L’Akallabeth: la corruzione di Pharazon (II Atto)

Bentrovati, care lettrici e lettori. Come vi avevo anticipato nei precedenti articoli, ho deciso di pubblicare nel mio blog il testo di una tragedia che ho scritto ben 14 anni or sono, dedicata alla caduta di Numenor, chiamata anche Akallabeth nella lingua adunaica. Ho esitato a lungo prima di condividere questo testo per una serie di ragioni riconducibili al quesito che qualche tempo fa mi fu posto in sede diverse da Lettrice e da Oscuro Signore in merito ai rapporti intercorsi tra Miriel e Pharazon. In effetti, a ben guardare, nel «Ciclo del Marinaio» l’interazione fra i due personaggi appare sempre molto debole, quasi inesistente. Una prima ragione che posso presentare per giustificare questa mia scelta deriva da una necessità interna alla raccolta dei racconti, il cui punto di vista è sempre quello di Erfea, il quale, per ovvie ragioni, non poteva essere presente nel momento in cui Pharazon seduceva la bionda principessa di Numenor. Non è un caso, infatti, che negli ultimi racconti che ho scritto (e che non sono stati pubblicati all’interno del «Ciclo del Marinaio» perché postumi) abbia provato a servirmi di «punti di vista esterni» rispetto a quelli del principe di Numenor: seguendo questa prassi, dunque, sono stato in grado di descrivere i retroscena che condussero alla caduta di Numenor («Racconto dell’Ombra e della Spada») e di approfondire la relazione amorosa tra Miriel ed Erfea attraverso il racconto che questa narrò ad Anarion («Racconto della Rosa e dell’Arpa»). Nel «Racconto dell’Ombra e della Spada» si descrivono i piani sinistri di Pharazon per impadronirsi del potere, che passano, necessariamente, dalla seduzione di Miriel e dal suo allontanamento da Erfea, ma nulla si dice su come questo avvenne; né, d’altra parte, ho mai sciolto del tutto l’alone di mistero che ancora aleggia sulla paternità di Varaneli, l’unico figlio avuto da Miriel (qui potrete leggere il testo corrispondente: Un erede al trono di Numenor?).

Premesso dunque, che Erfea non avrebbe potuto sapere molto su questa faccenda, essendo all’epoca impegnato a combattere le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, avrei potuto scegliere Miriel come protagonista narrante di questa triste storia della sua vita…tuttavia, credetemi, questa ipotesi mi ha molto turbato. Per citare le parole adoperate da Tolkien a proposito della prigionia di Merry e Pipino nelle grinfie degli Uruk-Hai, credo che la vita matrimoniale di Miriel sia stata caratterizzata da una serie di «sogni angosciosi e veglie ancora più angosciose [che] si fondevano in un unico sentimento di sofferenza, da cui la speranza svaniva sempre più». Senza dubbio, avrei potuto limitarmi a descrivere quello che accadde tra Miriel e Pharazon prima che ques’ultimo fosse incoronato sovrano di Numenor…e non è escluso che prima o poi riuscirò a farlo (per esempio approfondendo l’adolescenza di Erfea, Miriel e Pharazon che dovevano essere tutti più o meno coetanei…vi siete mai chiesti chi affibbiò il soprannome di “Spirito Solitario” al nostro eroe?), perché mi sembra certamente un compito meno cupo rispetto a quello di descrivere ciò che accadde dopo.

Il testo della tragedia della Caduta, pur essendo stato scritto parallelamente al Ciclo del Marinaio, non presenta la figura di Erfea, che risulta senza dubbio il «grande assente» della situazione: non era necessario inserirlo, perché, come vedrete leggendo questo e i prossimi articoli, si tratta di una narrazione che si sviluppa esclusivamente a Numenor, dopo l’arrivo di Sauron, quando Erfea era impegnato in ben altre faccende nella Terra di Mezzo…

Il testo di questa tragedia, dunque, costituisce una prima risposta, seppur ancor abbozzata, a quanto accadde tra Miriel – qui chiamata con il suo nome adunaico Ar-Zimpharel, impostole dal marito – e Pharazon, soprattutto in merito allo stato d’animo che provò la donna dopo la loro forzata unione. Ho preso, dunque, la decisione di pubblicarlo senza effettuare nessuna modifica al testo originale, sperando che possa incontrare il vostro favore. La tragedia si compone di 6 atti: il primo, che qui ometto, affrontava, attraverso la voce narrante di Galadriel, le vicissitudini storiche di Numenor dalla sua origine sino all’incoronazione di Pharazon. Il secondo atto, invece, che presenterò in questo articolo, racconta la corruzione subita dall’ultimo re di Numenor da parte di Sauron…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

