superava di gran lunga quella di qualunque altra donna avesse conosciuto, finanche di Miriel, che pure era da ogni Numenoreano considerata il fiore più grazioso che fosse mai stato concepito sull’isola sin dai tempi di Elros Tar-Minyatur. Affascinato, il figlio di Morlok osò mirarla nei suoi glaciali occhi e scorse, in un turbinare di sensi, la spietatezza dell’acciaio, la ferocia di una tigre del lontano meridione, l’intelligenza dello sparviero che sorvola le cime dei monti immersi nella bruma e la malizia della furtiva volpe che erra raminga nei campi di grano: sospirò d’amore e di desiderio e la volle per sé ed ella in verità, non fu tarda nel concedersi ai suoi desideri, sebbene, come fu chiaro in seguito, non agì seguendo il medesimo desiderio che ora si agitava furioso nel petto del Numenoreano, quanto piuttosto la sua lussuria ed il suo freddo raziocinio, ché ella era Adûnaphel l’Occultatrice, Settima fra i Nazgûl e Spadaccina di indicibile valore ed esperienza».

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Note

[1] Si ricordi che presso i Numenoreani il conseguimento della maggiore età avveniva al compimento del trentacinquesimo anno di età.

Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana

Care lettrici, cari lettori,
dedico questo articolo a uno degli aspetti meno conosciuti, ma per questo non meno importanti, della genesi del mito di Numenor in Tolkien. Avrei dovuto, in realtà, scrivere questo articolo presentandolo come una sorta di «cappello introduttivo» all’ultimo racconto che ho iniziato a trascrivere in questi giorni (potete leggerne le prime pagine in Numenor: Game of Thrones (I)), ma impegni vari non mi hanno permesso di rispettare questa scadenza.
In questo articolo saranno analizzate alcune lettere di Tolkien incentrate su una serie di aspetti particolarmente importanti per spiegare non solo le ragioni profonde che furono alla base del conflitto civile, scoppiato nell’anno 3255 della Seconda Era, tra i sostenitori della regina legittima Tar-Miriel e i seguaci di suo cugino Pharazon, ma anche per indagare sulla ritrosia che caratterizzò Tolkien in relazione al mancato approfondimento di queste ragioni, potremmo dire, a carattere «storico-sociale». Questo tema, in parte, è stato affrontato dal sottoscritto, per la prima volta, negli articoli: Scrivere degli Uomini. Un limite di Tolkien? e Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria che vi invito a leggere (o rileggere).
L’analisi delle lettere di Tolkien è di grande importanza per chi desideri approfondire le ragioni che spinsero l’autore del «Signore degli Anelli» a compiere alcune scelte precise in merito al dipanarsi della trama (o forse sarebbe più corretto riferirsi, data la vastità degli argomenti trattati nei suoi racconti e romanzi, alle trame) di quel lungo percorso che, fin dalla creazione del Mondo Secondario, avrebbe condotto molti millenni più tardi, all’ascesa e poi alla caduta di Numenor, l’isola del Dono. Per comodità mia (e di chi mi legge) ho deciso di suddividere questo articolo in due paragrafi, corrispondenti a ciascuno degli argomenti presi in esame nel corso di questa trattazione.

I sovrani di Numenor ispirati al mito egizio dei faraoni?

Nella lettera 156, datata verso la fine del 1954, Tolkien si sofferma sulla figura del sovrano di Numenor. I lettori delle opere del professore di Oxford sanno che la linea regale che resse il trono dell’Isola del Dono affondava le proprie radici nell’unione fra Uomini, Elfi e Maia, ossia spiriti angelici: questa, dunque, è la ragione per cui, ancora nella tarda Terza Era, Denethor, Sovrintendente di Gondor, lamenterà al proprio figlio maggiore, Boromir, come il ruolo dei sovrani di quel Paese (a loro volta discendenti di un ramo «cadetto» dei sovrani numenoreani) non avrebbe mai potuto essere soppiantato, per così dire, dai Sovrintendenti, nonostante fossero ormai trascorsi più di mille anni dalla scomparsa dell’ultimo sovrano del Reame Meridionale. È evidente, dunque, che il lignaggio dei sovrani di Numenor sia una delle prerogative fondamentali per tramandare questa importante carica senza soluzione di continuità; è sufficiente dare un’occhiata alla cronologia dei diversi re dei Dunedain, posta nel volume «Racconti Incompiuti», per rendersi conto, infatti, di come non appaiano mai altri sovrani provenienti da diversi lignaggi (sia pure all’interno dei numenoreani). Certo conosciamo molto poco (per usare un eufemismo) delle mogli dei sovrani di Numenor, però sembra evidente che la linea di successione sia costituita da eredi diretti di Elros, primo re di quell’isola e fratello di quell’Elrond che scelse di essere immortale come gli elfi e si stanziò, invece, nella Terra di Mezzo. Nella lettera che segue, Tolkien si sofferma sugli attributi sociali e, allo stesso tempo, religiosi, che contribuivano fortemente a rafforzare l’autorità del sovrano numenoreano:

«I Numenoreani cominciarono così una nuova grande epoca, e come monoteisti; ma come gli Ebrei (ancora di più) avevano un unico centro fisico di venerazione: la sommità della montagna Meneltarma «Pilastro del Cielo» […] Anche quando i Re si estinsero non restò più niente di simile al sacerdozio: le due cose per i Numenoreani erano equivalenti» (La Realtà in Trasparenza, lettera 156)

L’analogia con gli antichi Egizi è ripresa nella lettera 211, laddove Tolkien, approfondendo la caratterizzazione dei Gondoriani, confessa che questi

«erano orgogliosi, particolari e strani, e penso che la cosa migliore sia raffigurarli come (diciamo) Egizi. Assomigliano agli Egizi sotto diversi aspetti – la passione per, e la capacità di costruire, opere gigantesche e massicce (Ma naturalmente non per la loro teologia: rispetto alla quale assomigliavano più agli Ebrei, anzi erano persino più puritani – ma questo sarebbe troppo lungo da spiegare: spiegare perché praticamente non esiste una religione manifesta, o piuttosto atti o luoghi o cerimonie religiose fra i «buoni» o anti-Sauriani, all’interno del Signore degli Anelli» (La Realtà in Trasparenza, lettera 211).

Ancora sulla figura del sovrano numenoreano tipico, Tolkien, nella lettera 244 aggiungeva, infine, che:

«un re Numenoreano era un monarca, con il potere assoluto di decidere durante una discussione; ma governava il regno rispettando l’antica legge, di cui era amministratore (e interprete), ma non autore» (La Realtà in Trasparenza, lettera 244).

