Uno degli argomenti più dibattuti tra i fans, cinefili e semplici curiosi dell’opera tolkieniana è rappresentato dal confronto fra il romanzo e la sua versione cinematografica, costituita dalla Trilogia di P. Jackson. Inutile dire che i pareri divergono e appaiono numerosi come le stelle nel cielo o i granelli di sabbia nel deserto: ci sono gli entusiasti, gli scettici, i critici, i radicali ecc. ecc.
Non è questa la sede più adatta per descrivere le mie personali opinioni sulla sceneggiatura alla base delle pellicole cinematografiche; al contrario, superando una certa ritrosia nel pormi direttamente nei panni di Tolkien, proverò – con l’aiuto dell’analisi di una lettera nella quale l’autore tentò di dare indicazioni sulla sceneggiatura tratta dalla sua più celebre opera – a capire cosa avrebbe voluto vedere in una riduzione cinematografica del Signore degli Anelli.
Prima di addentrarmi in questa analisi, tuttavia, vorrei scrivere una piccola premessa: al di là di quello che ognuno ritiene sia la trasposizione cinematografica ideale – andando quindi oltre quella di Jackson – mi sembra giusto chiedersi cosa ne pensasse direttamente l’autore. Una simile azione, tuttavia, richiede la necessità di riflettere su un meccanismo importante e cioè la non perfetta corrispondenza tra romanzo e sceneggiatura. Pur essendo un tipo di lavoro di scrittura non incompatibile con quello compiuto dall’autore in senso «classico» (e infatti esistono scrittori che, nella loro esistenza, si occupano di entrambi gli aspetti), non si può non tener conto della differenza dei due linguaggi. Chi scrive un racconto, un romanzo, una poesia ecc. ecc. ha uno spazio di azione più ampio, perché deve sforzarsi di far visualizzare al lettore tutto quello che è nella sua mente e nella sua penna. È possibile, in alternativa, dare più spazio libero al lettore, lasciando che sia quest’ultimo a immaginarsi personaggi, luoghi, battaglie ecc. sulla base di pochi elementi significativi: tanto per restare nell’ambito della sfera personale, è il modello che preferisco. La conferma a questo mio ragionamento? Uno dei miei lettori si immaginava Erfea con i capelli lunghi e senza baffi, e rimase di conseguenza perplesso dinanzi a una illustrazione che, al contrario, lo immaginava con i capelli più corti e con i baffi (Ritratti qui potrete vedere l’immagine in oggetto). Questo esempio, ad ogni modo, mi è utile per spiegare come una maggiore libertà di immaginazione lasciata al lettore implichi necessariamente una più ampia diversificazione dei personaggi e dei luoghi citati in un racconto. Nella sceneggiatura, invece, il compito descrittivo è affidato alle immagini: per avere un confronto immediato, provate a rileggere la descrizione lasciataci da Tolkien su Lorien e, subito dopo, riguardate la resa di Lorien nel film «La Compagnia dell’Anello». In una sceneggiatura, per esempio, non puoi limitarti a descrivere fisicamente un personaggio sostenendo che abbia occhi azzurri e capelli biondi: devi specificare come sono acconciati, se gli occhi sono grandi o piccoli, ecc. ecc. La stessa idea di bellezza (e del suo contrario, naturalmente) deve essere specificata in modo chiaro e inequivocabile. Una pellicola, insomma, si muove su piani diversi, che necessariamente richiedono aggiustamenti, omissioni, e perchè no? anche integrazioni. Un’ottima integrazione, per esempio, a parer mio, è costituita dalla scena in cui Boromir insegna agli Hobbit ad impugnare una spada: non so quanti di voi si siano posti tale questione leggendo il libro. Personalmente, non ricordo di essermi mai chiesto dove e come avessero imparato a combattere, nonostante avessi avuto la percezione che nella Contea non dovessero circolare molte armi…
In una pellicola, al contrario, il pubblico nota subito due particolari: 1) la giovane età di Merry e Pipino rispetto agli altri membri della Compagnia; 2) il loro fare giocoso, al limite del ridicolo (ricordate cosa fanno durante la festa di Bilbo). Dinanzi a queste caratteristiche fisiche e caratteriali di entrambi i personaggi, dunque, difficilmente il pubblico avrebbe accettato per «già ricevuta» una istruzione militare; ecco allora intervenire Boromir che in una scena durata pochi minuti mostra i progressi che i due stanno realizzando con le armi date loro in dotazione.
