La caduta di Numenor

Questo brano chiude, idealmente, la tragedia che ho trascritto negli interventi precedenti. Non si tratta di un testo inedito; al contrario, esso era stato già presentato in questo articolo: Erfea dinanzi alle porte di Khazad-Dum, perdendo, tuttavia, la sua drammaticità, a causa della sua collocazione all’interno di una storia che si svolgeva in un contesto molto differente, ossia negli antri profondi di Khazad-Dum. Per questa ragione, prima di riprendere la trattazione dell’assedio di Gondor – che, a ben vedere, non costituisce altro che il prossimo tassello della Storia della Terra di Mezzo nel corso della Seconda Era – ho deciso di riproporre questo brano. Mi piacerebbe, in un futuro spero non troppo lontano, presentare un’illustrazione inedita nella quale, in una sorta di collegamento telepatico fra Erfea e la sua amata e mai troppo rimpianta Miriel, il principe di Numenor possa condividere con lei lo sgomento e la tristezza di chi si accingeva a pagare in prima persona e a carissimo prezzo la scelleratezza dei suoi atti.

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«Poche miglia avevano percorso i compagni, allorché il mondo fu mutato, ché Manwe Sulimo revocò il suo volere dal mondo e Eru Iluvatar scagliò nell’Abisso l’isola di Numenor con i suoi forzieri traboccanti di gioielli. Come è narrato altrove, nessuno, ad eccezione di coloro che veneravano gli Ainu o di coloro che erano fuggiti altrove anzitempo, fu salvato dal cataclisma e lo stesso Sauron, il cui potere vantava essere superiore a quello di Manwe, fu scagliato nel profondo dell’Oceano. Un greve silenzio cadde sui nebbiosi colli degli Emyl Gortayd[1], disturbato solo dal profondo eco di una collera impetuosa; pochi sono i racconti sopravvissuti alla caduta di Numenor, eppure nessuno scritto potrebbe rendere lo sbigottimento e l’angoscia che presero gli esseri della Terra di Mezzo: finanche le feroci belve delle remote giungle del sud si rintanarono nelle loro tane inaccessibili, desiderose di sfuggire la violenza della collera di Eru Iluvatar. È stato detto che perfino i servi di Sauron, acquietati nelle tetre fortificazioni di Mordor abbiano volto lo sguardo l’un l’altro, in preda a grande paura e sgomento; finanche i servi degli Anelli, gli Ulairi, la cui perfidia e malizia erano note presso tutte le genti della Terra di Mezzo, paventarono che fosse giunta sulle ali della tempesta la collera dei signori del Vespro, ed ebbero tema del giudizio dei Vala, fuggendo in luoghi oscuri e privi di speranza.

Una Tenebra senza nome ricoprì l’intero creato, né gli astri del cielo furono visibili, finanche agli acuti sguardi degli Eldar, finché essa non scomparve; grave divenne allora il peso del dolore sui cuori degli orgogliosi numenoreani ed essi compresero alfine quanto la follia del loro signore avesse condotto i loro destini alla follia: eppure, nessuno di loro scampò al giusto castigo, ché trovarono la morte ad attenderli in qualunque pertugio essi si rifugiassero per sfuggire l’ira di Iluvatar. Turbati in volto, i nani esitarono e più non proseguirono, osservando sgomenti quanto accadeva intorno a loro: tetre divennero allora le loro espressioni ed essi non parlavano né osavano respirare, temendo di disturbare la collera del possente Iluvatar. Presto tuttavia gli uccelli presero nuovamente a cantare nelle fronde delle selve e l’aria non fu più satura dell’ira dell’Uno; allora essi sospirarono e volsero il proprio sguardo al Dunadan: egli sedeva su una roccia che il tempo aveva reso simile ad un enorme scranno, e, silente, non pronunciava parola. Perso e vuoto era il suo sguardo, eppure lacrime amare non turbavano il suo viso, ché sebbene fosse grande il suo dolore, nel suo cuore Numenor era svanita anni prima ed essa non era più la sua terra.

Trascorsi alcuni istanti in profonda meditazione, egli si levò dallo scranno, e lasciato cadere il prezioso elmo, rivolse le labbra ad occaso, pronunciando tristi parole di commiato: “Miriel, Tye-mela[2]”; sebbene i nani avessero ascoltato ogni parola, solo Naug Thalion comprese quale doloroso significato esse esprimessero e chinò lo sguardo a terra, colmo di dolore. Lungo tempo trascorse in doloroso silenzio, infine Erfea parlò nuovamente, ché egli aveva compreso quanto era accaduto e non temeva doverlo rivelare ai suoi compagni: “Una nuova era del mondo è prossima ad iniziare, ché Endor è mutata e più sarà visibile Aman agli occhi dei mortali.” Stupefatti allora i nani gli strinsero attorno, ponendogli numerose domande, ma il Dunadan non seppe placare tutti i loro dubbi “ché – si giustificò – non è il mio animo la fonte che ispira tali parole” ed altro non volle aggiungere».

Note

[1] Tale regione collinare, nota anche come la Terra dei Tumuli, si estendeva ad ovest della città di Brea: durante la Prima Era del mondo, numerosi Edain provenienti dall’estremo oriente, avevano eretto numerose costruzioni e fortificazioni sui suoi colli ed ivi avevano riposo i gloriosi corpi dei guerrieri periti durante la Battaglia dell’Ira.

[2] “Miriel, ti amo” nella favella degli Eldar.