Atto II

(Ar-Pharazon è seduto sul trono; accanto a lui, Ar-Zimpharel, sua moglie e principessa regnante di Numenor, è in piedi, con il capo chino: una musica triste echeggia nell’aria. Un araldo annuncia l’arrivo di Sauron e Ar-Zimpharel, dopo un breve inchino, si ritira nelle sue stanze)

Araldo: Mio signore, Sauron chiede udienza.
Ar-Pharazon: Che entri e nessuno osi disturbare il nostro colloquio.
(L’araldo si inchina ed esce di scena, contemporaneamente ad Ar-Zimpharel).
Sauron: O Re degli Uomini, prestami ascolto! (genuflessione di Sauron). A lungo ho esitato, ché a volte le parole che sgorgano da un cuore saggio, facilmente possono essere traviate e distorte, eppure, invero nobile è la stirpe dei numenoreani e ancor più splendente è la stirpe di Ar-Pharazon, il Dorato! Onore e gloria ai suoi eserciti!
Invero, mai nessun altra schiatta è stata sì degna di riguardo nella storia della Terra di Mezzo e certo mi perdonerai se ho osato attendere a lungo prima di aprirti il mio cuore, ché orecchie indiscrete sono all’opera e l’ipocrisia dei Fedeli è lungi dall’essere stata debellata.
Ar-Pharazon: Sagge sono le tue parole, ma dubito che tu sia giunto qui per parlarmi di quanto io già conosco: qualunque uomo parlerebbe come te, se fosse dinanzi a me in questo momento. Non è forse vero che non esiste altra creatura in grado di contestare la mia autorità? Non ho forse condotto, qui, nella mia dimora, il Signore di Mordor? Chi altri potrebbe ora opporsi al mio volere?
Sauron: Il sovrano di Numenor ha parlato e ogni suo desiderio è un ordine per me; tuttavia, sebbene il suo nome sia temuto in ogni angolo della Terra di Mezzo ed i suoi vascelli rechino nei suoi forzieri scrigni traboccanti di oro e di argento, pure egli saprà che le glorie umane sono caduche e destinate a terminare.
Ar-Pharazon (seccato e con tono di voce più alto): Fossero esse come tu dici, pure non verrebbero sminuite dall’ignavia di uomini falsi e traditori. Forse tu puoi rendermi immortale, stregone?
Sauron: Non io, mio signore, ché non sono nel novero di coloro che detengono tale facoltà e risiedono nelle aule di Valinor.
Ar-Pharazon: False parole hanno consegnato al glorioso popolo di Numenor gli araldi dei Valar e la loro codardia è stata ben ripagata dalla indifferenza che la mia gente nutre adesso per la loro maestà.
Sauron: Ben detto, mio Signore; sappi, infatti, che i Valar mentirono per timore dei possenti uomini. Sei re tra i re e la tua parola è legge: raduna la tue truppe e marcia deciso contro coloro che ti voltarono le spalle.
Ar-Pharazon (ridendo): Se anche seguissi i tuoi consigli, cosa ne ricaverei? Bruciate le dimore degli Elfi di Valinor, avrei accresciuto solo i miei forzieri e non reso immortale la mia esistenza.
Sauron: Pure, vi sono altre volontà che potrebbero condurti al tuo obiettivo. Vi sono altri poteri al mondo e non tutti seguono lo stolto volere dei Signori dell’Occidente. Sappi, infatti, che io servo colui la cui parola è fonte di saggezza e la volontà maestra per coloro che intendono apprendere la saggezza dei forti, ché, gli uomini possenti reclamano quanto è loro tramite vie che ai deboli sono precluse.
Ar-Pharazon: Chi è dunque il tuo signore?
Sauron: Egli è Melkor, colui che, nella loro follia, i Valar gettarono al di là del Mondo; pure, coloro che non muoiono ancora ne ricordano il nome e ne temono la maestà, ché invero possente è Melkor il Grande.
Ar-Pharazon: Come può aiutarmi colui che non è più?
