L’assedio di Minas Ithil (Parte IV). Due fratelli.

Proseguo in questo articolo la narrazione dell’assedio di Minas Ithil da parte delle armate del nazgul Adunaphel. Nell’ultima parte abbiamo lasciato Erfea di vedetta nel passaggio di Cirith Ungol affinché potesse scorgere le avanguardie dell’esercito di Mordor. Ritornato alla città di Minas Ithil, il Sovrintendente di Gondor deve ora misurarsi con le reazioni dei due fratelli, Isildur e Anarion. Nel brano che segue, perciò, avrete modo di approfondire la conoscenza dei figli di Elendil…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Infine l’armata di Mordor giunse alla porta orientale di Minas Ithil che il sole ancora tingeva i colli degli Ephel Duath e l’oscurità non era calata; risero gli Uomini allora nello scorgere la moltitudine dei servi di Mordor ed alcuni fra loro presero a farsi beffe di loro apertamente: “Nessun servo di Sauron ha calcato il suolo della nostra città ed essa ride delle minuscole figure che muggiscono in una barbara lingua; vengano pure, gli eserciti dell’Oscuro Signore, ché non uno troverà scampo alla giusta morte, e il ricordo della loro disfatta echeggerà fino a Barad-Dur”. Voci simili furono udite in tutta la città, riempiendo di gioia il cuore di Isildur, ché costui non mostrava tema dell’armata di Adunaphel, né avrebbe mai ceduto la sua dimora al Nemico; di diverso parere era tuttavia suo fratello Anarion, il quale così gli si rivolse: “Una grande paura ha invaso il mio animo, ché esso teme per la sorte di Minas Ithil: fa evacuare la città, ché il Nazgul non risparmierà né uomo né donna, qualora essi dovessero cadere preda dei suoi laidi artigli.”

Irata fu la risposta di Isildur, che si espresse in tali termini: “Noi siamo i figli di Elendil e i signori di Gondor. Nostro padre ci affidò il reame del Sud affinché vigilassimo sulle sue genti e sulle sue terre e mai, fino ad ora, il nostro giuramento è venuto meno, ché esse sono sfuggite alla violenza dei servi dell’Avversario. Vorresti dunque venire meno al tuo dovere, abbandonandole alla mercé degli Orchi? Come un contadino che temendo per la sua vita, permetta che il suo campo sia bruciato da rozzi briganti, così tu condanneresti Minas Ithil a una triste sorte? Sarebbe invero una grave infamia!”

“Non è atto infame temere il lungo braccio del Nemico! Fratello, vi sono altre contrade, altri popoli che attendono impazienti di offrire i propri servigi a Sauron e codesto è solo uno dei suoi numerosi eserciti che egli spinge ad ovest; il Rhovanion è ormai in rovina, risparmia alla tua città una sorte simile! Ordina invece che la popolazione sia condotta ad Osgiliath, le cui possenti mura fermeranno la carica dei nostri nemici. Non desidero che la nostra gente sia condotta in una trappola ed ivi debba morirvi prigioniera delle sue medesime debolezze.”

Rise allora Isildur, e sguainata la sua lama, diede ordine di issare sul pinnacolo della torre più alta il vessillo di Elendil, in modo che l’esercito di Mordor potesse scorgerlo e provarne terrore; infine, voltatosi verso il fratello, adoperò simili parole: “Non è forse vero che i Valar risparmiarono i Fedeli ché essi avversavano il dominio di Ar-Pharazon e del suo oscuro mentore? Non è forse vero che le braccia di Ulmo hanno permesso ai nostri vascelli di recarci nella Terra di Mezzo ove fondammo i reami in esilio? Perché dunque noi dovremmo temere colui che già una volta è caduto sotto la loro possente ira? Il nostro destino è di innalzarci al di sopra delle debolezze che in passato hanno condannato la nostra stirpe: grandi atti di valore saranno compiuti questa notte e la sete di vittoria del nemico sarà placata dal sangue che i suoi eserciti verseranno.”