Bisogna considerare, inoltre, un secondo aspetto fondamentale: ai tempi di Tolkien era inimmaginabile un così meraviglioso sviluppo della tecnologia digitale. Per averne un’idea, basta confrontare i duelli con le spade laser nel primo episodio di Star Wars (anno di uscita 1977) con quelli presenti nel Il Risveglio della Forza (anno di uscita 2015). Oppure confrontate lo Squalo di Spielberg (1975) con i dinosauri di Jurassick World (2015). Scegliete il confronto che preferite, una costante resterà ad ogni modo veritiera: i film fantasy hanno tratto giovamento dallo sviluppo di questa tecnologia, in modo più evidente rispetto ad altri generi di film; si potrebbe perfino affermare che una migliore tecnologia digitale abbia incrementato, di fatto, il successo del genere fantasy/fantascientifico negli ultimi anni. Tolkien, che di mestiere non era grafico e neppure programmatore, certamente non poteva immaginare quello che sarebbe diventato il cinema a distanza di oltre 40 anni dalla sua morte; gli vanno «perdonate», dunque, alcune scelte che, in materia di sceneggiatura, oggi potrebbero apparire ridicole, ingenue o quantomeno inutili, se non ridondanti rispetto al romanzo: lo ripeto a scanso di equivoci, Tolkien non era uno sceneggiatore e non aveva esperienze cinematografiche.
Scritta questa lunga promessa (che spero mi sarà perdonata dai lettori di questo blog) passo ora ad analizzare gli aspetti che Tolkien avrebbe voluto fossero presenti in un’eventuale riduzione cinematografica e quali, invece, avrebbe ritenuto inutili o addirittura fuorvianti rispetto alla sua opera; va da sé che la tentazione di paragonare la «sua sceneggiatura ideale» con quella prodotta dalla New Line è a dir poco fortissima e credo che possa costituire una buona base per i vostri e per i miei commenti.
La lettera in questione, risalente al giugno 1958, fu indirizzata da Tolkien a Forrest J. Ackerman. Il primo elemento che mi preme sottolineare di questa lettera – che contiene diversi elementi di critica rivolti all’opera del lavoro di sceneggiatura opera di Mr. Zimmerman – riguarda una significativa premessa che Tolkien fa a proposito del suo lavoro di critica nei confronti di questa sceneggiatura…una critica saggia, fin troppo spesso dimenticata: «I canoni dell’arte narrativa non possono differire completamente, che si tratti di letteratura, di cinema o di radio; e il fallimento di alcuni film va individuato spesso proprio nell’esagerazione, nell’intrusione ingiustificata di argomenti dovuta al fatto di non aver percepito il nocciolo dell’originale». Non mi soffermerò su quelle scene che – fortunatamente, oserei dire – non abbiamo potuto vedere nè nell’opera di Bakshi, nè in quella di Jackson (come ad esempio una Grande Aquila atterrare su un prato della Contea). Inizierò la mia disamina partendo dalla figura di Goldberry (Baccador) e, sia pure indirettamente, da quella di Tom Bombadil: a questo proposito è interessante notare come Tolkien, piuttosto che vedere una riduzione di quest’ultimo personaggio a essere fatato del folklore, avrebbe preferito «che sparisse piuttosto che apparire in modo così privo di significato». Questa affermazione, tuttavia, non implica che Tolkien escludesse del tutto la presenza di questi personaggi: al contrario, di Baccador scrive che «rappresenta il cambio delle stagioni in queste terre», una successione che, invece, nelle opere cinematografiche tratte dal Signore degli Anelli si nota molto poco (a parte, forse, nella prima parte del lungometraggio animato di Bakshi) e che, per istinto, mi fa venire in mente un bellissimo brano dei Dream Theaters A change of seasons. Ma dei miei rapporti fra musica e Tolkien scriverò in un prossimo articolo…
