Sedici anni dopo: cosa resta della trilogia di P. Jackson. Analisi di un fenomeno culturale controverso

Interrompo momentaneamente la narrazione degli eventi che condussero alla cattura di Minas Ithil da parte delle armate di Sauron per affrontare un tema sul quale sono stato sollecitato, sia pure indirettamente, dal moltiplicarsi, in questi giorni, di una serie di meme e ricordi condivisi da molti utenti su Facebook in merito all’uscita, nel gennaio del 2004 per il mercato cinematografico italiano, dell’ultima parte della trilogia de “Il Signore degli Anelli”, prodotta dalla New Line, con la regia di P. Jackson.

Cosa rimane, sedici anni dopo, del capitolo conclusivo di una saga capace di registrare incassi altissimi e di ottenere, nel complesso, ben 17 statuette degli Oscar, piazzandosi così come la trilogia più premiata (fino ad ora) nella storia del cinema?

Non è semplice dare una risposta che non risenta, inevitabilmente, dei gusti personali di ciascuno, per cui ritengo doveroso avvertire il lettore che questo articolo sarà influenzato da considerazioni a carattere personale. Non me ne vogliate, insomma, se quello che scriverò non dovesse incontrare il vostro favore.

Per scrivere questo articolo, quindi, devo partire da una premessa personale, ma che credo sia ampiamente condivisibile: il rapporto con la trilogia cinematografia risente – almeno a sentire tanti appassionati di Tolkien – da una precisa circostanza, ossia dal ruolo che questa ha avuto nel far conoscere (o meno) allo spettatore il legendarium tolkieniano. Pur senza voler eccessivamente generalizzare, è possibile azzardare una grande suddivisione: da un lato, infatti, ci sono coloro che non avevano mai letto nulla delle opere del professore di Oxford sino a quel momento, ai quali la visione delle pellicole (e non poteva essere diversamente, del resto) ha spalancato le porte di un vero e proprio mondo fantastico e che tendono, dunque, ad apprezzare particolarmente la versione cinematografica del Signore degli Anelli. Dall’altro, invece, ci sono quanti, all’epoca dell’uscita de «La Compagnia dell’Anello» (2002), avevano avuto già modo di conoscere gli scritti di Tolkien e che, in linea di massima (ma anche qui non mancano eccezioni, naturalmente) tendono a sottolineare i limiti dell’impresa di trasposizione cinematografica. Si tratta, spesso, anche di una questione anagrafica: i più anziani, di solito appartengono al secondo gruppo, mentre i più giovani al primo. Esiste poi un gruppo di dimensioni minori che si è avvicinato al Signore degli Anelli grazie alla visione del lungometraggio di animazione di Ralph Bakshi del 1978 (per saperne di più, vi suggerisco di leggere l’esaustiva analisi di Lettrice a questo link: https://wordpress.com/read/blogs/141936457/posts/4473).

Personalmente appartengo a questo gruppo. Non sono così «anziano» da aver avuto la possibilità di vedere l’opera di Bakshi al cinema (anzi, non ero ancora nato nel 1978), ma sono stato «svezzato», per così dire, dalla visione di questo lungometraggio. Non mi dilungherò eccessivamente su questa opera (magari prima o poi, sulla scorta di quanto ha scritto Lettrice, vi dedicherò un articolo anche io), se non per sottolineare un elemento che può apparire forse secondario, ma sul quale, invece, vorrei che i miei lettori potessero riflettere. Se dovessi trovare un aggettivo per definire la sceneggiatura di Bakshi, infatti, al di là delle scelte condivisibili o meno in fatto di resa dei personaggi, direi che un termine molto calzante per caratterizzarla sarebbe quello di «malinconico». Non ci sono momenti particolarmente ilari nella trasposizione di Bakhsi: perfino le parole «Ma io non ce la faccio a correre fino a Isengard!» che pronuncia uno sfinito Gimli, mentre è intento a dare la caccia agli Orchi che hanno catturato Pipino e Merry, possano strappare tutt’al più un sorriso, ma non certo provocare grasse risate. La stessa scena ripresa ne «Le Due Torri» di Jackson, al contrario, sortisce un effetto opposto: si ride di gusto di Gimli che sostiene che «i Nani siano scattisti, pericolosissimi sulle brevi distanze», mentre arranca e sbuffa per tenere il passo dei ben più agili Legolas e Aragorn.

Che «Il Signore degli Anelli» sia un’opera distante anni luce da facili battute e risate, d’altra parte, lo conferma un personaggio del tutto estraneo alle dinamiche tolkieniane e in un contesto del tutto diverso rispetto a quello della Terra della Mezzo. Mi riferisco al romanzo «Matilde», scritto dallo scrittore inglese (ma norvegese di nascita) Roald Dahl, il quale pone in bocca alla bambina protagonista della sua opera queste parole: «Anche i libri di Tolkien non fanno per niente ridere» (p. 75 dell’edizione Salani). Pur non condividendo questa analisi in toto (vedi sotto per quel che concerne lo Hobbit) non si può nascondere che il Signore degli Anelli possa far sorridere in alcune scene – per esempio nella diatriba fra Gollum e Sam intorno alle patate, oppure nel dialogo fra Ioreth e la sua cugina di campagna dopo il ritorno degli eserciti dell’Ovest a Minas Tirith – ma riuscire a far sbellicare di risate il suo lettore, direi proprio di no.

Mi si risponderà: un film (anzi una trilogia) – peraltro di consideravole lunghezza – non può non avere momenti comici. E io sono d’accordo con questa affermazione, ci mancherebbe. Il problema è chiedersi se queste scene, queste battute, possano essere «sovrascritte» nella trasposizione cinematografica di qualunque romanzo, racconto o componimento letterario che si possa immaginare, senza avere lo sgradevole effetto acustico di un gatto che graffi il vetro di uno specchio.
Provare per credere: immaginate Dante che, nel suo viaggio all’Inferno, si fermi a guardare le anime dei trapassati per esclamare: «Questo vale comunque uno!» (Gimli dixit).

Allo scopo di essere più chiaro nella mia analisi prenderò a esempio una scena molto bella che è visibile (o leggibile) sia nel romanzo che nelle due trasposizioni cinematografiche (quella di Bakshi e quella di Jackson, per intendersi). La scena in questione riguarda la tentazione nella quale cade Bilbo dopo aver rivisto, a distanza di anni, l’Unico Anello nelle mani di suo cugino Frodo.

Ecco come è descritta nel Signore degli Anelli: «Bilbo tese la mano; immediatamente Frodo ritrasse l’Anello. Con angoscia e sommo stupore si accorse che non stava più vedendo Bilbo; un’ombra sembrava essere scesa tra di loro, ed egli scorgeva dall’altro lato un piccolo essere avvizzito dal viso avido e dalle ossute mani ingorde. Sentì il desiderio di colpirlo. La musica e i canti intorno a loro parvero svanire, e vi fu un profondo silenzio. Bilbo lanciò un rapido sguardo a Frodo e poi si passò la mano sugli occhi. «Ora capisco», disse. «Mettilo via! Mi dispiace: mi dispiace che tocchi a te sopportare questo peso, mi dispiace tanto. Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia. Ebbene, non vi è altro da fare. Chissà se vale la pena cercare di terminare il mio libro…ma per il momento non pensiamoci, voglio sentire delle vere notizie! Parlami della Contea!» Frodo nascose l’Anello, e l’ombra scomparve lasciando soltanto un vago ricordo. La luce e la musica di Gran Burrone lo circondavano nuovamente».