Sauron: Non temere, signore di Numenor! Grande sarà la ricompensa per coloro che seguiranno la volontà di Melkor, ché egli è padrone di ogni sorte.
Ar-Pharazon: Dovrei forse seguire colui che fu tanto stolto da lasciarsi condurre all’esilio eterno? Seguendo la sua volontà, non diverrei forse a mia volta uno schiavo? Tale ruolo non si addice certo al Re degli Uomini!
Sauron: Mai Melkor desidererebbe che il nome del più glorioso signore di Numenor, fosse gettato nel fango e nel disonore della schiavitù. Egli è paladino di colui che richiede per sé la capacità di discernere il bene del male, anziché seguire i precetti che esseri indegni hanno appreso per paura e codardia.
(breve attimo di silenzio; Ar-Pharazon si tocca il mento, lo sguardo ormai perso nella perfidia delle parole di Sauron, poi riprende a parlare)
Ar-Pharazon (con voce irata e rosa del dubbio): Chi sei tu, dunque, che debba parlarmi in questo modo?
Sauron (con voce bassa e suadente): Io sono colui che segue il proprio volere e desidera che anche il suo grazioso signore possa essere liberato dalle immonde catene che gli Elfi e i Valar gettarono su di lui: immortalità e libertà, i due desideri che i Signori dell’Occidente negarono così a lungo agli Uomini, Melkor potrebbe concedere loro senza richiedere nulla in cambio, ché la sua magnanimità è grande.
Ar-Pharazon (con voce incerta e stanca, coprendosi gli occhi con il palmo della mano): Cosa io ho dunque fatto? Umiliai colui che può darmi la salvezza e rendere immortale il mio spirito? Invero ciechi sono divenuti i miei occhi, se all’epoca non presi coscienza del mio errore!
Sauron: Suvvia, mio signore, non temere! Sauron di Mordor non desidera che la sua amicizia gli venga meno, ché la scorsa notta il mio maestro mi parlò a lungo nel sogno e mi pregò di farti partecipe di quanto altre menti non comprenderebbero, ché possente è il tuo spirito ed esso saprà certo comprendere quanto gli è stato rivelato.
Ar-Pharazon: Cosa avverrebbe, dunque, se le mie armate giungessero trionfanti a Valinor?
Sauron: I signori dell’Ovest prendebbero coscienza della forza che è nell’animo dei Numenoreani, Signori fra gli Uomini, e concederebbero a te e a coloro che seguiranno il tuo volere, quanto il vostro cuore ambisce ottenere. Tuttavia vi sono, finanche nel Consiglio dello Scettro, Uomini la cui cupidigia e infamia è pari solo a quella che dimostrarono i Valar: Elendil ed i suoi due figli, Isildur e Anarion, non hanno forse preso parte ai complotti che i Fedeli organizzarono allorché tuo zio, Tar-Palantir morì e alcuni sussurrarono che non dovessi acquisire, per diritto della forza, lo scettro di Numenor? Il mio maestro, Melkor, è preoccupato per la sorte infausta che la tua isola conoscerebbe, se alfine questi spregevoli uomini trionfassero.
Ar-Pharazon: Saggio è invero Sauron di Mordor. Potrai mai perdonarmi per averti umiliato dinanzi al mio popolo?
Sauron (ridendo ed inchinandosi al re): Mio signore, se il tuo volere condurrà Numenor alla vittoria, allora il mio animo non rimpiangerà di aver trascorso lunghi anni in esilio presso la tua gente.
Ar-Pharazon: La vittoria sarà nostra, allorché tutti coloro che a torto si fanno chiamare Fedeli, saranno banditi dal mio regno e da tutti quelli che seguono la mia legge; or dunque, amico tra gli amici, ti affido la sovrintendenza di Numenor, che in precedenza fu di Amandil, affinché i buoni servigi che mi hai oggi reso, siano ampiamente ricompensati dalla mia generosità. Comando e voglio!