Ciò che mi sembra importante sottolineare, sulla base della lettura di questi documenti, è che il sovrano numenoreano, nelle intenzioni di Tolkien, doveva essere una guida non solo politica e amministrativa (come ogni altro capo di Stato, del resto), ma anche religiosa e, direi, simbolica. Ricordate come riescono gli abitanti di Minas Tirith a capire che Aragorn è il re tanto atteso? Dalle sue capacità di guaritore. Senza dubbio, anche i suoi antenati dovevano essere in grado di praticare queste arti mediche benefiche. Questa figura di sovrano, che troviamo anche in contesti storici (per esempio, si riteneva che gli antichi re francesi fossero in grado di guarire i loro sudditi da alcune malattie semplicemente imponendo loro le mani sul capo) ha però un limite evidente: diventa di grande utilità nel momento in cui una società è rigidamente organizzata da un punto di vista sociale (come doveva essere Numenor nella sua prima fase di esistenza), oppure all’interno di società profondamente in crisi (come il regno di Gondor alla fine della Terza Era), tuttavia può risultare «scomoda» nel momento in cui una società si articola maggiormente e compaiono, per così dire, «centri alternativi di potere» rispetto a quelli regi. Un esempio, sotto questo punto di vista, può essere costituito dal Consiglio dello Scettro, che affiancava il sovrano nelle sue scelte: secondo una nota scritta dallo stesso Tolkien a margine del racconto di Aldarion ed Erendis, questo organismo nel tempo aveva profondamente mutato la sua forma, diventando di fatto un potere alternativo rispetto a quello del sovrano. Nei secoli centrali e finali della Seconda Era, d’altra parte, si nota un’evoluzione degli stessi sovrani numenoreani: progressivamente, infatti, a parte alcune eccezioni significative, essi sembrano tralasciare i loro doveri regali, per concentrarsi unicamente sull’accumulo di ricchezze oppure su ricerche erudite. Sembra evidente, dunque, che, con il trascorrere dei secoli, il potere effettivo sia stato distribuito fra più soggetti, molti dei quali, si può supporre, avessero fatto fortuna grazie alla colonizzazione della Terra di Mezzo.

Una lotta di classe alla base del conflitto civile a Numenor?

Mi rendo conto che questo titolo può sembrare un po’ provocatorio, e non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo. Come i lettori di Tolkien sanno (o dovrebbero sapere) molto bene, questo autore non volle mai accostare le storie della Terra di Mezzo a quelle che riguardavano il Mondo Primario, vale a dire la nostra cara e vecchia Terra, né volle cercare accostamenti di tipo politico, di nessun genere. A un lettore, per esempio, che gli chiese se Mordor corrispondesse all’Unione Sovietica, data la collocazione geografica ad Oriente di entrambi i territori (e l’idea, sottesa a questa affermazione, che Sauron e Stalin fossero considerati entrambi i nemici dell’Occidente, sia di quello fantastico, che di quello reale) Tolkien replicò fermamente che simili accostamenti non avevano alcun senso. Proprio per queste affermazioni contenute nelle lettere del professore di Oxford, non sfugge dunque l’importanza di questa lettera, perché cerca di andare oltre la dicotomia «religiosa» fra Fedeli e Uomini del Re.
In questa sede, dunque, voglio chiarire un concetto che ho toccato marginalmente nel corso di alcuni commenti scritti a margine di articoli precedenti: i Numenoreani Neri, in origine, non erano i seguaci di Pharazon. O almeno, non lo divennero fin quando non furono tutti quanti (a cominciare da Pharazon stesso) corrotti da Sauron, al punto tale da adorare Morgoth e praticare apertamente la Magia Nera. Il Numenoreano Nero più famoso, senza dubbio, è la Bocca di Sauron, che si presume discendesse da quei Numenoreani che si erano stanziati lungo le coste della Terra di Mezzo perché avidi di scienza malefica praticata da Sauron. Prima dell’arrivo dell’Oscuro Signore a Numenor, tuttavia, coloro che si opponevano ai Fedeli all’amicizia con gli Elfi, e al culto dei Vala e dell’Unico, erano noti come «Uomini del Re»: questa designazione indicava, dunque, quei Numenoreani che seguivano l’orientamento sempre più marcatamente imperialistico che i sovrani di quel popolo, nella fase centrale e finale della Seconda Era, finirono con il rendere l’obiettivo primario della loro politica. Questo non vuol dire, naturalmente, che alcuni di loro non avessero già deciso di lasciarsi corrompere da Sauron (come dimostra la storia dei tre Nazgul di origine numenoreana, accennata, ma mai ampiamente approfondita nel Silmarillion); tuttavia, è bene ribadirlo, la grande differenza tra questi e i Fedeli consisteva nel progressivo allontanamento dei primi dalla religione dei Valar, alla quale, tuttavia, almeno fino all’arrivo di Sauron nella loro isola, non si sostituì il culto di Morgoth. Questa differenza, se da un certo punto di vista può sembrare di scarsa influenza (dopotutto, gli Uomini del Re possono essere considerati, anche da un punto di vista «genetico», per così dire, gli antenati diretti dei Numenoreani Neri), appare invece di grande importanza nel momento in cui si esaminano le cause della decadenza di Numenor e il ruolo che Sauron svolse in questo processo. Un ruolo che, a ben vedere dalle parole che Tolkien adoperò in questa lettera, assomigliava sempre più a quello di «leader politico» oltre che, naturalmente, religioso e che finì coll’interagire apertamente con una serie di interessanti problematiche che, ancor prima della comparsa di Sauron a Numenor, dovevano avere provocato uno stato di crescente tensione sociale nell’isola del dono.

«Nella seconda fase, i giorni dell’orgoglio e della gloria e del risentimento contro il Divieto, cominciano a cercare il benessere piuttosto che la beatitudine. Il desiderio di sfuggire alla morte ha prodotto il culto delle morte ed essi profondono ricchezza e arte sulle tombe sui monumenti funebri. Ora incominciano a insediarsi sulle coste occidentali, ma questi insediamenti assomigliano sempre più a fortezze e ad abitazioni signorili, e i Numenoreani diventano raccoglitori di tributi, portando dal mare una quantità sempre maggiore di ricchezze nelle loro grandi navi». (La Realtà in Trasparenza, lettera 131)

Ancora più indicativo è questo breve estratto dal Silmarillion, che dimostra a quale livello fosse giunta la tensione sociale presente nell’isola di Numenor:

«E accadde in quei giorni che uomini dessero mano ad armi, trucidandosi a vicenda per motivi insignificanti, poiché s’erano fatti pronti all’ira e Sauron o coloro che questi aveva legato a sé andavano per il paese aizzando gli animi, sì che la gente mormorava contro il Re e i signori ovvero contro chiunque avesse qualcosa che essi non avevano; e coloro che disponevano di potere traevano crudele vendetta» (Il Silmarillion, pp. 344-345)

