L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Scrivere sulle orme di un grande autore del genere epico e fantastico come lo è stato J.R.R. Tolkien non è semplice. Non si tratta solo di una questione di stile, o di conoscenza delle lingue della Terra di Mezzo o, ancora, della Storia dei popoli che l’abitarono. La difficoltà più grande da superare è costituita dal rispetto che al suo legendarium chiunque dovrebbe portare; indubbiamente possono esservi passaggi o scelte che non condividiamo (quanti di noi avrebbero voluto che Thorin o Theoden non morissero? E che dire della sorte di Frodo, incapace di riacquistare la pace al termine delle sue sventure, che pure avevano salvato la Terra di Mezzo?), ma ritengo sia giusto accettarli così come sono stati descritti dal loro autore. Non lo sostengo solo per una questione di rispetto: si tratta, invece, di una questione di coerenza, più facile da distruggere di quanto superficiamente si possa credere. Ogni evento, se trasformato, può produrre una serie di conseguenze che rischiano di mettere a repentaglio tutta la materia tolkieniana, alla quale l’autore – non bisogna mai dimenticarlo – ho dedicato tutta la sua esistenza.
Questa lunga premessa mi serve per introdurvi alla conclusione de «Il Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», nella quale, come avrà intuito chi ha letto le parti precedenti, il destino di Erfea, Miriel e dello stesso Pharazon, naturalmente, conoscerà una svolta drammatica.
Non si può nascondere che non ci sarà un lieto fine. Avrei voluto, certamente, che Miriel non cedesse alle lusinghe e alle minacce di suo cugino Pharazon; tuttavia, così facendo, avrei cambiato l’intero corso della Storia e non era questa la mia intenzione.
Che l’ascesa di Pharazon abbia inizio, dunque…non prima, tuttavia, che avvenga un vero e proprio colpo di scena…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Giunti che fummo innanzi ai cancelli del palazzo reale, il Maggiordomo del Palazzo venne da noi, ordinando di deporre le armi che recavamo seco: “Signori dello Hyarrostar, nessuno meglio di voi dovrebbe conoscere le leggi di questa contrada; certamente, rimembrerete che mai alcun Senatore o Membro del Consiglio dello Scettro abbia fatto il suo ingresso alla sala del trono adorno di simili cimeli!”
Fredda fu la mia risposta: “Né, tuttavia, si era mai visto che un membro della famiglia reale osasse usurpare il trono al legittimo sovrano; se grande è la nostra colpa, piccola essa sembrerà dinanzi a simili crimini. Perché dunque non rivolgesti le medesime ammonizioni ai Neri, che osarono fare il loro ingresso in questo palazzo, sprezzanti di qualunque autorità?”
Il Maggiordomo, allora, chinò il capo e più non parlò, ché grande era in lui la vergogna; i pesanti battenti furono aperti e facemmo il nostro ingresso nella Sala Circolare, ove si tenevano le riunioni del Senato e del Consiglio dello Scettro nei rigidi mesi invernali: due ordini di scranni correvano lungo tutto il muro, aprendosi solo dinanzi all’ingresso. Al centro, vi era un alto trono in marmo, posto su di un’ampia predella che si levava dal basso verso gli scranni della seconda fila; sappiate, amici, che codesti erano i posti assegnati a coloro che appartenevano alla fazione sostenitrice del Sovrano; grande perciò fu la nostra inquietudine, allorché l’Araldo del Sovrano diede disposizione affinché occupassimo la prima fila di scranni.
Nessuna parola fu pronunciata, né inchino mostrato; silenti e scuri in volto, prendemmo posto accanto ai nostri congiunti; ivi eran anche Amandil, Elendil ed Isildur, seguiti da Brethil l’Orbo: allorché si avvide che i Principi dello Hyarrostar erano con lui, Elendil prese a sussurrare al mio orecchio parole intrise di timori e rancori: “Erfea, questa è una trappola! Mai avremmo dovuto seguire i consigli di chi, per ingenuità o per follia, esortò i nostri voleri a prendere una decisione che arrecherà infinite disgrazie alla fazione dei Fedeli!” Isildur, tuttavia, mostrando infinito sprezzo del pericolo, accarezzò cupo l’elsa della sua nobile lama e parlò: “Fosse anche come tu dici, padre, pure vi sono qui campioni che i seguaci di Pharazon si pentiranno di aver convocato dinanzi a loro!”

Il primo oratore, dopo aver atteso che il brusio dei presenti fosse scemato, si inchinò dinanzi ai senatori e ai principi del Consiglio dello Scettro, dichiarando che la seduta era aperta; fu allora che mi accorsi quanto ciascun Uomo presente in quella sala, sia che egli sostenesse la causa di Numenor, sia che ambisse esercitare il potere su di essa, nutriva nel suo cuore le medesime paure ed ambizioni; non vi era nessuno, infatti, che non mostrasse apertamente le proprie armi. Alcuni senatori giunsero a pronunciare i propri discorsi impugnando con la sinistra le preziose pergamene sulle quali erano trascritti e posando la destra sull’elsa della lama che recavano seco.
Infine, allorché gli oratori appartenenti agli ordini più bassi ebbero terminato di parlare, un minuscolo uscio sulla sinistra fu aperto e Tar-Miriel fece il suo ingresso nella sala.