(Sauron, dopo essersi inchinato un’ultima volta ad Ar-Pharazon, esce dalla sala del trono, seguito subito dopo dal re)

…E il Balrog? Muto! Considerazioni sparse di Tolkien su una possibile riduzione a film del Signore degli Anelli

Uno degli argomenti più dibattuti tra i fans, cinefili e semplici curiosi dell’opera tolkieniana è rappresentato dal confronto fra il romanzo e la sua versione cinematografica, costituita dalla Trilogia di P. Jackson. Inutile dire che i pareri divergono e appaiono numerosi come le stelle nel cielo o i granelli di sabbia nel deserto: ci sono gli entusiasti, gli scettici, i critici, i radicali ecc. ecc.
Non è questa la sede più adatta per descrivere le mie personali opinioni sulla sceneggiatura alla base delle pellicole cinematografiche; al contrario, superando una certa ritrosia nel pormi direttamente nei panni di Tolkien, proverò – con l’aiuto dell’analisi di una lettera nella quale l’autore tentò di dare indicazioni sulla sceneggiatura tratta dalla sua più celebre opera – a capire cosa avrebbe voluto vedere in una riduzione cinematografica del Signore degli Anelli.

Prima di addentrarmi in questa analisi, tuttavia, vorrei scrivere una piccola premessa: al di là di quello che ognuno ritiene sia la trasposizione cinematografica ideale – andando quindi oltre quella di Jackson – mi sembra giusto chiedersi cosa ne pensasse direttamente l’autore. Una simile azione, tuttavia, richiede la necessità di riflettere su un meccanismo importante e cioè la non perfetta corrispondenza tra romanzo e sceneggiatura. Pur essendo un tipo di lavoro di scrittura non incompatibile con quello compiuto dall’autore in senso «classico» (e infatti esistono scrittori che, nella loro esistenza, si occupano di entrambi gli aspetti), non si può non tener conto della differenza dei due linguaggi. Chi scrive un racconto, un romanzo, una poesia ecc. ecc. ha uno spazio di azione più ampio, perché deve sforzarsi di far visualizzare al lettore tutto quello che è nella sua mente e nella sua penna. È possibile, in alternativa, dare più spazio libero al lettore, lasciando che sia quest’ultimo a immaginarsi personaggi, luoghi, battaglie ecc. sulla base di pochi elementi significativi: tanto per restare nell’ambito della sfera personale, è il modello che preferisco. La conferma a questo mio ragionamento? Uno dei miei lettori si immaginava Erfea con i capelli lunghi e senza baffi, e rimase di conseguenza perplesso dinanzi a una illustrazione che, al contrario, lo immaginava con i capelli più corti e con i baffi (Ritratti qui potrete vedere l’immagine in oggetto). Questo esempio, ad ogni modo, mi è utile per spiegare come una maggiore libertà di immaginazione lasciata al lettore implichi necessariamente una più ampia diversificazione dei personaggi e dei luoghi citati in un racconto. Nella sceneggiatura, invece, il compito descrittivo è affidato alle immagini: per avere un confronto immediato, provate a rileggere la descrizione lasciataci da Tolkien su Lorien e, subito dopo, riguardate la resa di Lorien nel film «La Compagnia dell’Anello». In una sceneggiatura, per esempio, non puoi limitarti a descrivere fisicamente un personaggio sostenendo che abbia occhi azzurri e capelli biondi: devi specificare come sono acconciati, se gli occhi sono grandi o piccoli, ecc. ecc. La stessa idea di bellezza (e del suo contrario, naturalmente) deve essere specificata in modo chiaro e inequivocabile. Una pellicola, insomma, si muove su piani diversi, che necessariamente richiedono aggiustamenti, omissioni, e perchè no? anche integrazioni. Un’ottima integrazione, per esempio, a parer mio, è costituita dalla scena in cui Boromir insegna agli Hobbit ad impugnare una spada: non so quanti di voi si siano posti tale questione leggendo il libro. Personalmente, non ricordo di essermi mai chiesto dove e come avessero imparato a combattere, nonostante avessi avuto la percezione che nella Contea non dovessero circolare molte armi…
In una pellicola, al contrario, il pubblico nota subito due particolari: 1) la giovane età di Merry e Pipino rispetto agli altri membri della Compagnia; 2) il loro fare giocoso, al limite del ridicolo (ricordate cosa fanno durante la festa di Bilbo). Dinanzi a queste caratteristiche fisiche e caratteriali di entrambi i personaggi, dunque, difficilmente il pubblico avrebbe accettato per «già ricevuta» una istruzione militare; ecco allora intervenire Boromir che in una scena durata pochi minuti mostra i progressi che i due stanno realizzando con le armi date loro in dotazione.
Bisogna considerare, inoltre, un secondo aspetto fondamentale: ai tempi di Tolkien era inimmaginabile un così meraviglioso sviluppo della tecnologia digitale. Per averne un’idea, basta confrontare i duelli con le spade laser nel primo episodio di Star Wars (anno di uscita 1977) con quelli presenti nel Il Risveglio della Forza (anno di uscita 2015). Oppure confrontate lo Squalo di Spielberg (1975) con i dinosauri di Jurassick World (2015). Scegliete il confronto che preferite, una costante resterà ad ogni modo veritiera: i film fantasy hanno tratto giovamento dallo sviluppo di questa tecnologia, in modo più evidente rispetto ad altri generi di film; si potrebbe perfino affermare che una migliore tecnologia digitale abbia incrementato, di fatto, il successo del genere fantasy/fantascientifico negli ultimi anni. Tolkien, che di mestiere non era grafico e neppure programmatore, certamente non poteva immaginare quello che sarebbe diventato il cinema a distanza di oltre 40 anni dalla sua morte; gli vanno «perdonate», dunque, alcune scelte che, in materia di sceneggiatura, oggi potrebbero apparire ridicole, ingenue o quantomeno inutili, se non ridondanti rispetto al romanzo: lo ripeto a scanso di equivoci, Tolkien non era uno sceneggiatore e non aveva esperienze cinematografiche.

