In questa terza sezione del racconto de “Il Marinaio e il Re Stregone”, Erfea, reso inquieto da un sogno premonitore, decide di verificare se un’armata partita da Mordor si stia effettivamente dirigendo verso la città di Minas Ithil. Il paladino di Numenor scoprirà che i suoi peggiori timori erano fondati quando comprenderà chi cavalca alla testa delle truppe nemiche…un suo antico, affascinante, nemico.
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«Un’ora era trascorsa dacché il sole si era levato e ancora nessun messaggero giungeva a Isildur; rapido allora crebbe nell’animo dei soldati il timore che essi fossero stati traditi e che la loro ultima ora stesse giungendo sulle ali del nauseabondo vento dell’oriente: eppure essi non ne facevano parola a nessuno e ognuno serbava nel suo cuore lo sgomento di tale attesa, quasi provando vergogna nello spezzare con la propria voce roca il silenzio che altri aveva creato per loro. Lunga e penosa fu l’attesa, tuttavia anch’essa giunse a termine, ché i primi cavalieri giunsero da Osgiliath e Minas Anor, conducendo con loro messaggi che furono uditi da pochi e intesi ancor da meno, ché essi furono condotti a corte e solo il primogenito di Elendil e il sovrintendente furono presenti allorché le notizie che costoro recavano furono divulgate; scuri erano invero i loro volti ed essi non fecero parola con alcuno di quanto avevano appreso, ma si recarono lesti ad oriente, ché le vedette inviate durante la notte non avevano fatto ancora ritorno e dubbio e timori si impadronivano dei cuori degli uomini.
Elrohir cavalcava innanzi a tutti e splendido il suo pelame fulvo brillava sotto la luce di Anor, eppure non vi era letizia nello sguardo del suo cavaliere ché la cenere di Mordor ne copriva il capo e foschi erano i suoi pensieri; cento cavalieri erano con lui ed essi seguivano una traccia incerta e oscura: eppure, sebbene ognuno temesse un grave male nel proprio cuore, nulla di quanto avrebbero visto in seguito era stato mai concepito da mente mortale. Alcuni dicevano che fantasmi senza volto ululavano sopra corpi straziati e furono colti da grande orrore; altri, nonostante pietà e lacrime soffocassero i loro occhi, pure scorsero i segni di una disperata resistenza condotta dagli esploratori, senza tuttavia che rimanesse traccia visibile dei loro aggressori: a lungo, inibiti dal terrore e dalla grande sofferenza, cercarono tra i volti deturpati, gli uni intenti ad arrestare i singulti, gli altri ricolmi di smarrimento e profonda pena.
Un vento gelido spazzava la gola montuosa in cui essi avevano trovato rifugio e l’eco della sua oscura risata sembrava deridere il loro dolore; infine Erfea si mosse e scorse una runa profondamente incisa nella viva roccia, le cui linee risaltavano nette sulla sua superficie, quasi che il suo incisore avesse voluto dimostrare quanta forza avesse nel braccio.
“Non è un’incisione eseguita dalla rozza mano di un orco, ché essi non conoscono le Tengwar[1], né Sauron permette che il suo nome venga pronunciato o scritto, ed essi adoperano l’effigie del Rosso Occhio su elmi e scudi; inoltre – proseguì chinandosi – codesta non è una esse ma una a”.
Rifletté a lungo, infine chinatosi sulla roccia, né sfiorò ripetutamente la lucida superficie, mormorando alcune parole che gli uomini hanno ormai obliato; tosto tuttavia, il suo viso mutò espressione ed egli risalì a cavallo, invitando i suoi uomini a precederlo in Città, affinché rivelassero che il nemico era prossimo a giungere; quanto a lui, sarebbe rimasto in codesto luogo, finché l’invasore non fosse giunto.