Da questo brano appare come Sauron, oltre ad avere velleità di tipo «politico» sia stato caratterizzato da Tolkien come una divinità che gli antropologi non esiterebbero a definire «trickster», ossia imbroglione, truffatore, come lo era, per esempio, Loki. Curiosamente, si può osservare come in questo brano Tolkien riprenda in parte la caratterizzazione che Sauron aveva quando era stato concepito come Tevildo, il Signore dei Gatti: una creatura perfida, tendente a fare il doppio gioco (cfr. «Racconti Perduti», dove questo personaggio appare in una versione primitiva del racconto di Luthien e Beren; per inciso, è in questo racconto, poi abbandonato dall’autore, che si spiega l’ostilità fra gli Elfi e i Gatti). Sembra evidente come a Sauron non importi assolutamente nulla della questione sociale legata agli «squilibri» derivati, con ogni probabilità, dalla concentrazione di ricchezze nelle mani di una ristretta cerchia di numenoreani: il suo obiettivo, infatti, era quello di approfondire il solco già esistente tra i diversi gruppi sociali dell’Isola del Dono, facendo leva ora sul desiderio dei ceti più diseredati di riappropriarsi di una parte delle ricchezze che dovevano essere loro state sottratte dalle élites, ora sui ricchi numenoreani che, spaventati da una possibile rivolta (o addirittura una rivoluzione?), avrebbero volentieri fatto ricorso alla forza per soffocare ogni tentativo di sovvertire i rapporti di forza esistenti.

Conclusioni: un epilogo già annunciato

L’influenza diretta di Sauron sulle genti numenoreane si ebbe solo a partire dalla sua finta sottomissione ad Ar-Pharazon, avvenuta nell’anno 3262 della Seconda Era. Le lettere di Tolkien citate in questo articolo, tuttavia, mettono in luce alcuni interessanti elementi che vale la pena di riassumere in questo paragrafo conclusivo e che ci consentono di sostenere la tesi secondo cui la fine del regno numenoreano era già stata avviata ben prima della guerra civile che portò al potere Pharazon.
1) La figura del sovrano di Numenor, così come appare nella prima lettera citata in questo articolo, possedeva valenze sia politiche che religiose. La rinuncia della maggior parte dei Numenoreani al culto dei Vala e di Eru rese la sua figura probabilmente più debole, da un punto di visto simbolico, accentuando, al contrario, il potere dei nobili che circondavano il sovrano e che siedevano al Consiglio dello Scettro e che potevano contare su maggiori ricchezze e (probabilmente) su un numero maggiori di soldati che dipendevano dai loro ordini e che si erano distinti nel saccheggio e nell’occupazione della Terra di Mezzo.
2) Esisteva a Numenor una fortissima contrapposizione tra le classi sociali: se è vero, infatti, che, nel suo complesso, la società numenoreana era diventata più ricca e potente, non mancavano, tuttavia, forti differenze al suo interno (basti vedere quello che succede nella società odierna, per rendersene conto). Sauron approfittò di questa divisione per i suoi fini, tuttavia non fu lui a crearla dal nulla.
3) Si fa presto a contrapporre Fedeli ai Seguaci di Pharazon: in realtà, dovevano esserci diverse posizioni all’interno di questi schieramenti, alcune più «moderate», altre più «radicali», legate, probabilmente, anche a fattori di natura sociale ed economica. A questo proposito va ricordato come lo stesso Pharazon, pur essendo ovviamente un personaggio squallido e corrotto, non aveva alcuna intenzione di sottomettersi a Sauron (almeno queste erano le sue intenzioni, quando preparò la sua flotta per conquistare Mordor). Per Pharazon, come per tanti altri suoi seguaci, Sauron era anzitutto un avversario «politico» in quanto le sue azioni aggressive minacciavano il dominio numenoreano nella Terra di Mezzo. Che Sauron fosse «anche» il discepolo di Morgoth doveva sembrare, per molti Numenoreani, un argomento trascurabile. Avrebbero reagito allo stesso modo se, per assurdo, Gil-Galad avesse deciso di intraprendere la conquista della Terra di Mezzo; state pur certi che non avrebbero esitato a dichiarargli guerra! Questa crisi insita nella rappresentazione della figura del monarca numenoreano è stata poi sviluppata nel mio «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», al cui interno, partendo da questi scarni elementi presentati da Tolkien, mi sono spinto oltre, interrogandomi su una questione affascinante, destinata, naturalmente, a restare senza risposta: e se i tempi a Numenor, prima della Guerra civile, fossero divenuti maturi per una evoluzione radicale della forma monarchica di quella nazione? Cosa sarebbe accaduto se, oltre a porre in crisi la figura (debole) di Tar-Miriel, una parte dei Fedeli avesse avanzato riserve sull’istituzione monarchica in quanto tale?

Numenor: Game of Thrones (I)

Bentrovati! Per il titolo di questo articolo, come avranno notato i lettori dei romanzi «Cronache del ghiaccio e del fuoco» scritti da George Martin, mi sono ispirato alla celebre serie televisiva «Il Trono di Spade» (Game of Thrones). Nessuna paura! Non ho intenzione di mescolare elementi delle opere tolkieniane con quelli del celebre scrittore statunitense. Si tratta solo di un simpatico omaggio a una famosa serie TV, che mi è di grande utilità, però, per introdurre due racconti postumi (scritti, cioè, dopo aver terminato la prima stesura del «Ciclo del Marinaio») nei quali ho provato ad approfondire un aspetto della storia numenoreana, relativo alla guerra civile combattuta a Numenor nell’anno 3255 della Seconda Era, che avevo toccato solo marginalmente nel «Racconto del Marinaio e della Principessa».
Il conflitto vide schierati da un lato i Numenoreani fedeli al culto dei Valar e di Eru e dall’altro i sostenitori delle pretese avanzate da Pharazon – cugino di Tar-Miriel, legittima regina – al trono. Molti di voi sanno già come si concluse questa guerra civile; gli altri potranno scoprirlo leggendo questi due racconti. In fondo, le macchinazioni avanzate dagli uni e dagli altri per assicurarsi la vittoria dettero origine, a tutti gli effetti, a una sorta di «giochi diplomatici», nei quali complotti e tradimenti erano all’ordine del giorno.
In particolare, il racconto «L’Ombra e la Spada» che vi apprestate a leggere a partire da questo articolo presenta una singolare caratteristica: a differenza di tutti gli altri, che erano invece basati su ricordi ed esperienze vissute direttamente da Erfea o comunque facilmente recuperabili da una cerchia di persone che con il paladino di Numenor avevano relazioni, questo racconto è (almeno fino a questo momento) l’unico scritto da personaggi che con Erfea non avevano relazioni dirette, se così si può dire…dal momento che, come vi accingerete a leggere, i protagonisti di questo e dei prossimi articoli saranno proprio i capi della fazione avversa a Tar-Miriel, fra i quali un grande ruolo sarà attribuito ai tre principi numenoreani che furono corrotti da Sauron e furono tra i più potenti fra i Nazgul: Er-Murazor, Akhorahil ed Adunaphel.

Per questa ragione, trovo importante trascrivere, prima ancora di presentarvi l’incipit del racconto, una nota che spiega come questo documento finì nelle mani di Erfea.