Scritta questa lunga promessa (che spero mi sarà perdonata dai lettori di questo blog) passo ora ad analizzare gli aspetti che Tolkien avrebbe voluto fossero presenti in un’eventuale riduzione cinematografica e quali, invece, avrebbe ritenuto inutili o addirittura fuorvianti rispetto alla sua opera; va da sé che la tentazione di paragonare la «sua sceneggiatura ideale» con quella prodotta dalla New Line è a dir poco fortissima e credo che possa costituire una buona base per i vostri e per i miei commenti.

La lettera in questione, risalente al giugno 1958, fu indirizzata da Tolkien a Forrest J. Ackerman. Il primo elemento che mi preme sottolineare di questa lettera – che contiene diversi elementi di critica rivolti all’opera del lavoro di sceneggiatura opera di Mr. Zimmerman – riguarda una significativa premessa che Tolkien fa a proposito del suo lavoro di critica nei confronti di questa sceneggiatura…una critica saggia, fin troppo spesso dimenticata: «I canoni dell’arte narrativa non possono differire completamente, che si tratti di letteratura, di cinema o di radio; e il fallimento di alcuni film va individuato spesso proprio nell’esagerazione, nell’intrusione ingiustificata di argomenti dovuta al fatto di non aver percepito il nocciolo dell’originale». Non mi soffermerò su quelle scene che – fortunatamente, oserei dire – non abbiamo potuto vedere nè nell’opera di Bakshi, nè in quella di Jackson (come ad esempio una Grande Aquila atterrare su un prato della Contea). Inizierò la mia disamina partendo dalla figura di Goldberry (Baccador) e, sia pure indirettamente, da quella di Tom Bombadil: a questo proposito è interessante notare come Tolkien, piuttosto che vedere una riduzione di quest’ultimo personaggio a essere fatato del folklore, avrebbe preferito «che sparisse piuttosto che apparire in modo così privo di significato». Questa affermazione, tuttavia, non implica che Tolkien escludesse del tutto la presenza di questi personaggi: al contrario, di Baccador scrive che «rappresenta il cambio delle stagioni in queste terre», una successione che, invece, nelle opere cinematografiche tratte dal Signore degli Anelli si nota molto poco (a parte, forse, nella prima parte del lungometraggio animato di Bakshi) e che, per istinto, mi fa venire in mente un bellissimo brano dei Dream Theaters A change of seasons. Ma dei miei rapporti fra musica e Tolkien scriverò in un prossimo articolo…

Torniamo alla disamina di Tolkien sulla sceneggiatura: una scena che, con ogni probabilità, l’autore non avrebbe voluto vedere se fosse sopravvissuto sino al 2001, è quella della lotta condotta da Aragorn contro i Nazgul a Colle Vento: a questo proposito, infatti, egli scrive che «Grampasso non “sguaina una spada” nel libro. Naturalmente no: la sua spada era rotta […] Perché allora fargli fare una cosa del genere, se nel contesto non c’è una battaglia con delle armi?» Lo ripeto a scanso di equivoci: non voglio entrare nel merito di cosa funzioni nel cinema rispetto alla letteratura; il mio intento è solo quello di osservare cosa l’autore avrebbe voluto (o meno) che fosse ripreso dalla sua opera, facendosi forza della legittimità che gli derivava dall’essere l’inventore di quello specifico mondo fantastico. Emerge un altro particolare a proposito dell’agguato a Colle Vento: i cavalieri neri non urlano, ma mantengono un silenzio che è molto più spaventoso. In questo caso mi piace riconoscere a Bakshi di aver reso perfettamente la scena; secondo Tolkien, infatti, questo sarebbe stato il modo corretto di mostrare l’attacco dei Nazgul: «una scena scura ma illuminata da un piccolo fuoco rosso, con gli spettri che si avvicinano lentamente come ombre più scure – fino al momento in cui Frodo infila l’Anello e il re, rivelato, avanza – mi sembrerebbe molto più impressionante di un’altra scena piena di urla e di colpi inutili» (che è invece ciò che accade nel film di Jackson). Ancora, ritorna la questione delle stagioni, un aspetto che, francamente, non avevo capito toccasse così profondamente Tolkien: egli scrive che «Z [ossia lo sceneggiatore] non sembra interessarsi molto alle stagioni e al paesaggio, benché a me sembri che una delle principali attrazioni del film dovrebbe essere proprio questa».
Ed ecco, infine, arrivare a uno dei punti più sorprendenti delle critiche mosse da Tolkien su questa sceneggiatura: il mutismo del Balrog. Egli scrive infatti che «il Balrog non parla mai né emette alcun suono. Soprattutto non ride e non ringhia […] Z forse pensa di saperne più di me sul Balrog, ma non può aspettarsi che io sia d’accordo con lui». Questa è forse una delle sorprese più evidenti: non so cosa ne pensino in proposito i miei lettori, tuttavia, per quanto mi riguarda, ero da sempre convinto che il Balrog emettesse suoni di qualche genere, pur reputando che la sua rappresentazione nella pellicola di Jackson fosse troppo ispirata a quella dei Gargoyle medievali, mentre io avrei preferito che di quell’essere fossero sottolineate soprattutto gli elementi del fuoco e dell’ombra, lasciando indistinta la sua «vera» natura fisica. Altra questione, appena accennata nella lettera di Tolkien, ma non meno importante nell’economia della sua critica riguarda la resa dei personaggi: mi limito dunque a riportare la sua affermazione in merito, lasciando ai miei lettori il compito di pensare a come sono stati resi certi personaggi (penso, per esempio, a Boromir nella pellicola di Bakshi, oppure ad Arwen in quella di Jackson): «mi risenterei per i cambiamenti dei personaggi […] molto più che per i cambiamenti in peggio della trama e dello scenario». Una posizione piuttosto chiara in proposito, oserei dire.