Nella pellicola de «La Compagnia dell’Anello», invece, la scena non avviene all’interno del banchetto offerto da Elrond per la vittoria al guado del Bruinen; al contrario, è stata spostata in un momento successivo, poca prima che la Compagnia si metta in viaggio verso Mordor. Nulla di male in questa «posticipazione», per carità, tuttavia cerchiamo di capire come procedono le cose nella pellicola di Jackson: Frodo, dopo aver ricevuto Pungolo e la cotta di maglia di mithril dall’anziano parente, indossa quest’ultima su suggerimento di Bilbo, lasciando intravedere, per un attimo, l’Anello al suo collo. Di fronte alla richiesta di Bilbo di tenerlo in mano per un’ultima volta, Frodo si richiude la camicia (plausibilmente per non indurlo maggiormente in tentazione) e Bilbo per un secondo si trasforma in una creatura non molto dissimile da Gollum, salvo poi pentirsi immediatamente del suo gesto. A quel punto, dopo essersi scusato per quello che è avvenuto e per il peso dell’Anello che ha lasciato a Frodo (in modo abbastanza simile rispetto a quanto avviene nel libro), scoppia in lacrime, consolato da Frodo che gli pone affettuosamente una mano sulla spalla. La terza «versione», se così si può definire, è quella di Bakshi: in questo caso l’incidente fra i due Hobbit avviene, come nel romanzo, alla festa tenuta in onore di Frodo, e si mantiene abbastanza fedele al romanzo, salvo per la conclusione; in questo caso, infatti, Bilbo scoppia a piangere (come sopra), ma non riceve nessun conforto da Frodo. Anzi, a interrompere il suo pianto è Gandalf che richiama – in modo forse un po’ brusco – i due Hobbit a prendere parte al Consiglio di Elrond.

Come si può vedere, si tratta di tre scene simili ma diverse allo stesso tempo: la vera questione, tuttavia, non è rappresentata da quale sia quella più fedele al romanzo, ma, invece, quale sia quella che ne interpreta meglio lo spirito. Possono sembrare due concetti analoghi, ma non lo sono affatto. Il senso profondo di questa scena, secondo me, è il seguente: Frodo non può mostrarsi troppo accondiscendente verso Bilbo, non perché non gli voglia bene – tutt’altro – ma perché, qualche istante prima, questi aveva tentato di sottrargli l’Unico. Nella casa di Elrond la possessione esercitata dall’Anello nei confronti del suo Portatore non era ancora giunta a quei livelli percepibili al termine del lungo viaggio che avrebbe condotto Frodo a Mordor, tuttavia, è senza dubbio molto forte; lo era già, del resto, quando Frodo si dimostrò riluttante a lanciare l’Anello nel fuoco di Casa Baggins per poter leggere l’iscrizione incisa sulla sua superficie. Può essere dispiaciuto, certo, ma non può perdonare Bilbo di aver provato a toglierli l’Anello. Questa scena, quasi mai trattata negli articoli degli appassionati del mondo tolkieniano, è secondo me invece importante per comprendere gli effetti dell’Unico sugli esseri viventi. Tornando alla questione iniziale, quale scenografia riprende meglio lo spirito del romanzo? Opto per quella di Bakshi, perché pur avendo inserito la figura di Gandalf al termine dell’alterco fra i due Hobbit (assente nel libro in quel frangente) si dimostra, tuttavia, valida nel richiamare alla realtà Bilbo, quasi scuotendolo dai suoi rimorsi per esortarlo, forse anche con una certa durezza, a riprendere il possesso della propria coscienza per combattere il potere dell’Unico.

Da questo primo passaggio, capirete bene perché apprezzi più la trasposizione cinematografica de «Lo Hobbit» all’interno del quale, invece, i momenti comici non mancano: basti pensare a Dori e Nori che si accapigliano intorno al fuoco, oppure alle battute divertenti che si lanciano Bilbo e Dori quando questi è costretto a prendere lo Hobbit sulle sue spalle nelle caverne dei goblin, o ancora alla descrizione che Tolkien dedica ai nani e a Gandalf appesi sui rami del pino delle Montagne Nebbiose, da lui paragonata a una scena natalizia…per tacere, poi, degli Elfi di Rivendell, che sono molto più ilari di quanto non appaiano nel Signore degli Anelli. E potrei continuare a lungo. La scelta di Jackson di calcare in qualche scena questo lato «comico» (i Nani che si lanciano il cibo addosso, mentre sono ospiti di Elrond, per esempio) può essere certamente criticabile (alla fine anche le scene divertenti devono essere dosate con sapienza, a meno che non si tratti di un Cinepanettone, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), ma ciò non toglie che, personalmente, trovi queste scene in grado di rispecchiare più fedelmente lo spirito dell’Hobbit. Gli stessi Nani della Compagnia di Thorin, per esempio, per quanto possano apparire eccentrici (basti pensare a Bifur con l’ascia impiantata nel cranio) in fondo sono rappresentazioni visive di personaggi che, nel romanzo di Tolkien, hanno barbe di colori diversi, anche molto accesi (un dettaglio, quest’ultimo, che si perde del tutto nel Signore degli Anelli). Forse Tolkien desiderava ottenere un effetto comico con quelle barbe colorate? Non lo sapremo mai con certezza, però non si può nascondere che contribuiscano a rendere i Nani molto più comici rispetto a Gimli, uno dei personaggi più malinconici e forse sottovalutati del Signore degli Anelli (basti pensare al dialogo struggente fra lui e Legolas intorno alle sorti degli Uomini per capire come si tratti di un personaggio totalmente diverso da quello rappresentato nella trilogia cinematografica, impegnato in gare di rutti e in battute «facili» come quella sopra riportata).

E veniamo ora a un altro punto ampiamente controverso e criticabile dei film di Jackson: l’Amore. Prima ancora che qualcuno possa solo pensare che io sia ostile alla presenza di relazioni amorose nella Terra di Mezzo, lo invito a leggere (o a rileggersi) la storia fra Erfea e Miriel per dissipare qualunque dubbio: le vicende sentimentali, se ben strutturate, rappresentano una delle colonne portanti della letteratura di ogni tempo, anche di quella fantastica o epica che dir si voglia. Gli esempi sono pressoché infiniti, dal triangolo amoroso Artù-Ginevra-Lancillotto agli struggimenti di Didone per Enea, agli amori extraconiugali di Zeus…e davvero, si potrebbe continuare per pagine e pagine.
Ciò non toglie, tuttavia, che anche questo tema debba essere calibrato per bene rispetto alle vicende interne di un’opera letteraria. Nel romanzo del Signore degli Anelli, per esempio, appare una sola storia d’amore classicamente intesa, vale a dire quella in cui due personaggi si conoscono, si piacciono e magari convolano a giuste nozze e non è certo quella di Aragorn e Arwen attorno alla quale, invece, ruota buona parte di un’importante sottotrama della trilogia cinematografica. Mi riferisco, invece, alla storia fra Eowyn e Faramir, alla quale, forse, si sarebbe potuto attribuire un maggior spazio, ma tant’è.
Anticipo già una buona dose di critica a questa mia osservazione con la seguente auto-accusa: «Eh, ma Tolkien dedicò grande attenzione alla coppia Aragorn-Arwen nelle Appendici del Signore degli Anelli!»
Vero, eppure questa affermazione non fa altro che aprire una questione a mio parere ancora più importante rispetto al modo in cui è stata affrontata la storia d’amore fra i due e riguarda il carattere di entrambi i personaggi. Arwen non è una guerriera, né – cosa forse ancora più importante – deve impegnare particolarmente Aragorn ad accettare la sua scelta di diventare mortale: ricordiamo, infatti, che se fisicamente poteva essere scambiata per un giovane elfa, a un osservatore attento come Frodo non sfuggiva la sua reale età: Giovane era, eppur non tanto. La chioma corvina non era sfiorata dalla brina, le braccia bianche ed il viso limpido erano lisci e vellutati, e miriadi di stelle risplendevano negli occhi grigi come crepuscolo luminoso; ma il portamento era regale e lo sguardo rivelava riflessione e saggezza, apprese attraverso anni di esperienza.