«Questo scritto pervenne ad Erfëa tramite un’ambasciata che giunse a Gondor allorché erano trascorsi pochi mesi dalla Caduta: colui che gli consegnò il manoscritto, accompagnò tale dono con una lettera nella quale spiegava di essere stato per molti anni schiavo di Pharazôn e di essere fuggito da Numenorë allorché il suo Signore, venuto a conoscenza che questi aveva trascritto resoconti di vicende che non desiderava altri conoscessero, ordinò di ucciderlo e di bruciarne la dimora. Sulle prime, il principe di Minas Laurë esitò a prestare fede a tale scritto, ché molto diffidava dei Numenoreani Neri e dei loro inganni; in seguito, rimembrò che fra coloro che erano stati del seguito dell’ultimo sovrano di Andor, vi era un uomo il quale era solito essere condotto in catene dinanzi al suo trono per il bieco divertimento del re e della corte intera, ché era muto e nulla poteva ribattere alle risate crudeli che il governatore dell’isola riversava sul suo capo e comprese il suo errore. Sceso dallo scranno, il Sovrintendente di Gondor domandò perdono all’uomo per non averlo riconosciuto fin dal principio e ordinò che fosse ospitato fino alla fine dei suoi giorni presso una ricca dimora che gli fu assegnata come risarcimento per le torture che aveva subito durante gli anni ormai distanti della sua giovinezza: grato per il dono del principe, l’uomo, il cui nome era Khanor, visse ad Osgiliath per due anni ed infine spirò».

Prima di lasciarvi alla lettura dell’articolo, infine, voglio fare un’ulteriore premessa: questo racconto e quello che segue, intitolato «Il racconto dell’infame giuramento» presentano un tono più cupo e drammatico rispetto a quelli che avete letto fino ad oggi. In parte, questa scelta è stata motivata dalla necessità di assecondare un linguaggio più consono ai protagonisti principali di questi racconti, che militano nel campo «avverso», per così dire; in secondo luogo, soprattutto nel primo racconto, ci sono evidenti influssi derivati dalla lettura dei romanzi di H.P. Lovecraft, soprattutto a livello di ambientazione. Credo ne sia uscito un quadro abbastanza diverso dal solito – si potrebbe dire, con una battuta, che questi sono i racconti forse «meno tolkieniani» che io abbia mai scritto – ma lascio a voi il compito, spero piacevole, di giudicare se sia o meno riuscito nel mio intento.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«In quei giorni[1], Pharazôn, nipote di Tar-Palantir, sovrano di Numenor nei giorni del suo triste declino, tenne un consiglio fra quanti erano del suo partito, ché egli, sebbene si fosse atteso la proclamazione di sua cugina a sovrana di Numenor, pure non smetteva di detestarla, temendo che i Fedeli avrebbero preservato negli anni del suo regno la gloria che sì recentemente avevano conquistato: incapace di trattenere ulteriormente la sua ira ed il suo timore, convocò coloro che erano stati i camerati di suo padre e che erano sopravvissuti alla prigionia o alla morte in battaglia. Sulle prime, gli Uomini del Re espressero un palese disagio nell’ottemperare la richiesta del figlio di Gimilkhâd e questo accadeva perché erano sopravvissuti in pochi e temevano di terminare tristemente i propri brevi giorni; infine, poiché essi erano ansiosi di ottenere vendetta su Tar-Miriel e i suoi Paladini, acconsentirono ad incontrare Pharazôn nella cave abbandonate di Dûr-Zhirûk[2], poste all’estremità meridionale della penisola di Andustar: tale contrada godeva di cattiva fama, ché i pastori non permettevano che i loro armenti pascolassero nei suoi recessi nebbiosi e grigi, né i pescatori osavano condurre le loro fragili imbarcazioni nei pressi delle sue imponenti scogliere di nero basalto, il cui silenzio era rotto solo dall’incessante fragore provocato dalla rabbia del Grande Oceano. Pochi fra i sapienti Numenoreani erano a conoscenza di quali oscuri pertugi si aprissero all’interno di tali recessi e non facevano volentieri parola di quanto avevano scoperto ad altri che non fossero i Cundo dell’Accademia, per timore che la follia ed il terrore si impadronissero delle menti di coloro che impunemente fossero venuti a conoscenza di esseri che si diceva fossero vissuti in quegli oscuri antri prima ancora che l’Isola del Dono fosse sollevata dalle acque: a quanti affermavano che solo i Valar avevano avuto parte alla creazione di Numenor, costoro replicavano che finanche Melkor era stato nel loro Novero e che dunque, per quanto la sua oscura essenza fosse stata scagliata nello spazio atemporale che si estendeva al di là del Tempo, pure il suo malefico influsso aveva contributo, in parte, alla sollevazione di Elenna dal fondale dell’Oceano, plasmando la roccia di Dûr-Zirûk secondo la sua perversa volontà. Per molti secoli, i Numenoreani avevano evitato le contrade oscure che si estendevano al di là delle desolate piane dell’Andustar; infine, coloro che erano tra gli Uomini del Re noti per la loro malvagità e crudeltà, avevano edificato in questi luoghi oscuri altari a divinità senza nome, il cui culto era sopravvissuto negli anni fino a giungere ai giorni di Pharazôn; questi, sebbene fosse poco o punto propenso a credere ai racconti che circolavano su Dûr-Zirûk, pure aveva esplorato quegli spaventosi anfratti e si era convinto che l’orrore primigenio che emanavano gli affreschi immondi che ne coprivano i soffitti avrebbe influenzato le menti dei suoi camerati, esortandoli a compiere la scelta che avrebbe ritenuto più consona ai propri interessi. Riluttanti, i Signori degli Uomini del Re accettarono il suo invito, non prima di aver giurato che non avrebbero rivelato a nessun altro figlio di Iluvatar quanto avrebbero scorto o udito in quelle immonde sale sotterranee: accadde dunque che durante un novilunio, quando massimo cresceva nel cuore dei Fedeli il timore e l’avversione per le contrade il cui nome risuonava alle loro orecchie maledetto ed infido da ascoltarsi, essi si radunassero a Dûr-Zhirûk, abbigliati nelle loro regali vesti; per primo, giunse Khorazîd, Principe dell’Andustar, e numeroso era il suo seguito di schiavi, concubine e mercenari; dopo che egli ebbe abbandonato la sua lettiga d’oro e si fu calato nelle voragini della terra, altri Signori della schiatta ribelle di Elros Tar-Minyatur lo seguirono. Dôkhôr, Principe del Fornastar, fuggito anni prima nella Terra di Mezzo perché accusato di aver perpetuato immani stragi nelle province che Ar-Gimilzor gli aveva attribuito, era fra coloro che presero parte al consesso; Azâran, Principe dell’Ondustar, il più anziano fra i camerati del padre del giovane Pharazôn, era stato fra i primi ad accorrere allorché l’erede del suo signore era giunto alla sua antica dimora per condurgli di persona la missiva sulla quale era trascritto l’invito al Consiglio del Partito degli oppositori alla Regina; finanche Akhôrahil, che pure era scomparso da Numenor allorché Erfëa aveva scoperto la sua reale identità celata nei deserti infuocati del remoto Harad, aveva fatto ritorno ad Andor e, sebbene avesse mutato il suo sembiante, pure furono in molti coloro che crederono di riconoscere nel suo volto l’antico membro del Consiglio dello Scettro di Ar-Gimilzor. Principi e dame – ché, seppure in numero inferiore, esse erano presenti al consesso e si dimostrarono non meno risolute e spietate di quanto non lo fossero i loro consorti – furono condotti da esperte guide per segreti pertugi fino alle radici dell’Isola, ove i loro sguardi, che pure erano avvezzi alle peggiori nefandezze che i Secondogeniti avessero escogitato nel corso di lunghi secoli, furono atterriti e disgustati, sicché non furono pochi coloro che si coprirono il capo a causa del terrore che affreschi obliati da molti anni suscitavano in loro; finanche Dôkhôr, che pure era il signore di quella contrada, non aveva mai fatto visita a quegli orrendi sepolcri prima di quel momento ed il suo viso era ora pallido e smorto, come se un gran male l’avesse colto: unico fra tutti i presenti a non darsi pena per quanto accadeva era Akhôrahil, ché egli era fra i servi maggiori di Sauron e, sebbene conoscesse poco o punto i segreti nomi delle divinità ivi venerate per mezzo di orrendi sacrifici, le cui tracce erano ancora visibili sugli altari consunti dal tempo, pure si avvedeva che servivano il medesimo scopo del suo Padrone e di ciò si compiaceva».