Passando alla sceneggiatura relativa al libro de «Le Due Torri», Tolkien si dimostra ancora più insofferente e, probabilmente, deluso dalla sceneggiatura che gli è stata proposta: per fortuna, rispetto al film di Jackson, si nota che, effettivamente, sia Gandalf che Theoden escono fuori dalla sala del trono, nello spiazzo davanti al portone, per dialogare e mostrare al popolo che il sovrano è guarito dal male che lo affliggeva (anche se immagino che Tolkien non avrebbe apprezzato affatto la storia dell’esorcismo compiuto da Gandalf, ma questa resta solo una mia impressione, beninteso).
Importante, e per certi versi stupefacente, resta poi la riflessione che Tolkien sostiene a proposito della Battaglia del Fosso di Helm, un avvenimento che occupa una parte importante in entrambe le pellicole prese in esame in questo articolo. Se non fosse stato possibile attribuire eguale importanza a quella battaglia e, contemporanemente, agli Ent, Tolkien era del parere che a scomparire dovesse essere proprio la battaglia. Viene da chiedersi, naturalmente, cosa avrebbe pensato dell’introduzione degli elfi guidata da Haldir, così come accade nella pellicola di Jackson…Sulla terza parte, ossia «Il Ritorno del Re», Tolkien si limitava laconicamente a definire la sceneggiatura del tutto inaccettabile sia nelle linee particolari che in quelle generali.

Vengo alle conclusioni: senza dubbio Tolkien non possedeva tutti gli strumenti per capire i meccanismi alla base della scrittura di una sceneggiatura…e forse, entro certi limiti, tale incapacità non può essergli del tutto rimproverata, considerato che non era il suo mestiere e che, con ogni probabilità, gli sfuggiva il senso della necessità, per un tale film, di ottenere un buon incasso al botteghino allo scopo di rientrare dalle spese (notevoli) effettuate per girarlo. Possiamo chiederci, inoltre, se un film tratto dal Signore degli Anelli prodotto negli anni Cinquanta o Sessanta avrebbe avuto quel successo che indubbiamente è toccato in sorte alle pellicole di Jackson: successo che, a parer mio, non è dovuto esclusivamente al perfezionarsi degli «effetti speciali» che hanno reso possibili scene fino a non troppi anni fa semplicemente impensabili…ma anche al progressivo diffondersi, tra il pubblico cinematografico, di un certo gusto per il fantasy, coltivato, sia pure indirettamente, dal successo di tutta una serie di film e pellicole animate afferenti a questo settore e che negli anni sono diventate vere e proprie pietre miliari della nostra cultura cinematografica occidentale (basti pensare, tanto per dirne una, all’impatto avuto dalle pellicole prodotte dalla Disney prima e da Lucas in seguito).