Lesto balzò sulla terrazza più alta e di lì si rivolse al suo popolo: “Soldati di Gondor! Per molti secoli la nostra stirpe ha compiuto tali atti di valore contro Sauron e i suoi servi che le sue schiere tremano al solo sentire il nome dei Numenoreani! Uomini poco lungimiranti hanno permesso che l’Oscuro Signore perdurasse e sfuggisse alla nostra giusta vendetta, eppure, mirate, l’ora della rivalsa è prossima! Grande sarà la nostra vittoria ed essa inaugurerà la nuova Primavera di Arda, ché Endor sarà stata liberata dalla lordura dei servi di Morgoth. Uniamoci dunque nell’ora del bisogno e possa il sacro fuoco che infiamma i nostri animi brillare nella Tenebra incombente!”

Possenti si levarono grida di giubilo e l’aria fu percorsa dagli squilli di numerose trombe d’oro e argento: i capitani condussero le loro truppe sugli spalti delle mura, attendendo impavidi che l’oscura marea piombasse su di loro. Erfea, tuttavia, parola non levò, ché condivideva il pensiero di Anarion, né aveva obliato la nequizia di Sauron, laonde per cui ordinò ai suoi soldati di assicurarsi che nessun nemico si impadronisse del cancello che conduceva a Osgiliath e alle contrade occidentali di Gondor.

Frecce furono incoccate e torce accese, ché l’oscurità aveva ora coperto del suo manto le cime dei monti e fredda era scesa la notte; silenzio regnava sugli spalti, tale che solo l’eco dei secchi ordini dei capitani di Mordor giungeva loro, né alcuna delle schiere di Adunaphel osava avvicinarsi alle mura ed esse erano immobili; molte ore trascorsero dunque nella veglia, nulla temendo gli Uomini di Gondor, ché  nessun colpo era stato levato e saldi erano i loro animi; quella notte i Signori dei Dunedain tennero un consiglio per decidere sul da farsi. Alcuni, e fra questi erano Isildur e i suoi figli maggiori desideravano attaccare il nemico con la cavalleria, affinché esso fuggisse lontano; Erfea, tuttavia, respinse con forza tale proposta ché temeva le picche del nemico e non credeva possibile manovrare in uno spazio sì ridotto come quello che si estendeva tra la città e i monti.

Tesa era divenuta l’aria e minacciose si levarono voci contrastanti; nulla però fu possibile decidere, ché lesta si diffuse la notizia che le schiere dell’Avversario muovevano contro la città: tale, infatti, era stata la perfidia di Adunaphel da attendere che un prematuro entusiasmo riempisse di folle gioia il cuore dei Dunedain prima di scatenare il suo feroce attacco alle mura; scale vennero innalzate e su di esse centinaia di Orchi presero posto, scuotendo le corte lance e le scimitarre dalla fosca lama. I Warg[1] correvano lungo tutto il perimetro della cinta muraria e i loro orribili richiami echeggiarono durante tutta la durata dell’assedio, mentre Adunaphel, ritta sul suo nero destriero, osservava lieta quanto accadeva, ché ora i suoi eserciti erano spiegati e la vittoria sarebbe giunta lesta; veloci, alcuni cavalcalupi correvano da una schiera all’altra per trasmettere gli ordini dei capitani di Mordor e l’aria era satura dei loro gutturali versi: pure, Minas Ithil non cedeva.

Arcieri erano stati collocati in gran numero lungo i parapetti e di lì bersagliavano il nemico con i loro temibili archi d’acciaio; Orchi ed altre creature della Tenebra crollavano dalle scale, mentre le luminose lame dei soldati di Gondor trucidavano quanti riuscivano ad aggrapparsi ai merli dei bastioni: Isildur conduceva la difesa del cancello orientale, mentre i suoi figli avevano ciascuno preso il comando di una cerchia di mura.

Rapide trascorsero le ore della notte, né l’alba sembrava portare speranza nel cuore degli Uomini, ché la furia degli Orchi anziché scemare, sembrava crescere di intensità: altre schiere, di cui nessuno aveva prima sospettato l’esistenza, erano giunte sul luogo della battaglia e respingevano i soldati di Gondor all’interno della città, rendendo loro impossibile qualsivoglia sortita».

Note

[1] I warg erano i discendenti di quelle creature nate dall’incrocio fra i demoni servi di Sauron e i lupi della Terra di Mezzo; feroci d’aspetto, erano noti per la loro insaziabile fame e per la loro abilità nel comprendere il Linguaggio Nero.

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