Note

[1] Vi è qui un’allusione agli ultimi giorni del regno di Tar-Palantir: secondo alcuni commentatori, potrebbe riferirsi al terzo mese dell’anno 3255 della Seconda Era, ché la designazione di Miriel a sovrana di Numenor fu comunicata ai ministri del regno solo all’inizio della primavera, e tra questi gli unici ad averla appresa prima di tutti gli altri erano stati Amandil ed Erfëa.

[2] Dûr-Zhirûk, la Roccia del Demone nell’Adunaico, antica favella degli Uomini dell’Occidente.

P.S. In questi giorni ha raggiunto e superato la quota di 1000 commenti…sono molto soddisfatto di questo piccolo traguardo, ringrazio ciascuno di poi per aver contributo a realizzarlo! Puntiamo a…duemila!

Storia di Miriel – Una promessa mancata

Concludo con questo articolo il racconto del «Marinaio e della Principessa»: dopo essere stata designata da suo padre Palantir come nuova regina di Numenor, Miriel deve affrontare nuove sfide, mentre un pericolo inquietante si staglia all’orizzonte e un rapporto, faticosamente ricostruito, rischia di incrinarsi forse per sempre…
Non sarà questo, tuttavia, l’ultimo racconto a narrare le vicende di Erfea e Miriel: al contrario, essi torneranno nei prossimi due racconti, i più oscuri e tragici tra quelli che ho scritto, che narreranno le vicende che, attraverso una crudele guerra civile, condussero all’instaurarsi del regno di Pharazon

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Tale fu dunque l’esito di una giornata che in seguito fu ricordata dagli esuli nella Terra di Mezzo come l’inizio della Caduta: infatti né il Senato, né il Consiglio dello Scettro riuscirono a portare avanti i loro lavori, ché i Numenoreani fedeli a Pharazon abbandonarono Feneria, in aperta sfida alla nuova sovrana, non riconoscendone l’autorità.

Pharazon abbandonò il Consiglio per ultimo, ridendo in modo beffardo, mentre si allontanava; egli non si curava di quanto accaduto, ché sapeva bene come la sua vittoria sarebbe giunta comunque, sebbene apparentemente risultasse sconfitto. Molti alleati e poteri sostenevano Pharazon, gli stessi che un giorno ancora distante lo avrebbero condotto a percorrere il sentiero della follia, fino alla sua rovina e a quella di Numenor.

Nessuno dei Dunedain, rimasti fedeli a Tar-Miriel[1], tuttavia, osava immaginare quali sarebbero state le conseguenze di quel giorno infausto. Erfea si avvicinò ad Elendil e così gli si rivolse: “Salute e te erede della casa di Andunie! Grande eloquenza hai dimostrato oggi di possedere, unita a saggezza e coraggio. Possa la tua stirpe continuare a prosperare, ché in essa sarà preservata la memoria degli antichi Vala e dei Giorni Remoti[2]”. Lieto, Elendil fece un breve inchino, infine prese la parola: “Grati mi giungono i tuoi complimenti; tuttavia a te, Erfea, figlio di Gilnar, della casa degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin, dico che quando il tuo seme andrà perduto, allora Numenor cadrà, ché ben pochi fra noi possono competere con te in potenza e lungimiranza. Possa Manwe proteggere sempre la casa degli Hyrrostar, paladino di Elenna”. A tali parole, Erfea si inchinò a sua volta, e così i due uomini si congedarono.

Il figlio di Gilnar, tuttavia non abbandonò Feneria, ma ivi rimase, finché Tar-Miriel non lo ebbe raggiunto, quando ormai il crepuscolo era calato, e più nessuno vi era nell’ampio spiazzale, ed altro suono non si udiva se non l’eco del canto di Ulmo salire dolcemente dal basso.

A lungo Erfea e Tar-Miriel si osservarono, cercando ciascuno di sondare il pensiero altrui, infine Erfea prese la parola: “Salute a te, regina di Numenor! Non ti dissi forse che il nostro prossimo incontro sarebbe avvenuto quando entrambi avessimo assunto un nuovo nome? Ebbene, ora siamo in tal luogo, di pace e serenità, eppure scorgo nei tuoi occhi la stessa ansia e infelicità di allora. Non sono forse veritiere le mie parole?”

“Mio signore – replicò Tar-Miriel – all’epoca del nostro primo incontro non mi avvidi della tua lungimiranza. Intorno a me è caduta una cortina oscura, tale che i miei sensi ne sono offuscati e la mia anima si duole per questo. Il mio destino è ormai scritto a chiare lettere e a esso io non mi sottrarrò. Non dirò però se esso mi risulti gradito o meno; tuttavia sono lieta che Elendil di Andunie ed Erfea Morluin siedano con me al Consiglio dello Scettro”.

Ciò detto un sorriso illuminò lo spento viso di Tar-Miriel, come un raggio di luna che si fosse posato su un diamante, facendolo risplendere. Erfea si alzò e presale la mano la baciò dolcemente: “Così dovrà essere, ché innanzi a me io scorgo innumerevoli disagi e pericoli, davanti ai quali, forse, l’isola del Dono è destinata a soccombere. Non ti indicherò, Tar-Miriel quale dovrà essere il sentiero da percorrere; se non sarai tu in grado di tracciare la giusta rotta, allora nessun altro potrà farlo. Io però voglio farti una domanda alla quale ti prego di rispondere”.