Senza dubbio, negli anni in cui fu proposta questa sceneggiatura, a Tolkien sfuggiva l’idea di una serie ispirata al suo capolavoro: uno strumento oggi in rapida ascesa e che, addirittura, costringe grandi case cinematografiche ad adeguare le proprie programmazioni per venire incontro al successo di questo format. Ecco, forse se c’è una suggestione che avrei voluto vedere realizzata, sarebbe stata proprio quella di avere Tolkien come consulente per la nuova serie Amazon che tra pochi mesi sarà disponibile sull’omonima piattaforma: un desiderio che, tuttavia, è destinato ad essere solo una romantica fantasia…
Per quello che posso aggiungere come esperienza personale – pur non avendo mai avuto personalmente esperienze nel campo della sceneggiatura – ammetto che è stato divertente e, per certi versi, anche sorprendente, preparare i progetti per gli artisti che in questi mesi hanno lavorato sulle illustrazioni tratte dai miei racconti. In particolare, voglio condividere un aneddoto con voi: che ci crediate o meno, non avevo mai immaginato quale aspetto fisico avesse Miriel. Ricordo, anzi, piuttosto «pigramente», di averla resa bionda inizialmente solo perché, in questo modo, sarebbe rimasta distinta, nella mente del lettore, da Elwen, l’altra protagonista femminile del «Ciclo del Marinaio», che invece ha una capigliatura nera. Questo non vuol dire, naturalmente, che non avessi mai immaginato a quale persona potesse assomigliare: trovai molto bella, ad esempio, Diane Kruger nella sua interpretazione di Elena di Troia nel film «Troy» del 2004. Tuttavia, non mi ero mai posto domande precise sul suo aspetto fisico, né l’affermazione secondo la quale ella fosse ritenuta la biù bella donna dei Numenoreani si dimostrava più utile: la bellezza, infatti, è un concetto estremamente personale, anche se è noto che esistono dei parametri utili per calcolare la bellezza di un volto (proprio ieri è apparso un articolo in merito a tale questione sul «Corriere della Sera»). È stato, dunque, molto divertente scoprire che Anna Francesca, per esempio, aveva immaginato che Miriel avesse una lunga treccia: si tratta di un piccolo dettaglio, d’accordo, ma utile per dimostrare, ancora una volta, quello che ho cercato di dimostrare in questo articolo: il passaggio dalla scrittura all’illustrazione (e poi anche all’illustrazione in movimento) è molto più complesso e meno scontato di quanto possa apparire superficialmente.

* I testi in corsivo sono tratti dalla missiva «210. Da una lettera a Forrest J. Ackerman. Non datata; giugno 1958», in J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere, Bompiani, Milano, 2001, 305-313.

Ritratti – Miriel ed Erfea…e un nuovo racconto

Bentrovati! In attesa di poter ammirare Annatar, il Signore dei Doni, sono lieto di mostrarvi due illustrazioni che, seppure non inedite nelle loro linee essenziali, sono state ora rivisitate dalla ormai nota Anna Francesca per mostrarvi i due protagonisti principali del «Ciclo del Marinaio»…Erfea e Miriel! Spero possano piacervi almeno quanto sono piaciuti a me, specialmente la bella Miriel! Se vi state domandando a quale età sono stati ritratti i due Numenoreani, la risposta potrete leggerla (o rileggerla) nel «Racconto del Marinaio e del Messere di Endore», nel quale i due giovani si rincontrano dopo la lunga assenza di Erfea da Numenor, alla festa di compleanno di quest’ultimo: Uccidete Miriel! Complotto a Numenor. Sono emozionato, inoltre, nell’accompagnare queste due bellissime immagini con alcune righe di un nuovo scritto (a cui attualmente ho dato il titolo di «Il Racconto della Rosa e del Ragno») che sto scrivendo, dopo anni di silenzio. Posso solo anticiparvi che tratterà di un aspetto che finora non è stato molto approfondito, ossia i motivi che spinsero Miriel a mentire sulla sua reale identità a Erfea in occasione del loro primo incontro…