Da questa descrizione appare chiaro che difficilmente, nel momento in cui si svolge la vicenda della guerra contro Sauron, Arwen avrebbe potuto lasciarsi a un rapporto complicato sia con Aragorn che con suo padre: se scontri c’erano stati con Elrond in merito alla sua scelta di diventare mortale (e nel testo non ne troviamo traccia, possono essere solamente ipotizzati), dovevano risalire a molti anni addietro e certamente non sembrano aver intaccato la relazione fra i due innamorati. Dama Arwen, inoltre, non è assolutamente la guerriera impavida che sottrae Frodo alla caccia dei Nove e che addirittura si permette di rinfacciare ad Aragorn di essere più veloce nel cavalcare. Non perché le elfe non potessero gareggiare con i rappresentanti dell’altro sesso, al contrario: nel Silmarillion, per esempio, Tolkien scrisse che Galadriel era così forte ed agile da superare in competizioni sportive molti degli elfi Noldor. Sfortunatamente per la bella figlia di Elrond e Celebrian, tuttavia, l’autore non sembrava pensarla come gli sceneggiatori del film: quando il potere di Sauron sembra ormai rendere i viaggi rischiosi, Elrond la fa richiamare da Lorien, ove era solita recarsi per visitare i suoi nonni materni, perché le strade erano divenute pericolose. Una frase scarna, contenuta peraltro nell’appendice degli Annali della Terra di Mezzo ma sufficiente, secondo me, per far sgretolare l’immagine di Arwen che sfida addirittura il Re Stregone a farsi avanti per strapparle dal grembo un Frodo ormai morente…

Tornando alla storia d’amore fra il Ramingo e la mezzelfa, inoltre, non deve sfuggirci un punto importante: per quanto Aragorn amasse teneramente Arwen e potesse essere spinto nella sua missione di contrastare Sauron anche per effetto della promessa fatta al suo patrigno – nonché padre della sua amata – che l’avrebbe presa in sposa solo se fosse divenuto re di Arnor e Gondor, implicando questo risultato la sconfitta di Sauron, non c’è dubbio che Aragorn avesse ben chiaro che nella guerra contro l’Oscuro Signore c’era in ballo «il destino di tutta la Terra di Mezzo», tanto per usare una frase fatta. Non avrebbe mai smesso i panni del Ramingo per assumere quelli dell’erede di Isildur solo per amore di Arwen: da persona saggia e avveduta com’era, credo che avrebbe messo il massimo impegno in questa lotta anche se non fosse stato fidanzato con la mezzelfa. Inoltre Aragorn non vide mai una contrapposizione fra l’essere ramingo e l’erede di Isildur: raminghi erano semplicemente quegli eredi del popolo di Arnor che erano sopravvissuti alla sua caduta nell’anno 1974 della Terza Era e si erano dati a un’esistenza errabonda, perché troppo pochi per riportare il loro reame all’antico splendore. Tanto è vero che i discendenti di Arvedui, l’ultimo re di Arnor, presero il titolo dei Capitani del Nord, proprio a sottolineare, da un lato, il loro basso profilo assunto dopo la fine del Regno, e dall’altra la volontà di non spezzare un lignaggio che non aveva pari tra quelli umani nella Terra di Mezzo, in attesa che giungessero tempi migliori.

Personalmente trovo che l’amore tra i due, così come appare nelle pagine del Signore degli Anelli, sia struggente e romantico allo stesso tempo: Aragorn, pur nel vortice di eventi che accadono attorno a lui, non manca di prendersi un attimo per ricordarla, come avviene nel suo ingresso a Lorien (una scena che, confesso, avrei voluto tanto vedere anche nella pellicola cinematografica). È un amore profondo, che riesce a sopravvivere a tutto quello che accade intorno a loro, ma che trova poche attinenze con quello raccontato nei film; soprattutto, non riesco a capire perché Sauron dovesse mettere a rischio la vita di Arwen, suvvia! L’Oscuro Signore non sapeva neppure chi fosse l’erede di Isildur e quando lo scoprì era troppo tardi per pensare a eventuali rappresaglie «emotive».

Un film può preservare lo stesso spirito del romanzo anche – paradossalmente – con una sceneggiatura che, a prima vista, potrebbe non collegarsi in alcun modo alle pagine dell’opera in questione. Per rifarmi a un esempio concreto, prenderò in esame l’Anabasi, un’opera scritta nel IV secolo a.C. dallo storico ateniese Senofonte. Questi, nelle sue pagine, narrò le vicende dell’armata di 10.000 mercenari greci che, postisi al servizio del principio persiano Ciro il Giovane per usurpare il trono al fratello Artaserse, furono abbandonati a sé stessi dopo la morte del loro mecenate e l’eliminazione – a tradimento – della maggior parte dei loro comandanti. Attraverso un difficile viaggio in terre inesplorate e ostili, i superstiti di quell’armata riuscirono infine a raggiungere il Mar Nero. Questo romanzo è stato ripreso nell’opera letteraria «I Guerrieri della Notte» (1965), scritto da Sol Yurick, e poi nell’omonimo film del 1979. Ebbene, in questa pellicola, i membri di una gang di New York, ripercorrono le stesse gesta degli antichi greci pur in un contesto che non azzarderei a definire del tutto slegato al mondo classico antico: eppure, nonostante le ovvie diversità, il film mantiene intatto lo spirito non solo del romanzo cui si ispira, ma anche quello della sua fonte più antica, l’Anabasi di Senofonte.

La trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, invece, è andata oltre la trama stessa del libro, quasi riscrivendola per la prima volta: anzi, si può dire che sia stato proprio il grande successo di questi film a decretare una sorta di contrapposizione fra la resa cinematografica e l’originale letterario. Non è infrequente, infatti, imbattersi in rete in fan della saga di Jackson pronti a giurare che ogni azione, ogni scena e perfino ogni battuta del film corrispondano a quelle descritte nel libro. Alcune settimane fa ho cercato inutilmente di far comprendere a uno di questi fan che Tolkien non ha mai disegnato nessun Balrog, né tantomeno ha edito una versione illustrata del Signore degli Anelli e che doveva aver ritenuto che le immagini di John Howe fossero state disegnate da Tolkien stesso. Credetemi, non c’è stato verso di fargli cambiare idea: per lui, il Balrog del film doveva per forza essere stato disegnato da Tolkien stesso non per un semplice e banale errore di attribuzione – che avrei compreso perfettamente – quanto per la convinzione che fosse così ben riuscito da non aver mai potuto, lo scrittore inglese, immaginare un altro tipo di Demone. Al termine di un’estenuante quanto inutile discussione, mi sono ricordato di un episodio che mi aveva colpito molti anni fa e che riguardava la ricezione, negli Stati Uniti, del film «Troy» (2004, quindi coetaneo al «Ritorno del Re» di Jackson); ebbene, per aiutare la vendita di un’opera quale l’Iliade che, diciamolo pure, non è mai stata considerata un best-seller (non solo negli Stati Uniti, ma anche nella cara vecchia Europa) un editore statunitense aveva pensato bene di ricorrere a uno stratagemma che doveva aver certamente considerato molto ingegnoso. Sulla copertina della versione americana dell’opera omerica, infatti, aveva inserito questo logo: «Il libro tratto dal kolossal Troy». A quel punto il povero Omero si doveva essere disintegrato nella sua tomba (ovunque egli riposi). Intendiamoci: a me il film Troy è piaciuto e pure molto, ma lo ritengo una liberissima resa del capolavoro epico greco e, soprattutto, al di là dei gusti personali, non penserei mai di rileggere le vicende di Achei e Troiani basandomi sugli eventi trattati nel film!