Rise allora Tar-Miriel e l’eco del suo riso incuriosì e meravigliò ogni forma di vita che si trovava in quel luogo: rami parvero tendersi verso di lei, mentre innumerevoli animali si approssimarono ai suoi piedi, invisibili agli occhi umani; finanche le grandi e maestose aquile di Manwe si levarono in volo, senza avvicinarsi troppo tuttavia, essendo quello un luogo sacro, ma limitandosi ad osservare la bionda fanciulla, per mezzo della loro vista acuta.

Tar-Miriel rise ancora, poi fece un inchino ad Erfea: “Davvero, principe di Hyarrostar, tu chiedi questo? Eppure, tale è la tua lungimiranza, che la mia riposta invano potrebbe essere elusiva o falsa. Tu domandi una risposta che possiedi dentro di te”. Sorrise compiaciuto Erfea: “Potente è invero il dono della lungimiranza, eppure non ritengo di sbagliarmi affermando che esso giunge alla maggior età, divenendo molto forte negli eredi di Elros”. Rise nuovamente Tar-Miriel, e parve davvero che il velo d’oscurità che l’aveva turbata, sfumasse come nebbia al sole: “Invero, non ti sfugge alcun dettaglio, figlio di Gilnar. Suvvia! Entrambi conosciamo quale sia l’interrogativo e quale sia la risposta. Non negherò che a lungo ho temuto questo momento, eppure ora tale paura è scomparsa, lavata via da questa notte benedetta. Forte è la tempra degli uomini, se essi così a lungo attendono e infine gioiscono”. “E ancor più splendente è Tar-Miriel, sovrano di Numenor, se la sua luce trafigge l’oscuro velo che a lungo l’aveva imprigionata”. Sorrise l’erede di Elros, mentre porgeva il proprio braccio ad Erfea, raggiungendo Armenolos, perla di Numenor, l’uno fianco all’altra; giunti che furono innanzi al palazzo, così si congedò Tar-Miriel dal suo ospite: “Erfea, possono gli dei ricompensare il tuo valore e la tua saggezza, con quanto il tuo cuore arde di ottenere.”

“Invero, Tar-Miriel, giusta ricompensa è stato per me questo incontro. Sono lieto che tu abbia accettato questo incarico nel tuo cuore”.

“Davvero Erfea, credi che la mia forza sia stata sufficiente a dirigere in tale direzione il mio percorso? No, principe di Numenor, un’altra volontà oltre alla mia ha deciso che così dovesse essere; grata sono ad essa, ché ancora la mia deve crescere e svilupparsi. Non è stato detto forse che il seme è lento a germogliare? Attendo dunque che fiorisca”.

“È stato anche detto che dal buon virgulto, si sviluppa la vite dai dolci frutti” le rispose Erfea sorridendo, e così i due si lasciarono, ripromettendosi di vedersi l’indomani.

Molti eventi funesti, impedirono che Erfea e Tar-Miriel potessero nuovamente incontrarsi, che nell’anno 3255 della Seconda Era, la guerra civile scoppiò per la seconda volta a Numenor e per molti mesi si combatté per mare e per terra, nell’isola e nel continente della Terra di Mezzo.

A lungo i capitani dei Dunedain opposero una fiera resistenza ai Numenoreani Neri, aiutati nel loro compito dai cavalieri del Rhovanion, degli elfi di Gil-Galad, e dai nani di Durin IV. Invano Erfea vinse una grande battaglia, strappando la città di Tharbad[3] ai Numenoreani Neri; invano ché nulla poteva il coraggio dei Dunedain contro il Signore di Mordor; cospiratori egli inviava per sobillare le feroci genti dell’Harad e gli Esterling del Rhun contro i popoli liberi e sebbene questi guerrieri della steppa e del deserto, non marciassero ancora tra le stesse file dei Numenoreani Neri, mai capitò che i seguaci di Pharazon cadessero vittima di agguati di tali popoli. Molti capitani esperti e valorosi, furono torturati e trucidati dai servi di Mordor, e laddove non si poté giungere con la spada o con l’inganno, gli agenti dell’Oscuro Signore si servirono dell’oro corruttore. In tal modo la guerra fu vinta da colui che sarebbe divenuto l’ultimo re dei Numenoreani, Ar-Pharazon il Dorato; eppure mai, finanche nel periodo di massimo splendore del suo regno, egli si rese conto dell’enorme prezzo che la sua vittoria aveva richiesto, ché Sauron di Mordor, e non già Ar-Pharazon fu il vincitore del conflitto. Forte divenne allora il potere dell’Ombra sugli uomini, ed ecco, essi non badavano più alla loro discendenza, ma in sale vuote e sepolte nel profondo della terra, trascorrevano la loro folle esistenza alla ricerca dell’immortalità, mentre eruditi ormai obliati, stilavano libri d’araldica delle stirpi di uomini vissuti nei tempi remoti; su alte torri, folli astronomi senza volto domandavano segreti inaccessibili ai mortali alle fredde e silenziose stelle di Varda.
Tale fu l’esito della guerra a Numenor; tuttavia, poiché il dolore superò la comprensione, ben pochi tra gli Elendili si occuparono di annotare quanto accadde in quei giorni lontani e scarsa è la nostra documentazione a proposito.
Tuttavia, fu detto che Erfea a lungo abbia tentato di parlare alla sovrana, e che quando ci fu riuscito, tali parole la sua bocca abbia pronunciato:
“Salute a te, regina di Numenor, Tar-Miriel figlia di Tar-Palantir, erede di Elros! Ecco che l’Oscurità incalza ed io Erfea Morluin, ammiraglio di Numenor, ti pongo questa supplica, affinché quello per cui combattiamo non vada perduto. Pharazon è il generale dei rivoltosi, ed erede anch’egli della stirpe di Earendil. Ti prego affinché venga messo in catene, prima che la fine giunga nelle nostre dimore”.
Accorato fu l’appello di Erfea; tuttavia triste fu la risposta di Tar-Miriel: “Salute a te, ammiraglio di Numenor! Risposta non ho da darti, ché mai riusciresti a comprenderne il motivo. Solo questo posso dirti: una speranza ho dato ai Dunedain ma non ne ho serbato una per me. Ti prego, in nome di Eru e della nostra amicizia di non porgermi altra domanda”.
Sconcertato, Erfea chinò il capo e abbandonò la sala del trono: alcuni mesi più tardi Ar-Pharazon fu incoronato sovrano di Numenor e prese come moglie sua cugina Tar-Miriel, contro la sua stessa volontà e la legge di Numenor, che proibiva il matrimonio tra consanguinei.
Più le mani di Erfea e Tar-Miriel si sfiorarono, mentre Feneria venne abbandonato e le sue colonne andarono in rovina; eppure vi è stato chi fra gli Esuli ha creduto di aver compreso il rifiuto della sovrana di Numenor ad acconsentire alla richiesta del suo ammiraglio. È stato detto, infatti, che ella abbia rifiutato e in seguito abdicato, perché costretta dalla minaccia di Ar-Pharazon, che in caso contrario avrebbe condannato a morte Erfea. Fino alla fine dei suoi giorni Tar-Miriel soffrì per il giuramento fatto al proprio sposo e solitaria trascorse la propria esistenza sino alla Caduta, quando tra le urla e lo sgomento ella perì, vittima del ricatto e dell’antica profezia che Manea anni prima aveva rivelato alle orecchie del sovrano».