“Cavalcate rapidi, figli di Gondor, ché il pericolo è prossimo né codesta sarà l’unica sventura che i popoli liberi di Endor dovranno fronteggiare, ché le armate di Mordor tosto dilagheranno impetuose”. Rapidi, i cavalieri si mossero e l’eco della loro corsa disperata riecheggiò lungo l’antico cammino roccioso, chiamato Cirith Ungol nella lingua degli Eldar: un crudele demone, ostile ai figli di Iluvatar, l’aveva eletta come sue dimora e sovente la sua progenie, viscida e immonda si aggirava cauta e affamata in tali recessi rocciosi, né essa mostrava di tenere in alcun conto la maestà dei re degli uomini, ché era la prole di Shelob, ultima figlia di Ungoliant la grande, colei che, nella sua ingordigia, aveva fatto scempio dei Due Alberi.
Codesti esseri, simili a ragni, infestavano tali contrade, divorando gli incauti viandanti solitari che osavano percorrerne gli ardui sentieri; essi tuttavia esitavano nell’attaccare il Dunadan, ché, sebbene fosse anziano e solo, temevano la lama che costui portava al suo fianco, sicché attesero invano e infine, esausti e delusi, fecero ritorno alle loro tane.
Monotono parve scorrere a Erfea il tempo, ed egli non udiva né scorgeva alcunché, ad eccezione di rocce erratiche e di miseri cespugli battuti dal vento; restio era il suo animo a percorrere il sentiero di casa, sebbene grave sul suo capo fosse calata la stanchezza: infine si mosse, ché un nuovo timore parve invadere ogni cosa e l’aria ne fu satura. Tremò la terra e gli anfratti montuosi parvero replicare più volte l’agonia di migliaia di passi calpestarne la dura superficie: allora egli guardò in basso e il suo animo fu invaso da stupore e meraviglia, ché mai, finanche nei suoi incubi più aberranti, aveva mai immaginato che un simile orrore potesse destarsi da Mordor: schiere infinite egli scorse marciare lungo la strada che conduceva a Minas Ithil; picche, le cui sommità, adornate da spregevoli effigie, parevano puntare dirette verso il cielo, illuminavano con sinistri bagliori l’oscuro vespro; scudi imponenti reggevano coloro il cui volto era ora occultato da manti intessuti di tenebra e menzogne, ché l’Oscuro Signore mobilitava tutti i suoi eserciti e codesto era solo uno fra i molti che combattevano nel suo immondo nome. Infine, ritta sul suo nero cavallo, il sovrintendente scorse una figura procedere lentamente, quasi incurante di quale destino avrebbe incontrato nel campo di battaglia che le sue truppe si accingevano a bagnare con il proprio sangue e quello dei nemici; bella era, eppure temibile, ché il suo sembiante non era altro che un’illusione creata dalla nefanda arte di Sauron per confondere le menti di coloro che gli si opponevano. Nessuna luce della torce si rifletteva sulla sua corvina capigliatura ed ella pareva assorta in silenziosa meditazione; eppure, una cupa malizia brillava nei suoi chiari occhi e all’anulare, occultato al bieco sguardo dei suoi servitori, ella cingeva un anello forgiato in una contrada ormai distrutta dal suo oscuro padrone, ché Adunaphel l’Incantatrice era il suo nome, settima tra i Nazgul, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore. Una fredda rabbia celava il suo nero animo ed ella cavalcava diritta verso la vittoria; pur tuttavia, non scorse Erfea o se lo vide, minuscola figura persa tra le rocce lo ignorò, ché altro era il suo compito in quell’ora oscura ed egli sarebbe dovuto soccombere dinanzi alla potenza del suo signore.
Il Dunadan, però, la vide e rapido gli balenò nella mente il ricordo di un duello combattuto anni prima tra lui e la malefica dama di Numenor nella città di Umbar; allora fuggì e raggiunse la bianca città degli uomini, dando fiato al suo olifante affinché tutti potessero udirlo e prepararsi alla difesa delle mura: leste, allora, centinaia di trombe argentee riecheggiarono nella vasta gola montuosa mentre la sera fu riempita di speme, ché gli uomini si rincuorarono ed essi presero a sussurrare antiche cantiche apprese dai Noldor in esilio».
Note
[1] Le Tengwar erano state elaborate dagli elfi Noldor prima ancora del loro esilio nella Terra di Mezzo e sebbene non venissero più adoperate nella loro forma originaria, pure Feanor ne aveva approntato una variante ed essa si era diffusa presso Elfi, Uomini e Nani.
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