Concludo questa lunga dissertazione esprimendo il mio giudizio finale su questa trilogia cinematografica: l’opera di P. Jackson, acclamata da critica e pubblico (anche se Cristopher Tolkien, figlio dello scrittore inglese e recentemente scomparso, non la pensava così e questo dovrebbe far riflettere, dal momento che chi meglio di lui poteva giudicare le rese cinematografiche del romanzo paterno, considerato l’impegno profuso nel valorizzare le opere di cotanto genitore?) ha finito col creare – difficile dire se l’abbia fatto esplicitamente o meno – un «Signore degli Anelli» alternativo all’opera prima. Si è trattato, come accennato nel titolo di questo articolo, di un fenomeno culturale che ha finito coll’influenzare profondamente l’opinione pubblica: qualche mese fa, discutendo con Angelo Montanini (uno dei più grandi artisti italiani che si siano cimentati con l’opera tolkeniana, autore, fra l’altro, di due illustrazioni di Erfea e Miriel che potrete vedere qui: Ritratti) abbiamo entrambi constatato come l’apparato iconografico e simbolico post-2004 sia stato irremediabilmente egemonizzato dalla trilogia di Jackson: ormai Aragorn, tanto per fare un esempio, non può che avere le fattezze di Viggo Mortensen, Legolas non può che ricordare Orlando Bloom e così via. Si badi bene; non ho nulla contro l’interpretazione fornita da questi due bravissimi attori, ma è avvilente constatare che non ci sia più spazio per illustrazioni diverse. Negli anni Ottanta e Novanta, invece, le rappresentazioni di personaggi, luoghi ed eventi ispirati al legendarium tolkieniano erano diversissime fra loro, permettendo all’osservatore – cosa non trascurabile – di avere una vasta platea di soggetti fra i quali scegliere «la propria» rappresentazione di questo o quel personaggio tolkieniano. La potenza evocativa dei film, purtroppo, ha creato una situazione di assoluto monopolio alla quale, solo recentemente, si sta iniziando a porre rimedio, anche grazie a una nuova generazione di illustratori meno influenzati dall’immaginario scaturito dalla trilogia cinematografica di Jackson.

L’assedio di Minas Ithil (III parte). Un antico nemico…

In questa terza sezione del racconto de “Il Marinaio e il Re Stregone”, Erfea, reso inquieto da un sogno premonitore, decide di verificare se un’armata partita da Mordor si stia effettivamente dirigendo verso la città di Minas Ithil. Il paladino di Numenor scoprirà che i suoi peggiori timori erano fondati quando comprenderà chi cavalca alla testa delle truppe nemiche…un suo antico, affascinante, nemico.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Un’ora era trascorsa dacché il sole si era levato e ancora nessun messaggero giungeva a Isildur; rapido allora crebbe nell’animo dei soldati il timore che essi fossero stati traditi e che la loro ultima ora stesse giungendo sulle ali del nauseabondo vento dell’oriente: eppure essi non ne facevano parola a nessuno e ognuno serbava nel suo cuore lo sgomento di tale attesa, quasi provando vergogna nello spezzare con la propria voce roca il silenzio che altri aveva creato per loro. Lunga e penosa fu l’attesa, tuttavia anch’essa giunse a termine, ché i primi cavalieri giunsero da Osgiliath e Minas Anor, conducendo con loro messaggi che furono uditi da pochi e intesi ancor da meno, ché essi furono condotti a corte e solo il primogenito di Elendil e il sovrintendente furono presenti allorché le notizie che costoro recavano furono divulgate; scuri erano invero i loro volti ed essi non fecero parola con alcuno di quanto avevano appreso, ma si recarono lesti ad oriente, ché le vedette inviate durante la notte non avevano fatto ancora ritorno e dubbio e timori si impadronivano dei cuori degli uomini.
Elrohir cavalcava innanzi a tutti e splendido il suo pelame fulvo brillava sotto la luce di Anor, eppure non vi era letizia nello sguardo del suo cavaliere ché la cenere di Mordor ne copriva il capo e foschi erano i suoi pensieri; cento cavalieri erano con lui ed essi seguivano una traccia incerta e oscura: eppure, sebbene ognuno temesse un grave male nel proprio cuore, nulla di quanto avrebbero visto in seguito era stato mai concepito da mente mortale. Alcuni dicevano che fantasmi senza volto ululavano sopra corpi straziati e furono colti da grande orrore; altri, nonostante pietà e lacrime soffocassero i loro occhi, pure scorsero i segni di una disperata resistenza condotta dagli esploratori, senza tuttavia che rimanesse traccia visibile dei loro aggressori: a lungo, inibiti dal terrore e dalla grande sofferenza, cercarono tra i volti deturpati, gli uni intenti ad arrestare i singulti, gli altri ricolmi di smarrimento e profonda pena.
Un vento gelido spazzava la gola montuosa in cui essi avevano trovato rifugio e l’eco della sua oscura risata sembrava deridere il loro dolore; infine Erfea si mosse e scorse una runa profondamente incisa nella viva roccia, le cui linee risaltavano nette sulla sua superficie, quasi che il suo incisore avesse voluto dimostrare quanta forza avesse nel braccio.
“Non è un’incisione eseguita dalla rozza mano di un orco, ché essi non conoscono le Tengwar[1], né Sauron permette che il suo nome venga pronunciato o scritto, ed essi adoperano l’effigie del Rosso Occhio su elmi e scudi; inoltre – proseguì chinandosi – codesta non è una esse ma una a”.
Rifletté a lungo, infine chinatosi sulla roccia, né sfiorò ripetutamente la lucida superficie, mormorando alcune parole che gli uomini hanno ormai obliato; tosto tuttavia, il suo viso mutò espressione ed egli risalì a cavallo, invitando i suoi uomini a precederlo in Città, affinché rivelassero che il nemico era prossimo a giungere; quanto a lui, sarebbe rimasto in codesto luogo, finché l’invasore non fosse giunto.

“Cavalcate rapidi, figli di Gondor, ché il pericolo è prossimo né codesta sarà l’unica sventura che i popoli liberi di Endor dovranno fronteggiare, ché le armate di Mordor tosto dilagheranno impetuose”. Rapidi, i cavalieri si mossero e l’eco della loro corsa disperata riecheggiò lungo l’antico cammino roccioso, chiamato Cirith Ungol nella lingua degli Eldar: un crudele demone, ostile ai figli di Iluvatar, l’aveva eletta come sue dimora e sovente la sua progenie, viscida e immonda si aggirava cauta e affamata in tali recessi rocciosi, né essa mostrava di tenere in alcun conto la maestà dei re degli uomini, ché era la prole di Shelob, ultima figlia di Ungoliant la grande, colei che, nella sua ingordigia, aveva fatto scempio dei Due Alberi.
Codesti esseri, simili a ragni, infestavano tali contrade, divorando gli incauti viandanti solitari che osavano percorrerne gli ardui sentieri; essi tuttavia esitavano nell’attaccare il Dunadan, ché, sebbene fosse anziano e solo, temevano la lama che costui portava al suo fianco, sicché attesero invano e infine, esausti e delusi, fecero ritorno alle loro tane.