Note

[1] Al termine della cerimonia che conferiva il titolo di re all’erede prescelto, costui poneva dinanzi al suo nome l’appellativo di Tar, che nella favella dei Noldor indicava colui che è nobile, e per estensione, il sovrano stesso.

[2] Nel corso della Seconda Era, progressivamente, i secoli precedenti vennero indicati impropriamente con tale locuzione; i Giorni Remoti, tuttavia, dovrebbero includere solo le Ere precedenti la creazione del Sole e della Luna.

[3] Tharbad era la capitale delle colonie numenoreane poste nelle contrade nord-occidentali di Numenor; in seguito tale titolo fu conferito alla città di Annuminas, allorché venne costituito il regno del Nord ed Elendil, figlio di Amandil, divenne sovrano dei Dunedain in esilio.

Storia di Miriel – Un’ascesa al trono contrastata

Con questo articolo presento una parte importante relativa al funzionamento della politica numenoreana nella tarda Seconda Era, ossia i meccanismi che designavano l’ascesa al trono del nuovo sovrano. Su questi aspetti non ho potuto basarmi, se non superficialmente, sui testi tolkieniani: il professore, infatti, si occupò in rare circostanze di questo argomento, accennando solo brevemente alla presenza, nel racconto di Aldarion ed Erendis, di un Consiglio dello Scettro, composto dai nobili di più alto lignaggio, che acquisì col tempo un ruolo e un potere sempre maggiori. Per scrivere questa parte del racconto, dunque, ho dovuto basarmi soprattutto sulle strutture politiche del passato, in particolare della società classica; ho concepito, seguendo queste ispirazioni, due organi di governo: uno, cioè il Senato, eletto dalle Gilde nelle quali erano concentrati i poli produttivi dell’Isola, e l’altro, per l’appunto, il Consiglio dello Scettro, che costituiva una camera ristretta, fissata a cinque membri più il sovrano, il cui voto valeva doppio. Può essere che qualche lettore trovi questa parte un po’ noiosa, perché si dilunga sul funzionamento di questi meccanismi amministrativi: me ne rendo conto, tuttavia è necessaria per la comprensione dell’evoluzione che la civiltà numenoreana stava vivendo in questa fase e della quale tratterò più approfonditamente in un prossimo articolo.
Ad ogni modo aspetto i vostri commenti, buona lettura!

«Giunse infine il giorno del Consiglio dello Scettro, ché molti eventi futuri avrebbe decretato: fin dalla prima ora del giorno, legati inviati da tutte le circoscrizioni di Numenor, avevano occupato i propri posti alle falde del Menalterma; era lì, infatti, che sorgeva la grande dimora che ospitava i membri del Consiglio e gli Ataranya[1] del Senato: Feneria, veniva chiamato, luogo del silenzio ché mai, tranne in tali occasioni, si udiva altro suono che non fosse lo stormire dei rami e l’eco della furia del mare. Qualunque altro suono taceva; perfino le grandi aquile di Manwe, sebbene ivi avessero i loro nidi, mai levavano grida, né sorvolavano lo spiazzale, limitandosi ad osservarlo dall’alto delle loro rocce aguzze: tale era la maestosità del luogo, che finanche nei giorno oscuri, quando Sauron ebbe corrotto definitivamente il cuore del re, mai egli osò mettervi piede, temendo la collera di Manwe.

Feneria occupava tale area da tempi immemorabili, fin da quando Numenor emerse dalle acque; al centro vi era un albero, simile a quello, bianco, che allietava il giardino del sovrano: Vardariana era il suo nome, consacrato alla regina dei Vala, e si diceva che dalla gloria della dea ricavasse nutrimento e splendore. Taluni marinai che nelle epoche successive si avventurarono, per sorte o per follia, ai confini del mondo, riferirono che l’albero era ancora lì, a fondamento della maestà dei Vala e faro per le genti oppresse da Morgoth e dai suoi servitori. Scarsi sono i racconti su Numenor, sopravvissuti dopo Atalante[2]; tuttavia, essi menzionano quali fossero le consuetudini e i rituali che aprivano le riunioni dei due massimi congressi di Elenna. Primi fra tutti, facevano il loro ingresso i sacerdoti di Manwe e le sacerdotesse di Varda, i quali dopo aver intonato canti e litanie in onore dei reggenti di Endor, liberavano due colombe bianche, simboli della pace e della concordia che dovevano trionfare in quel luogo; dopo aver svolto queste mansioni, essi si inchinavano davanti al sovrano, e sedevano nei posti riservati ai loro ordini, per far largo al sovrano, seguito dalla consorte e all’erede designato a prenderne il posto. Una volta che la famiglia reale avesse preso posto, il sovrano si rialzava nuovamente e apriva le porte di eog[3] del tempio di Eru Iluvatar, dichiarando, con tale gesto, che l’assemblea era aperta: nel seguente ordine facevano il loro ingresso i principi di Numenor, seguiti dai capitani della flotta, della fanteria e della cavalleria e infine dai rappresentanti dei mercanti, dei contadini, dei pescatori e dei pastori. In alcune occasioni anche gli ambasciatori di reami stranieri potevano presedere al consiglio, per sottoporre un problema all’attenzione del sovrano e della corte intera; nelle riunioni che erano indette nel mese di Yaramie[4], inoltre, i nuovi capitani dell’esercito eletti durante l’estate dalle gilde cui essi appartenevano, giuravano fedeltà al sovrano di Numenor.

Il Senato, composto dalla totalità degli uomini e delle donne appartenenti agli ordini sopra descritti, con l’eccezione del sovrano e dell’erede al trono, discutevano di quanto accadeva nella propria isola e nella Terra di Mezzo, fino a stilare un documento, che nel pomeriggio veniva consegnato nelle mani del re, il quale, dopo averne esaminato i contenuti, riuniva il Consiglio dello Scettro: tale era dunque l’organizzazione del potente centro amministrativo di Elenna, che ben pochi osavano disconoscere le decisioni in esso prese. Molti furono i temi dibattuti nel corso dei secoli, eppure tra gli esuli Dunedain che ancora dimorano nella Terra di Mezzo, è sempre viva l’immagine della sessione del Senato e del Consiglio dello Scettro che si tennero nell’Yaramie del 3154 Seconda Era.