«Nel silenzio, interrotto solo dal lento crepitio del fuoco nel caminetto, entrambi serbavano gelosamente i propri pensieri, incapaci di proferire parola: infine, non riuscendo a soffocare le emozioni nel proprio cuore, simili agli scrosci di una cascata impetuosa, gonfiata dalle acque del disgelo primaverile, la voce della fanciulla si levò alta, rivelando la natura della sua eccitazione adolescente che né consigli, né pareri avrebbe tollerato, ma solo chiedeva di potersi specchiare nel suo inganno: “L’ho conosciuto, padre. Il figlio di Gilnar, l’erede al trono dello Hyarrostar. Camminava poco oltre la scogliera, nei grandi giardini in rovina di Armenelos, ove più nessuno della nostra gente si reca da molti anni: fu lì che i nostri percorsi si incrociarono. Tuttavia – riprese dopo alcuni istanti, a voce più bassa, come se la luce nel suo animo si fosse offuscata e l’inganno al quale aveva ciecamente creduto sino a qualche tempo fa si fosse dissolto improvvisamente – questo tu lo sai già, nevvero? I tuoi servi sono ovunque, né io posso evitare la loro costante e severa sorveglianza”. L’entusiasmo che inizialmente aveva caratterizzato la sua voce stava ora svanendo, lasciando il posto a una lamentela che l’uomo non poté fare a meno di trovare irritante, sebbene fossero stati i suoi ciechi desideri di controllarla all’origine del suo malcontento: alzò impaziente una mano, nel tentativo di rabbonirla, sebbene il suo intento non fosse quello di calmarla, quanto di incoraggiarla a proseguire nella sua narrazione: “Con quale nome ti sei presentata a lui, questa volta? Certo, non avrai adoperato quello che ti ho affidato quando ancora eri in fasce”. La bionda fanciulla si fermò, esitante: non era certa di comprendere le sue intenzioni, tuttavia la fiducia nella saggezza paterna era tale da rimuovere le paure dal suo cuore: così rise per l’inganno al quale aveva sottoposto il principe dello Hyarrostar, eppure non vi era malizia nella sua voce, né menzogna nelle sue affermazioni, ché ella era invero una fanciulla saggia per quanto l’età e il carattere glielo permettessero. Gaio ed acuto era il suo animo; per lei il nome e il casato del giovane uomo con il quale aveva discorso durante il luminoso meriggio non avevano alcuna importanza e se serbava in cuor suo un gran segreto non era per compiacere il padre o la madre. Al contrario, era in lei un sentimento di felicità misto al timore di non essere in grado di conoscere le sue paure a spingerla ad agire con quella condotta: simile a un vino ancora acerbo, nel cui sapore resinoso e forte il proprietario della vigna riconosce la bontà lenta a maturare del frutto del suo lungo e duro lavoro, così l’animo della fanciulla era pervaso dell’ebbrezza della menzogna, alla quale non voleva né intendeva sottrarsi, volendo assaporare, lentamente e di nascosto, il sapore acre e genuino del suo animo e del suo corpo che maturavano in quegli anni. Anelava al potere e all’autorità che le venivano da quella menzogna, non vi era dubbio; tuttavia se in tali maliziosi pensieri la sua mente si soffermava, pure non avveniva perché fosse incapace di parole e gesti sinceri; al contrario, per lei aveva importanza solo il suo essere finalmente libera dai rigidi lacci che un’educazione severa aveva gettato su di lei. “La fanciulla del mare – rispose infine, senza celare più il suo pensiero – Gli ho detto che sono figlia di pescatori e che la mia dimora è lungi da Armenelos, nella lontana regione di Andunie”. I suoi azzurri occhi brillavano mentre pronunciava queste parole: eppure, nonostante le sue affermazioni lasciassero trapelare la sua gioia, ella non aveva ancora raggiunto il culmine della sua eccitazione. Passò una mano velocemente sui propri capelli, quasi a voler cacciare via un pensiero molesto, indi proseguì: “Il figlio di Gilnar ha un nome insolito, per essere uno dei Pari dell’Isola. Egli ha nome Erfea, che nella lingua degli Elfi d’Occidente significa “spirito solitario”. “Non è forse questa padre – concluse la fanciulla, ebbra del suo trionfo – la ragione per cui mi hai spinto a cambiare vesti questa mattina, abbandonando lo scuro broccato e il bianco tintinnare dei diamanti a favore dell’umile argento e delle semplice vesti di chiaro cotone intessute?” L’uomo assentì lentamente, più rivolto a sé stesso che alla figlia: infine sospirò e il suo animo si rasserenò. Sua figlia aveva superato la prova, dunque».

Ritratti – Adunaphel l’Incantatrice

In attesa di recuperare il testo della tragedia su Miriel e Ar-Pharazon (maledetti traslochi, ahimè!) aggiorno la sezione del mio blog dedicata alle «Illustrazioni» per mostrarvi una bellissima e seducente Adunaphel l’Incantatrice, così come è stata disegnata dalla bravissima Anna Francesca.
Spero che possa piacervi, aspetto i vostri commenti!

adunaphel

«Per nulla seccata o intimorita dagli sguardi, ora lascivi, ora invidiosi che le venivano rivolti, la donna, con femminile grazia, si acconciò la chioma, leggermente scomposta a causa del lungo viaggio che aveva dovuto compiere per giungere fino a codesto luogo, e tutti ebbero modo di scorgere la sua affusolata mano carezzare dolcemente il capo; terminato che ebbe questo compito, ella rivolse i suoi azzurri occhi, sì splendenti che nessuno ne aveva mai visto un paio simili, al suo affascinato pubblico ed essi le furono soggiogati». Tratto dal «Racconto dell’Ombra e della Spada»