Monotono parve scorrere a Erfea il tempo, ed egli non udiva né scorgeva alcunché, ad eccezione di rocce erratiche e di miseri cespugli battuti dal vento; restio era il suo animo a percorrere il sentiero di casa, sebbene grave sul suo capo fosse calata la stanchezza: infine si mosse, ché un nuovo timore parve invadere ogni cosa e l’aria ne fu satura. Tremò la terra e gli anfratti montuosi parvero replicare più volte l’agonia di migliaia di passi calpestarne la dura superficie: allora egli guardò in basso e il suo animo fu invaso da stupore e meraviglia, ché mai, finanche nei suoi incubi più aberranti, aveva mai immaginato che un simile orrore potesse destarsi da Mordor: schiere infinite egli scorse marciare lungo la strada che conduceva a Minas Ithil; picche, le cui sommità, adornate da spregevoli effigie, parevano puntare dirette verso il cielo, illuminavano con sinistri bagliori l’oscuro vespro; scudi imponenti reggevano coloro il cui volto era ora occultato da manti intessuti di tenebra e menzogne, ché l’Oscuro Signore mobilitava tutti i suoi eserciti e codesto era solo uno fra i molti che combattevano nel suo immondo nome. Infine, ritta sul suo nero cavallo, il sovrintendente scorse una figura procedere lentamente, quasi incurante di quale destino avrebbe incontrato nel campo di battaglia che le sue truppe si accingevano a bagnare con il proprio sangue e quello dei nemici; bella era, eppure temibile, ché il suo sembiante non era altro che un’illusione creata dalla nefanda arte di Sauron per confondere le menti di coloro che gli si opponevano. Nessuna luce della torce si rifletteva sulla sua corvina capigliatura ed ella pareva assorta in silenziosa meditazione; eppure, una cupa malizia brillava nei suoi chiari occhi e all’anulare, occultato al bieco sguardo dei suoi servitori, ella cingeva un anello forgiato in una contrada ormai distrutta dal suo oscuro padrone, ché Adunaphel l’Incantatrice era il suo nome, settima tra i Nazgul, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore. Una fredda rabbia celava il suo nero animo ed ella cavalcava diritta verso la vittoria; pur tuttavia, non scorse Erfea o se lo vide, minuscola figura persa tra le rocce lo ignorò, ché altro era il suo compito in quell’ora oscura ed egli sarebbe dovuto soccombere dinanzi alla potenza del suo signore.

Il Dunadan, però, la vide e rapido gli balenò nella mente il ricordo di un duello combattuto anni prima tra lui e la malefica dama di Numenor nella città di Umbar; allora fuggì e raggiunse la bianca città degli uomini, dando fiato al suo olifante affinché tutti potessero udirlo e prepararsi alla difesa delle mura: leste, allora, centinaia di trombe argentee riecheggiarono nella vasta gola montuosa mentre la sera fu riempita di speme, ché gli uomini si rincuorarono ed essi presero a sussurrare antiche cantiche apprese dai Noldor in esilio».

Note

[1] Le Tengwar erano state elaborate dagli elfi Noldor prima ancora del loro esilio nella Terra di Mezzo e sebbene non venissero più adoperate nella loro forma originaria, pure Feanor ne aveva approntato una variante ed essa si era diffusa presso Elfi, Uomini e Nani.

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L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron

L’assedio di Minas Ithil (parte II). Un sogno premonitore

Continuo in questo articolo il racconto iniziato in questa sede L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron per narrarvi delle vicende che accompagnarono l’inizio della guerra fra Gondor e Sauron scoppiata un secolo dopo la distruzione di Numenor. Questa seconda parte si apre con un sogno premonitore, un topos, ossia un luogo comune nell’epica antica: basti pensare, ad esempio, al sogno di Agamennone, nel quale un dio gli suggerisce – ingannandolo – che il giorno seguente avrebbe colto una grande vittoria sui Troiani. Anche in questo caso la dimensione onirica avrà modo di influenzare le vicende future di Erfea e del popolo di Gondor, salvandolo, forse, dal suo annientamento…

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«Nei giorni seguenti, si susseguirono numerosi consigli di guerra, ai quali parteciparono entrambi gli eredi di Elendil e i maggiori comandanti del regno; notizie giungevano dal Nord ed esse recavano letizia nei cuori degli Esuli, ché il nemico era in rotta ed aveva attraversato nuovamente il fiume Celudin, ritirandosi nelle remote steppe del Rhun: i saggi di Gondor non celavano la loro soddisfazione, ritenendo che il Nemico fosse stato battuto e costretto a fuggire per non far più ritorno alle terre degli Eothraim. Erfea, tuttavia, trascorreva silenti le sue giornate e il suo viso non condivideva la letizia dei consiglieri del sovrano, ma inquieto e pallido, mirava spesso le Ephel Duath, presagendo che il nemico giacesse ancora al di là degli insormontabili monti.

Lesti trascorrevano i giorni e il primo mese del nuovo anno si accingeva a terminare, allorché, una notte, il riposo del figlio di Gilnar venne turbato da una visione quale mai il sovrintendente di Gondor mirava da numerosi anni: a lungo egli si era dibattuto nella quiete della sua dimora, ché grida orribili a udirsi gli erano echeggiate nella mente; infine si era acquietato, come il marinaio che dopo la tempesta perigliosa trova riparo nel porto sicuro, ché il suo spirito si era librato oltre il Mare ed egli era giunto a Feneria, ora sommersa dalle acque. Ivi, una voce a lui cara, gli aveva sussurrato dolci parole nella mente: “Mio signore, è giunta l’ora della pugna! Impugna Sulring di Gondolin, ché colei che serve l’Oscuro Signore ha condotto le armate di Mordor presso la città di Minas Ithil ed essa cadrà, a meno che i tempi non mutino nuovamente e il volere di Eru Iluvatar non sia rivelato ai suoi figli.”

Lesto Erfea si scosse dal sonno inquieto e indossata l’armatura, cinse al suo fianco la nobile lama; recatosi nelle stalle di Osgiliath sellò Elrohir[1], il cui pelame spendeva luminoso finanche nella buia notte del novilunio, e cavalcò diretto verso la città di Isildur: penoso e solitario fu il suo viaggio e grande crebbe nel suo cuore la paura, ché temeva essere vano ogni avvertimento e atto di valore. A lungo cavalcò nella tenebra, spronando il figlio delle terre del nord affinché costui lo conducesse ove il suo animo desiderava recarsi; infine la vide, remota, eppure chiara, ergersi al di sopra dei banchi di nebbia che salivano dall’Anduin: grato fu allora il suo cuore ed egli volse, commosso, il pensiero a colei che gli aveva permesso di evitare una ignominiosa sconfitta. Stupefatte, le guardie del Cancello accorsero allorché egli diede ordine di destare dal suo sonno il sovrano: non dovette tuttavia attendere a lungo il figlio di Gilnar, ché Isildur lo ricevette nella sua dimora.

“Erfea, tarda è l’ora e l’alba è lungi dal giungere. Quale richiesta di mio fratello ti ha spinto ad abbandonare il tuo giaciglio per recarti a Minas Ithil? Una grande paura vedo impressa sul tuo volto, sebbene la notte sembri calma e il vento non abbia condotto alcuna nuova da est.”

Fosco in volto, Erfea si approssimò al grande braciere che splendeva, simile ad un fiore rosso, nel centro della notte, ché la gelida morsa di Narvinye l’aveva stretto a lungo tra i suoi artigli ed egli ne portava ancora le fresche cicatrici; parole sulle prime non pronunciò, ché erano ancora in lui stupore misto ad angoscia ed egli ignorava con quali parole avrebbe comunicato tale sventura al suo signore; infine, reputando il silenzio un male ben più grave delle paure che gli si agitavano nell’animo, parlò, ché il tempo era tiranno e insensibile alle sventure della prole di Eru Iluvatar.

“Una grande armata, comandata dal Nazgul Adunaphel[2], giunge ora dal passo di Cirith Ungol e tosto la città sarà circondata; questa notte, parole di ammonimento e saggezza hanno destato in me profonda preoccupazione e ora giungo da te perché come erede maggiore del Sovrano, prenda il comando di questa città e del regno: Sire Anarion ignora tali avvertimenti ed Osgiliath riposa, dolcemente cullata dal canto che sale dal Fiume. Minas Ithil, tuttavia, deve essere destata, ché in caso contrario i suoi ignari abitanti si recheranno alle aule di Mandos con le ferite ancora impresse sui volti e sui corpi.”