Erfea tacque per qualche attimo, rimembrando lo sconforto che l’aveva preso allorché i suoi occhi l’avevano veduta dopo lungo tempo; infine, proseguì la sua narrazione e la sua voce mutò, divenendo remota agli orecchi dei Signori dei PopoliLiberi:
“Ridotta a poco più di un pallido fantasma anelante alla vita, la figlia di Tar-Palantir sedette sul trono marmoreo al centro della sala; così esile era divenuta, che i massicci monili dorati, mai indossati prima di quel momento, parevano ceppi ai quali era ancorata, anziché tesori di inestimabile valore; gelido ed impassibile fu il mio animo in quell’ora, eppure non potetti distogliere lo sguardo dal suo sembiante ed ella fu consapevole della mia presenza; allora uno spento sorriso le illuminò il volto e in esso erano visibili tutti gli anni della nostra giovinezza, quando non ancora il nome di Pharazon era stato udito a Numenor e si ascoltavano canti lieti echeggiare in quelle medesime volte ove adesso regnava il Terrore.
La regina ascoltò con estrema attenzione le richieste dei suoi sudditi ed essi parevano indifferenti a quanto era accaduto di recente; si discusse della cattiva stagione del grano e del farro, e si stabilì un calmiere per i generi di prima necessità; tuttavia, non una voce si levò dagli scranni ove sedevano i membri del partito dei Fedeli, avvedendosi che codesta era solo una farsa; eppure, le sventure più gravi dovevano ancora giungere.

A metà mattinata, prima che le campane suonassero la quarta ora dopo il sorgere del sole, Eargon, che parimenti si era astenuto dall’intervenire sino a quel momento, chiese udienza presso la sovrana, domandandole che un suo capitano potesse far ritorno dall’esilio ove era stato confinato alcuni anni prima; nonostante il diniego che Tar-Miriel oppose a tale richiesta, egli insistette e si approssimò al trono; giunto dinanzi alla sovrana, continuando a scongiurarla di mutare parere, ecco che afferrò l’argentato scettro e lo inclinò verso il basso: come ci avvedemmo in seguito, quello era il segnale della rivolta.
Con una forza che sorprese tutti, Tar-Miriel afferrò l’Uomo, mentre la sua voce si levava alta nella sala, pronunciando queste parole in Quenya: “Dannatissimo Eargon, cosa fai?” Quello, allora, per tutta risposta, sguainò la sua lama e, rivolto ai Neri che erano sovra di lui, così parlò in Adunaico: “Fratelli, aiutatemi!”
Un gran numero di arcieri apparve allora sugli spalti interni e presero a colpire i senatori della nostra fazione; ancor prima che essi, però, facessero il loro ingresso nella sala, Isildur comprese quanto era in procinto di accadere: con un urlo, egli impugnò la spada e balzò in avanti, consapevole che i Neri avrebbero impiegato alcuni istanti per discendere dagli scranni superiori, appesantiti com’erano dalle armature che indossavano; giunto che fu dinanzi al figlio di Morlok, tentò di trucidarlo con un colpo ben assestato. Eargon, tuttavia, essendo più esperto ed accorto, scansò abilmente il fendente del suo avversario e lo abbatté con lo scettro che aveva sottratto alla regina, colpendo allo stesso tempo il capo di Tar-Miriel con l’elsa della spada; tutt’intorno, intanto, le spade mulinavano e le frecce fischiavano. La Sala Circolare, che mai aveva conosciuto la follia degli Uomini, divenne teatro di una grande carneficina; io combattevo al fianco di mio padre Gilnar e molti dei Neri giacevano caduti ai nostri piedi; infine, mi avvidi che Eargon si apprestava a trascinare il corpo esamine della sovrana in alto, lì ove occhi indiscreti non avrebbero potuto scorgere le nefandezze che il suo animo oscuro avrebbe desiderato soddisfare con la sua prigioniera: con un balzo imperioso, gli fui accanto, sbarrandogli la strada. Una freccia fischiò nell’aria, conficcandosi nella mia spalla destra; ferita non letale, ma profonda, sicché fu con immenso dolore che mi apprestai a duellare con il figlio di Morlok; egli sorrise compiaciuto allorché si avvide della mia ferita e levò in alto l’elsa della sua spada, i cui rubini rischiarati dalla tremula luce delle torce, parvero illuminare la lama di una sinistra aura rossastra; Sulring rispose allora con il suo azzurro baluginare ed il duello ebbe inizio».