Tosto parve chiaro a quanti erano presenti che una grande decisione stesse per aver luogo: un silenzio minaccioso si levò dagli scranni, quando, dopo aver compiuto i rituali e i sacrifici, il sovrano Tar-Palantir alzò la mano per prendere la parola:
“Salute a voi Numenoreani, principi e rappresentanti del popolo. Prima che il Consiglio inizi a deliberare, voglio annunziare ai presenti, che in questo giorno cedo scettro e trono alla mia erede: ella sarà regina con il nome di Tar-Miriel e presterà giuramento dinanzi a voi”. Lentamente Miriel si alzò dallo scranno e si fece strada verso il trono di Tar-Palantir: un’ombra pallida sotto il sole, come se una cappa le avesse coperto il volto, l’erede sarebbe stato investito in quel momento, se improvvisa come la discordia, non si fosse alzata una voce del basso, interrompendo la cerimonia.

“Sovrano di Numenor, ataranya e voi membri del Consiglio dello Scettro, vi chiedo di prestarmi ascolto. Ar-Pharazon sono e vengo da voi per porre alla vostra attenzione un problema gravoso che implica soluzioni drastiche e repentine. I nostri informatori mi riferiscono che l’Oscuro Signore di Mordor ha ripreso i suoi antichi progetti di conquista, e che le nostre colonie e le nostre città sono minacciate dalle armate di orchi e altri schiavi di Sauron. Chiedo dunque a voi, come possa essere utile al nostro impero un sovrano che non può impugnare le armi in difesa del suo popolo. Non metto in dubbio il valore della principessa – ciò dicendo fece un beffardo inchino rivolto a Miriel – e le sue qualità morali, né dubito che il governo di Tar-Palantir abbia ormai segnato il suo corso, tuttavia ritengo doveroso che il Consiglio applichi una soluzione diversa”.

Gravi erano le parole pronunciate da Ar-Pharazon e ancor più grave era la procedura di cui si era servito per poter esprimere il suo personale dissenso: non era infatti consentito ad altri che al sovrano stesso, opporre cambiamenti alla scelta del proprio erede e questo solo nel caso che fosse venuta meno la salute del prescelto o quando vi fosse stato più di un probabile candidato, di modo che il primo avesse facoltà di rinunciare.

Mormorii di disappunto si levarono dai Dunedain ed Elendil, figlio di Amandil chiese ed ottenne parola:

“Sovrano, principi e voi rappresentanti del popolo, non è forse in tali frangenti che il lupo si traveste da pecora, il cacciatore da preda per ingannare gli incauti? Ar-Pharazon sostiene che il nemico è pronto a sferrare un massiccio attacco alle nostre città; afferma altresì che la regina Tar-Miriel non possiede le capacità per guidare una nazione in assetto di guerra. Questo egli ha riferito, e non dubito che avrebbe altre prove da addurre a quanto sostiene, se solo ne avesse il tempo; tuttavia io chiedo al principe perché egli in qualità di rappresentante delle città oltre mare, non abbia chiesto in precedenza l’aiuto al sovrano, considerata la gravità della situazione. Se l’emergenza è divenuta tale negli ultimi tempi, inoltre, per quale motivo Ar-Pharazon non ha disposto egli stesso dei piani di difesa, necessari per affrontare il primo assalto, in qualità di comandante reale e insignito dal sovrano di pieni poteri?”

Applausi vi furono da parte di molti Dunedain e alcuni fra questi si congratularono con Elendil per la saggezza che aveva dimostrato nel suo intervento. Ar-Pharazon non si turbò affatto; attese che il silenzio fosse tornato a regnare sovrano, poi chiese di avere nuovamente parola:

“Atarynia, invero Elendil della casata di Andunie mi accusa di aver male agito, per incapacità o codardia, questo non saprei. Tuttavia, se mi è concesso esporre le mie ragioni, allora intendo ricordare a tutti i presenti in quanti modi sia stato io ostacolato nello svolgimento del mio compito da coloro che adesso osano definirsi paladini della verità! Ebbene, sono profondamente dispiaciuto nel dover ammettere che ormai la nostra isola è dominata dall’ipocrisia e dall’arroganza.”

Concluso il suo intervento, Ar-Pharazon sedette, lieto in volto nello scorgere quanti Numenoreani condividessero il suo pensiero in quell’ora. Alta però si levò la voce di Erfea:

“Ben dici, Ar-Pharazon, quando affermi che mai sei rimasto ozioso nella Terra di Mezzo! Mi chiedi cosa vedono i miei occhi, principe? Ebbene, non ti nascondo che la follia sarebbe giunta prima in questo consenso, se i poteri e l’oro a te concessi si fossero dimostrati di misura superiore. No – concluse poi – non credo certo che la colpa sia da addebitare a chi non ti prestò ascolto. Bene fecero quanti operarono in tal senso, impedendoti di operare altre oscure macchinazioni, come quella che vedo dinanzi a me. Eppure Ar-Pharazon, non tutto quello che la tua bocca pronuncia è figlio del tuo pensiero, ché l’eco di altre voci ascolto ora, oscure e minacciose”. Ar-Pharazon era sul punto di replicare duramente, quand’ecco Tar-Palantir alzò nuovamente la mano: “Giovane cugino della sovrana, devo forse rimembrarti quali siano i tuoi doveri nei confronti della corona? Se la mia scelta non è di tuo gradimento, è affar tuo e di quanti sostengono la tua causa. Miriel diventerà la regina di Numenor, e questa è la mia ultima disposizione da regnante”.

Detto questo, Tar-Palantir si spogliò dello scettro e della corona e assegnateli nelle mani della figlia, le si chinò innanzi e pronunciò le parole di saluto che la tradizione imponeva: “Ricevi questa corona e questo scettro dalle mie mani, perché ti indichino quale debba essere il percorso da seguire e quali doveri soddisfare. Eru Iluvatar, Manwe, Varda e gli altri reggenti di Valinor mi siano testimoni”».

Note

[1] Gli Ataranya (“padri”, in adunaico) erano i senatori di Numenor, eredi delle famiglie nobili dell’isola.

[2] Tale termine, nella lingua dei Noldor (Quenya) indica l’inabissamento di Numenor e l’occultamento di Valinor al termine della Seconda Era.

[3] L’Eog era un metallo rarissimo, di origine siderale: chiamato da alcuni, “Vero Ferro”, l’eog era impiegato sovente nella lavorazione della lega di galvorn per conferirle maggior resistenza ai colpi: tale tecnica di forgiatura, sconosciuta agli uomini, fu divulgata solo presso gli Eldar e i Nani di Durin; i primi, realizzarono per Elros Tar-Minyatur le porte del tempio di Eru a Numenor.

[4] Mese di Settembre nella lingua degli Elfi.