Solo il silenzio fu udito echeggiare nei vuoti e freddi corridoi della reggia, ché Isildur, profondamente turbato, parola non adoperava; infine, dopo aver a lungo sospirato, parlò a voce bassa: “Quali prove possiedi per sostenere tali parole? Può forse una visione indurci a confondere fantasia con realtà, speme con disperazione, passato con presente? Invero, Erfea, colui che chiamano il Morluin, mai il coraggio degli uomini è venuto meno a causa di simili profezie di sventura, ché esse confondono solo i cuori degli stolti e degli ignavi e mi rifiuto di credere che gli anni trascorsi nel lungo esilio abbiano corroso a tal punto la tua lungimiranza da renderti cieco e sordo dinanzi alla realtà presente”. Nulla rispose il sovrintendente di Gondor, ma sguainata la sua lama dal lucido fodero, la mostrò ad Isildur: “Se tale è il tuo pensiero, figlio di Elendil, non sarò io a dichiararlo mendace, ma la mia lama: essa infatti fu forgiata a Gondolin dai Noldor in esilio e si illumina di luce propria allorché i servi di Morgoth sono prossimi. Se dunque basi i tuoi giudizi solo su quanto i tuoi sensi percepiscono, ebbene non potrai ignorare tale avvertimento”.

Profondamente turbato, il signore di Minas Ithil abbassò l’orgoglioso sguardo a terra e, ispirato da giusta vergogna, parlò: “In nome del legame che ci vincola, ti chiedo di obliare le amare parole che hai udito pronunciare dalla mia favella: era il timore di udire una condanna a lungo temuta a parlare in me; tuttavia, essa è ora svanito, come bruma al mattino e più i nostri cuori dovranno disperare, sebbene è destino che mesi di tormenti debbano attenderci. L’ora del confronto è giunta: possa essere infausta per i servi del Nemico!”

Lesto l’erede di Elendil ordinò che i suoi scudieri fossero destati e si affettassero a rivestirlo, ché una grande collera covava ora nel suo sguardo ed egli aveva già cinto la sua lama; a lungo squillarono le campane, ché il pericolo si approssimava e più poteva essere ignorato: uomini corsero ad armarsi e grida furono udite riecheggiare nelle strade ancora avvolte dalla bruma della notte. I comandanti chiamavano i guerrieri a raccolta e le prime compagnie avevano preso posto dinanzi al Cancello; veloci reparti a cavallo furono spediti ad est e ad ovest, gli uni per comunicare tale minaccia ad Osgiliath, gli altri per scorgere le schiere del nemico. Erfea, tuttavia, non prese parte a tali preparativi, ché nel suo cuore un nuovo presagio era sorto ed egli era titubante a comunicarlo al suo sovrano; tale fu il suo comportamento che non sfuggì a Luiniell, Signora di Minas Ithil, la quale era in verità del suo lignaggio[3]: “Erfea, signore della mia schiatta e sovrintendente di Osgiliath, non vi è luce nei vostri occhi. Cosa temete dunque?”

Lenta fu allora la risposta di Erfea ed egli parlò a voce bassa, quasi temendo che orecchie indiscrete fossero occultate dalle ombre della notte: “Invero, mia signora, la presenza di un solo Nazgul potrebbero costituire minaccia sì grave da provocare tale turbamento nel mio sguardo e nella mia voce, né sarò io in grado di smentire tale affermazione; tuttavia, altri Poteri sono pronti a destarsi in tale ora oscura ed essi io temo, ché non solo Sauron servì l’Antico Nemico ed altri spiriti, ignoti alle genti libere, vagano ancora per le ampie distese desertiche della Terra di Mezzo, taluni sotto forme che gli sprovveduti troverebbero belle, altri ammantati di terrore e ombra: ricordi e presagi si agitano nel mio animo, né il fuoco della tua dimora potrebbe riscaldare il mio cuore in tale fredda ora”.

“Suvvia, Dunadan! Finanche in tale frangente, la speme non è scomparsa dal cuore degli uomini! Molte leghe i tuoi passi hanno coperto, da Osgiliath a Mordor, da Numenor all’Harad e sovente il pericolo è stato l’unico compagno durante le sofferte peregrinazioni che il tuo spirito ha dovuto affrontare; eppure, non fu forse Erfea Morluin colui che affermò esservi pericoli maggiori nella propria dimora che nelle Terre Selvagge?”

Sorrise il figlio di Gilnar, destando in Luiniell meraviglia e stupore, ché di rado il sovrintendente esprimeva in modo sì palese la sua letizia e vi erano pochi o punti motivi in quei giorni per nutrire nel proprio animo un simile sentimento; destatosi dal suo scranno, le prese allora la mano e baciatala, sorrise nuovamente: “Invero quanto affermi corrisponde a verità, che  in numerose occasioni la Morte mi è stata prossima e sempre nella mia casa”. Fece per andar via, eppure si voltò nuovamente e parlò ancora una volta: “Non credere che io abbia smarrito ogni speranza; sappi tuttavia che altrove risiede il tuo destino e che mai più farai ritorno a Minas Ithil, a meno che il Fato non muti nuovamente e ad altri sia data in sorta una grave responsabilità”. Lesto si inchinò Erfea e altre parole non trovò per salutare la sua Signora; costei, tuttavia, gli rimembrò quanto la casa di Amandil fosse grata al sovrintendente di Osgiliath, ché numerosi servigi le aveva procurato in quegli anni, fin da quando Numenor era caduta: silente, lo sguardo perso nel ricordo di eventi passati, Erfea la stette ad ascoltare, infine sospirò: “Non credere che tali eventi abbia obliato, ché io conosco essere veritiera ogni tua affermazione e tale sarebbe anche il parere di Amandil, se egli fosse qui; temo, tuttavia, che ad altri toccherà in sorte narrare tali vicende, ché molti fra coloro che ne furono protagonisti riposano ora nella calda coltre della sabbia dell’Oceano; dolce è il ricordo per chi ancora non ha obliato ed esso ha il sapore del nettare colto all’alba, tuttavia non lenisce le cicatrici di coloro che rimembrano Numenor e la sua gloria e non terrorizzerà il turpe animo dei nostri nemici.”

Lesto allora Erfea si inchinò a Luiniell e sguainata Sulring, la tenne nella destra, ché il suo baluginare potesse rischiarare le Tenebre che adesso occultavano la Città della Luna: lente trascorsero le ore della notte per chi vegliava, rapide per chi cercava riposo nella sua coltre fredda ed umida; vapori ed esalazioni si levarono da oriente, sì che il sole ne fu oltraggiato e più la sua luce illuminò gli stendardi di Gondor ed essi parvero morire nella fredda alba. Rapide, lacrime della notte scivolavano lungo i pendii delle mura e l’eco della loro malinconica melodia colmava di sgomento i cuori degli uomini ed essi non parlavano, ma tacevano, ascoltando, rapiti, i brevi singulti di qualche infante il cui sonno era stato turbato dallo stridere di armi e dall’ululare dei lupi.

Note

[1] “Cavallo della stella”: tale animale, donato dagli Eothraim ad Erfea, sebbene non avesse ricevuto la facoltà di parlare le favelle dei figli di Iluvatar, era tuttavia in grado di comprendere le lingue degli uomini e degli elfi, ché era discendente del possente destriero che Orome, il cacciatore dei Valar, aveva condotto con sé durante i suoi viaggi nella Terra di Mezzo nelle Ere che precedettero il sorgere del sole e della luna.

[2] Settimo fra i Nazgul, nota anche come l’Incantatrice.

[3] Le storie di quell’epoca non menzionano affatto quale fosse il legame di parentela tra Erfea e Luiniell; secondo alcuni storici di Gondor, ella era nipote del Principe dell’Hyarrostar per parte paterna, ma i pareri sono discordi e questa è solo una ipotesi.

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Illustrazione – L’eroismo di Miriel

Care lettrici, cari lettori,
quest’oggi voglio presentarvi una nuova bellissima illustrazione di Anna Francesca, che rappresenta uno dei momenti forse più drammatici dei racconti de «Il Ciclo del Marinaio»: Erfea, battuto in duello da Eargon – uno dei capi della fazione di Numenoreani Neri che vuole prendere il potere sull’isola del Dono – e ormai prossimo ad essere ucciso, viene salvato dal coraggio di Miriel, che si frappone tra lui e il suo carnefice.
Per coloro che volessero leggere (o rileggere) integralmente la scena, suggerisco di cliccare su questo link: L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Per tutti gli altri, lascio qui una descrizione sintetica a corredo di questa bellissima illustrazione.