Torniamo alla disamina di Tolkien sulla sceneggiatura: una scena che, con ogni probabilità, l’autore non avrebbe voluto vedere se fosse sopravvissuto sino al 2001, è quella della lotta condotta da Aragorn contro i Nazgul a Colle Vento: a questo proposito, infatti, egli scrive che «Grampasso non “sguaina una spada” nel libro. Naturalmente no: la sua spada era rotta […] Perché allora fargli fare una cosa del genere, se nel contesto non c’è una battaglia con delle armi?» Lo ripeto a scanso di equivoci: non voglio entrare nel merito di cosa funzioni nel cinema rispetto alla letteratura; il mio intento è solo quello di osservare cosa l’autore avrebbe voluto (o meno) che fosse ripreso dalla sua opera, facendosi forza della legittimità che gli derivava dall’essere l’inventore di quello specifico mondo fantastico. Emerge un altro particolare a proposito dell’agguato a Colle Vento: i cavalieri neri non urlano, ma mantengono un silenzio che è molto più spaventoso. In questo caso mi piace riconoscere a Bakshi di aver reso perfettamente la scena; secondo Tolkien, infatti, questo sarebbe stato il modo corretto di mostrare l’attacco dei Nazgul: «una scena scura ma illuminata da un piccolo fuoco rosso, con gli spettri che si avvicinano lentamente come ombre più scure – fino al momento in cui Frodo infila l’Anello e il re, rivelato, avanza – mi sembrerebbe molto più impressionante di un’altra scena piena di urla e di colpi inutili» (che è invece ciò che accade nel film di Jackson). Ancora, ritorna la questione delle stagioni, un aspetto che, francamente, non avevo capito toccasse così profondamente Tolkien: egli scrive che «Z [ossia lo sceneggiatore] non sembra interessarsi molto alle stagioni e al paesaggio, benché a me sembri che una delle principali attrazioni del film dovrebbe essere proprio questa».
Ed ecco, infine, arrivare a uno dei punti più sorprendenti delle critiche mosse da Tolkien su questa sceneggiatura: il mutismo del Balrog. Egli scrive infatti che «il Balrog non parla mai né emette alcun suono. Soprattutto non ride e non ringhia […] Z forse pensa di saperne più di me sul Balrog, ma non può aspettarsi che io sia d’accordo con lui». Questa è forse una delle sorprese più evidenti: non so cosa ne pensino in proposito i miei lettori, tuttavia, per quanto mi riguarda, ero da sempre convinto che il Balrog emettesse suoni di qualche genere, pur reputando che la sua rappresentazione nella pellicola di Jackson fosse troppo ispirata a quella dei Gargoyle medievali, mentre io avrei preferito che di quell’essere fossero sottolineate soprattutto gli elementi del fuoco e dell’ombra, lasciando indistinta la sua «vera» natura fisica. Altra questione, appena accennata nella lettera di Tolkien, ma non meno importante nell’economia della sua critica riguarda la resa dei personaggi: mi limito dunque a riportare la sua affermazione in merito, lasciando ai miei lettori il compito di pensare a come sono stati resi certi personaggi (penso, per esempio, a Boromir nella pellicola di Bakshi, oppure ad Arwen in quella di Jackson): «mi risenterei per i cambiamenti dei personaggi […] molto più che per i cambiamenti in peggio della trama e dello scenario». Una posizione piuttosto chiara in proposito, oserei dire.
Passando alla sceneggiatura relativa al libro de «Le Due Torri», Tolkien si dimostra ancora più insofferente e, probabilmente, deluso dalla sceneggiatura che gli è stata proposta: per fortuna, rispetto al film di Jackson, si nota che, effettivamente, sia Gandalf che Theoden escono fuori dalla sala del trono, nello spiazzo davanti al portone, per dialogare e mostrare al popolo che il sovrano è guarito dal male che lo affliggeva (anche se immagino che Tolkien non avrebbe apprezzato affatto la storia dell’esorcismo compiuto da Gandalf, ma questa resta solo una mia impressione, beninteso).
Importante, e per certi versi stupefacente, resta poi la riflessione che Tolkien sostiene a proposito della Battaglia del Fosso di Helm, un avvenimento che occupa una parte importante in entrambe le pellicole prese in esame in questo articolo. Se non fosse stato possibile attribuire eguale importanza a quella battaglia e, contemporanemente, agli Ent, Tolkien era del parere che a scomparire dovesse essere proprio la battaglia. Viene da chiedersi, naturalmente, cosa avrebbe pensato dell’introduzione degli elfi guidata da Haldir, così come accade nella pellicola di Jackson…Sulla terza parte, ossia «Il Ritorno del Re», Tolkien si limitava laconicamente a definire la sceneggiatura del tutto inaccettabile sia nelle linee particolari che in quelle generali.