«Non so dire quanto tempo trascorse; infine, a causa della spossatezza che la ferita procurava alle mie carni, Eargon riuscì, con un abile colpo a disarmarmi; allora la rabbia si impadronì della sua mente ed egli perse totalmente ogni barlume di ragione, gridando oscure parole, incomprensibili ai più; alta levò la lama e funesto sarebbe stato il mio destino se Tar-Miriel, pallida nel volto, ma ferma nella sua volontà, non gli si fosse parata dinanzi, pronunciando parole di sfida:
“Tocca quest’Uomo e la tua lama dovrà macchiarsi di un doppio crimine!”; sì bella appariva la sovrana di Numenor, nonostante la ferita sul capo ottenebrasse la calda luce dei suoi capelli, che finanche il Numenoreano Nero arrestò la sua lama, colto dal dubbio e dal rimorso».

Eargon_Erfea_Miriel

L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron

Care lettrici, cari lettori, in questo articolo riprendo la narrazione dei racconti del Ciclo del Marinaio, che negli ultimi mesi sono stati un po’ tralasciati per fare spazio ad altri progetti figurativi. La serie di articoli che mi accingo a scrivere nelle prossime settimane riguarderà i primi eventi bellici che interessarono Gondor e Mordor circa un secolo dopo la Caduta di Numenor.
Non vi nasconderò che questi eventi costituirono per me una vera e propria sfida: dovetti superare il classico «blocco dello scrittore» per andare avanti nella trattazione della vita di Erfea, perché non riuscivo a capire come riprendere i fili della vita di un Uomo distrutto spiritualmente dalla morte di Miriel, la principessa numenoreana della quale era innamorato e dalla scomparsa di Elwen, la mezzelfa di Edhellond, della quale si erano perse le tracce. Impiegai qualche tempo per ritrovare il filo della matassa e decisi così da ripartire da un nuovo ruolo per Erfea, quello di Sovrintendente del nuovo regno di Arnor e Gondor – perché, ricordiamolo, fintantoché fu vivo Elendil, queste regioni erano considerate parte di un unico organismo statale – che ha in qualche modo ritrovato la forza di andare avanti perché preoccupato dal ritorno di Sauron.
Su questo argomento vorrei qui spendere qualche parola: per quanto possa sembrare strano, Numenoreani ed Elfi – salvo qualche rara eccezione, come vedremo – erano convinti che l’unico vantaggio derivato dalla distruzione di Numenore fosse stata quella del suo peggiore nemico, l’Oscuro Signore di Mordor. Gli eventi, tuttavia, presero una piega diversa: il corpo di Sauron era stato effettivamente distrutto durante la Caduta ed egli era ritornato sulle ali di un vento malvagio alla Terra di Mezzo, laddove, grazie ai poteri dell’Unico, aveva recuperato la sua forma fisica, seppure orribile a vedersi. Certo, aveva perso la capacità di assumere un aspetto bello a vedersi (Tolkien utilizza il termine «storpiato», riferendosi alla sua condizione dopo la Caduta), tuttavia, a dispetto delle speranze di tutti, era sopravvissuto. Ed era ansioso di ottenere vendetta sui suoi nemici: i Duneadain sopravvissuti alla Caduta e gli Elfi di Gil-Galad…

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«Centodieci anni erano trascorsi dalla caduta di Ar-Pharazon e dall’inabissamento di Numenor nei profondi flutti del Belagaer, allorché una nuova minaccia sorse per tutto l’Occidente ed essa mieté numerose vite, implacabile come il crudele vento del Nord che soffia gelido nei mesi di Hrive[1]. Gemiti e lamenti si levarono tosto nelle contrade di Endor, ché molti temevano l’oscura terra che si estendeva oltre gli Ephel Duath, le Montagne dell’Ombra: ivi, nella Terra Oscura, dimorava Sauron l’Aborrito, Signore degli Anelli e corruttore del cuore dei Secondogeniti.
A lungo i Saggi avevano creduto che il suo spirito giacesse ove il sembiante di costui era stato umiliato, allorché egli era stato scagliato nell’Abisso, ed erano soliti predicare che finanche il Maia corrotto avesse trovato la morte in tale sciagura. “No – tali erano le parole che costoro avevano ispirato in Elendil l’Alto, sovrano di Gondor e Arnor – nessuno sarebbe potuto sopravvivere all’ira di Eru Iluvatar ed ora il trono dell’Oscuro Signore giace negli abissi profondi, corroso dalla salsedine e dalla furia di Ulmo”; tuttavia non tutti fra i consiglieri del re erano dello stesso partito, ché ve n’era uno, il cui pensiero discordava da costoro e temeva la nequizia di Sauron. Erfea era il suo nome, ultimo signore di Minas Laure ora sommersa dai flutti, colui che chiamavano il Morluin perché in gioventù aveva abbattuto un drago di tal nome: bello era il suo portamento e nobile ogni suo atto, ché Manwe e Varda vegliavano su di lui ed egli era caro a Tulkas, il Paladino dei Valar; mai Erfea aveva dismesso la sorveglianza degli Ephel Duath, ché temeva nel suo cuore la minaccia di Mordor e sapeva che l’Ombra dei Nazgul non era scomparsa dalla Terra.
Silenti erano i giorni, né voce alcuna giungeva da oriente, tuttavia Erfea vagava inquieto, abbandonando sovente Osgiliath, di cui pure era stato nominato sovrintendente, per esplorare contrade selvagge ed ignote ai più; infine una notte di Narvinye[2], un messaggero a cavallo chiamò a gran voce i Signori di Gondor al cancello orientale di Osgiliath: tosto egli venne ricevuto e nuova inquietudine crebbe nel cuore di Erfea, ché l’ora era tarda e gravida di sventure. Lesto lo straniero si inchinò dinanzi ad Anarion, infine prese la parola: “Graziosissimo signore degli uomini, il mio nome è Aldor Roc-Thalion, signore degli Eotrahim, e giungo da voi latore, mio malgrado, di morte e distruzione, ché l’Ombra si è destata a levante ed ora leva la sua mano corruttrice fino alle terre della mia gente, nel Rhovanion”.
Grave scese il silenzio dopo che furono udite tali parole, ché il sovrano si avvide che nella sala le paure del suo sovrintendente si erano tramutate in realtà; infine egli invitò il suo ospite a disquisire sui motivi che l’avevano spinto così lontano dalla sua dimora, desideroso di apprendere cosa fosse accaduto e il messaggero, sebbene portasse in volto impressi i segni di una recente fatica, non fu parco di parole: “Due settimane sono trascorse dacché l’Ombra è scesa su di noi, disonorando le terre dei nostri padri e inaridendo la nostra letizia! Eravamo nei nostri accampamenti posti sulla riva occidentale del Celudin[3], allorché le vedette di guardia ci riferirono di aver scorto un’immensa moltitudine di carri marciare a poco meno di tre miglia da noi; lesti i nostri Thaeng[4] ordinarono che fosse allestita una spedizione per verificare quali intenzioni avessero tali uomini.
Molte ore trascorremmo nell’attesa gelida che ognuno portava nel suo cuore, invano lenita dai grandi bracieri che splendevano nella notte: al sorgere del sole, un uomo tornò all’accampamento; lesti i miei signori gli andarono incontro, ma la sorpresa che essi provarono in tale frangente non fu inferiore all’orrore che ne incupì i volti. La vita aveva infatti abbandonato il corpo mutilato del cavaliere e la sua testa era stata orrendamente sfigurata con il marchio della Lancia Nera in campo giallo: la rabbia si impadronì dei nostri animi, allorché scorgemmo tale marchio, perché esso era opera dei Logath[5] e degli Asdragh[6], antichi nemici del nostro popolo; eppure esso non era il solo infame marchio che deturpava il volto dell’uomo. Vi era infatti un simbolo quale nessuno fra noi aveva scorto fino a quel momento: un occhio rosso circondato da lingue di ghiaccio. A lungo ponderammo su quale significato potesse avere per noi tale disegno: giunse il mattino ed esso non portò consiglio, bensì la morte; udimmo infatti un lungo stridio e i nostri cuori furono avvolti dalla gelida morsa della paura, ché nessun animale della steppa e nessun uccello del cielo emette versi simili, impregnati di oscurità. Rapido giunse allora in risposta il suono di molti olifanti e vedemmo piombare sui nostri accampamenti migliaia di carri; lesti i nostri guerrieri corsero ad armarsi, eppure ogni resistenza fu vana, ché la confusione regnava nelle nostre menti e il terrore pareva dilagare ovunque: io fui uno degli ultimi ad abbandonare i nostri campi prima di rifugiarci ad est, ove il mio popolo ancora si oppone all’invasore”. S’interruppe per un attimo, infine parlò nuovamente, ma una profonda angoscia era scesa sul suo volto e le sue parole parvero echeggiare da antri oscuri: “Fu allora che lo vidi: innanzi a me vi era un essere simile in apparenza ad un uomo, eppure differente! Un re sembrava essere, ché una corona forgiata nell’acciaio ne adornava il capo, mentre un mantello regale gli scendeva lungo le spalle; tuttavia le luci delle capanne in fiamme non illuminavano alcun viso ed egli sembrava farsi beffa delle frecce che i nostri arcieri inutilmente scagliavano contro di lui: una grande tenebra lo accompagnava e la sua stessa gente fuggiva dinnanzi al suo cospetto. Mai i cavalieri Eothraim avevano veduto una potenza simile all’opera: buia fu la notte, eppure il giorno non recò sollievo nei nostri cuori, ché le armate del nemico incalzavano la nostra ritirata, impedendoci ogni fuga verso sud; numerosi Orchi si erano aggiunti agli Asdragh e agli altri popoli dell’Est ed essi conducevano un grande stendardo innanzi a loro, adornato da un marchio simile a quello che aveva deturpato le spoglie dell’esploratore.
Molte leghe percorse il mio popolo e alfine giunse nei pressi di un lago, nelle cui acque cristalline si specchiava una roccia imponente: qui l’avanguardia del nemico fu costretta ad arretrare ed essi si ritirarono verso Sud, ove riorganizzarono le loro file e si spartirono il bottino accumulato nei giorni precedenti. Io fui inviato presso le genti di Gondor, perché corre voce qui viva un possente capitano, il cui nome è noto presso il mio popolo: Erfea Morluin è chiamato e grato sarebbe il mio cuore se le fatiche del mio viaggio fossero alleviate dalla sua presenza in tale consesso”.