Vengo alle conclusioni: senza dubbio Tolkien non possedeva tutti gli strumenti per capire i meccanismi alla base della scrittura di una sceneggiatura…e forse, entro certi limiti, tale incapacità non può essergli del tutto rimproverata, considerato che non era il suo mestiere e che, con ogni probabilità, gli sfuggiva il senso della necessità, per un tale film, di ottenere un buon incasso al botteghino allo scopo di rientrare dalle spese (notevoli) effettuate per girarlo. Possiamo chiederci, inoltre, se un film tratto dal Signore degli Anelli prodotto negli anni Cinquanta o Sessanta avrebbe avuto quel successo che indubbiamente è toccato in sorte alle pellicole di Jackson: successo che, a parer mio, non è dovuto esclusivamente al perfezionarsi degli «effetti speciali» che hanno reso possibili scene fino a non troppi anni fa semplicemente impensabili…ma anche al progressivo diffondersi, tra il pubblico cinematografico, di un certo gusto per il fantasy, coltivato, sia pure indirettamente, dal successo di tutta una serie di film e pellicole animate afferenti a questo settore e che negli anni sono diventate vere e proprie pietre miliari della nostra cultura cinematografica occidentale (basti pensare, tanto per dirne una, all’impatto avuto dalle pellicole prodotte dalla Disney prima e da Lucas in seguito).
Senza dubbio, negli anni in cui fu proposta questa sceneggiatura, a Tolkien sfuggiva l’idea di una serie ispirata al suo capolavoro: uno strumento oggi in rapida ascesa e che, addirittura, costringe grandi case cinematografiche ad adeguare le proprie programmazioni per venire incontro al successo di questo format. Ecco, forse se c’è una suggestione che avrei voluto vedere realizzata, sarebbe stata proprio quella di avere Tolkien come consulente per la nuova serie Amazon che tra pochi mesi sarà disponibile sull’omonima piattaforma: un desiderio che, tuttavia, è destinato ad essere solo una romantica fantasia…
Per quello che posso aggiungere come esperienza personale – pur non avendo mai avuto personalmente esperienze nel campo della sceneggiatura – ammetto che è stato divertente e, per certi versi, anche sorprendente, preparare i progetti per gli artisti che in questi mesi hanno lavorato sulle illustrazioni tratte dai miei racconti. In particolare, voglio condividere un aneddoto con voi: che ci crediate o meno, non avevo mai immaginato quale aspetto fisico avesse Miriel. Ricordo, anzi, piuttosto «pigramente», di averla resa bionda inizialmente solo perché, in questo modo, sarebbe rimasta distinta, nella mente del lettore, da Elwen, l’altra protagonista femminile del «Ciclo del Marinaio», che invece ha una capigliatura nera. Questo non vuol dire, naturalmente, che non avessi mai immaginato a quale persona potesse assomigliare: trovai molto bella, ad esempio, Diane Kruger nella sua interpretazione di Elena di Troia nel film «Troy» del 2004. Tuttavia, non mi ero mai posto domande precise sul suo aspetto fisico, né l’affermazione secondo la quale ella fosse ritenuta la biù bella donna dei Numenoreani si dimostrava più utile: la bellezza, infatti, è un concetto estremamente personale, anche se è noto che esistono dei parametri utili per calcolare la bellezza di un volto (proprio ieri è apparso un articolo in merito a tale questione sul «Corriere della Sera»). È stato, dunque, molto divertente scoprire che Anna Francesca, per esempio, aveva immaginato che Miriel avesse una lunga treccia: si tratta di un piccolo dettaglio, d’accordo, ma utile per dimostrare, ancora una volta, quello che ho cercato di dimostrare in questo articolo: il passaggio dalla scrittura all’illustrazione (e poi anche all’illustrazione in movimento) è molto più complesso e meno scontato di quanto possa apparire superficialmente.
* I testi in corsivo sono tratti dalla missiva «210. Da una lettera a Forrest J. Ackerman. Non datata; giugno 1958», in J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere, Bompiani, Milano, 2001, 305-313.