“La tua cerca è giunta al termine, cavaliere del Rhovanion! Io sono Erfea Morluin, figlio di Gilnar di Numenor, sovrintendente di Gondor e a te dico di non crucciarti, ché nessuna delle armi forgiate nelle vostre fucine è in grado di ferire Hoarmurath di Dìr[7], sesto in possanza fra coloro che servirono in vita l’Oscuro Signore di Mordor ed ora perseverano nella schiavitù che contrassero con costui allorché accettarono, bramosi dell’immortalità, gli Anelli del Potere degli uomini”. Indi Erfea si levò dallo scranno e i suoi capelli, ancora neri, sebbene egli fosse ormai anziano, furono illuminati dalle luci della sala: “Codesto atto infame d’aggressione è un monito per tutti i popoli liberi di Endor. Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor è tornato e reclama il suo dominio perduto”. Gravi divennero i visi dei presenti, tuttavia solo Anarion espresse apertamente il suo parere: “Se quanto tu affermi corrisponde al vero, Erfea Morluin, perché il signore di Mordor esita ancora nell’attaccare i nostri possedimenti? Forte è l’odio che egli nutre per noi, ché se davvero il suo nero spirito è tornato sulle ali di un vento malefico, ebbene, le sue spie gli avranno riferito che non tutte le genti di Numenor perirono nella Caduta e che i Fedeli perdurarono alla sciagura che colpì tempo addietro l’Isola del Dono”. Perplessi e inquieti, i consiglieri del sovrano osservarono Erfea e nei loro occhi palesava il dubbio; lesto tuttavia il sovrintendente rispose: “Mio signore, Sauron non è uno sciocco; gli Eothraim sono stati per le sue armate niente altro che una prova per verificare il loro stato di preparazione e l’efficienza dei propri comandanti; tuttavia, non tarderà a lungo l’attacco al nostro regno, ché forte è nell’animo dell’Oscuro Sire il desiderio di vendetta ed egli non ha obliato né il vostro nome, né quello della vostra stirpe”.
Anarion sospirò, infine, levatosi anch’egli dal proprio scranno, si approssimò al suo comandante: “Cosa vuoi che faccia? – gli sussurrò a voce bassa, ché grande era scesa nel suo cuore la paura ed egli nutriva fiducia nel giudizio di Erfea – non vi sono uomini a sufficienza per sorvegliare l’intero confine di Mordor e il pericolo potrebbe giungere dai regni a meridione dell’Anduin come da quelli posti sulla sua riva orientale”. Tetro in volto, così Erfea rispose al suo sovrano: “Mio sire, convoca Isildur a Osgiliath, perché pesante grava sul mio cuore una minaccia”.
Silenzioso stette Anarion per qualche istante, infine congedò l’ambasciatore degli Eothraim con queste parole: “Le storie tramandateci dai nostri padri narrano che la gente di Haladin non proseguì il suo viaggio verso Occidente, ma che preferì stabilirsi nei territori che il vostro popolo ha difeso sì strenuamente; siamo dunque fratelli e il nostro aiuto non verrà meno in questa ora del bisogno. Invieremo un corpo di cavalleria a Nord: temo tuttavia che altrove risieda una minaccia ancor più grave e che le difese di Gondor non possano essere private di troppi uomini”.
Grato chinò il capo l’ambasciatore, infine parlò: “Sia fatta la volontà dei Signori della Terra del Sud; possano i rinforzi non tardare a lungo, ché la mano del Nemico si protende su contrade sulle quali mai era calata la Tenebra”».

Note

[1] “Inverno” nella favella degli elfi Noldor

[2] “Gennaio” nella favella degli Elfi Noldor

[3] Questo fiume scorre a ponente dei Colli Ferrosi e sfocia nel mare interno di Rhun

[4] I “Thaeng” erano i capitani delle tribù che costituivano la federazione degli Eothraim; ogni dieci anni, essi eleggevano un uomo fra loro che avrebbe dovuto rappresentarli innanzi agli altri popoli della Terra di Mezzo e a costui veniva dato il titolo di “Alto Thaeng”: durante gli anni che opposero gli Alleati alle armate di Mordor, tale incarico fu ricoperto da Aldor Roc-Thalion.

[5] I Logath erano una confederazione di popoli dell’estremo Est, servi di Sauron e discendenti degli Orientali che avevano militato nelle schiere di Morgoth durante la Prima Era; le storie di quell’epoca narrano che essi fossero prevalentemente cacciatori e domatori di bestie, ché le loro terre erano incolte e perennemente battute dal vento. Nel terzo millennio della Seconda Era, subirono l’influenza dei Signori della Guerra Hoarmurath e Khamul e costituirono le avanguardie degli eserciti di Mordor fino alla distruzione di Barad-Dur.

[6] Sotto tale nome erano comprese numerose tribù stanziate presso le coste orientali del Rhun; feroci e rudi d’aspetto, costoro praticavano l’agricoltura, seppure in forma rudimentale e veneravano i Demoni della Natura e le rappresentazioni degli Antenati; superstiziosi e bellicosi, essi militarono nelle schiere di Sauron per tutto il corso della Seconda Era.

[7] Sesto fra i Nazgul; si veda Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.