L’introduzione al Ciclo del Marinaio

Care lettrici, cari lettori,
l’altro giorno rileggevo il «Ciclo del Marinaio» e mi sono così reso conto di non aver mai pubblicato l’introduzione al volume, che spiega una serie di caratteristiche di Erfea (e dunque, per esteso, anche dei miei racconti). Partiamo dai dati «storici», vale a dire da quelli che lo stesso Tolkien ha concepito e possono dunque considerarsi canonici: al principio della Quarta Era, dopo la sconfitta di Sauron, Aragorn, divenuto nuovo re di Gondor e Arnor, decise di riappropriarsi di tutte quelle fortezze che, per un motivo o per un altro, erano state sottratte al controllo di Gondor negli ultimi tempi. Nella torre di Isengard – dove aveva vissuto fino a poco tempo prima il malvagio stregone Saruman – Aragorn, aiutato da Gimli, fece una scoperta sconcertante: in una nicchia segreta – che solo l’abilità del nano poté individuare – erano nascosti alcuni cimeli della sua famiglia, fra i quali la catena che un tempo teneva l’Unico Anello al collo del suo progenitore Isildur (quello che tagliò il dito con l’anello a Sauron, avete presente la scena?)
Fin qui i dati «storici», contenuti nell’edizione italiana dei «Racconti Incompiuti» (che vi consiglio caldamente di leggere). E se Aragorn avesse trovato qualcos’altro, oltre a quello che Tolkien aveva sottolineato? Leggete per saperne di più…

Aspetto i vostri commenti, al prossimo articolo!

«Orgilion (1), 19 Narbeleth (2), settimo anno della Quarta Era

Sire Elessar (3),
il manoscritto che avete recuperato dalla grande torre di Orthanc(4) è pressoché intatto, nonostante siano trascorsi più di tremila anni dalla sua compilazione: ignoro se tale longevità della pergamena sia dovuta a una sua qualche intrinseca proprietà a me ignota, oppure sia da attribuire alla cura con la quale Saruman il Bianco l’aveva preservata dal lento, ma incessante, logorio del tempo.
Lunga è stata la sua decifrazione, ché essa è scritta in un linguaggio poco noto agli uomini di Gondor oggidì, sebbene ciò costituisca indubbiamente una grave pecca, ché un tempo erano in molti coloro che conoscevano il Quenya nella sua antica forma; ora, tuttavia, dal momento che l’antica stirpe è svanita ed essa ha abbandonato i lidi di Endórë, più i mortali – fossero anche essi i discendenti di Númenórë svanita nelle acque – lo adoperano, sicché è stata mia premura tradurla nell’Ovestron, ché essa fosse comprensibile a quanti avessero in animo di leggere tali scritti.

In questi scritti è narrata la vicenda di un principe númenóreano, Erfëa, figlio di Gilnar, dacché egli era giovane sino alla sua dipartita da Endórë; nessuna menzione di tale Dúnadan è possibile riscontrare nei Rotoli del Re, e invero, curiosa mi parve in principio tale anomalia, ché egli era un lontano discendente di Atanalcar, quarto figlio di Elros Tar-Minyatur allorché il mondo era giovane; pure, poiché ora molto ho appreso del suo fato, ritengo di aver trovato soddisfacente spiegazione per tale mancanza, ché egli era invitto ad Ar-Pharazôn, a causa del sentimento che lo legava alla sua cugina e sposa, Miriel, ed è probabile che costui abbia distrutto con il fuoco ogni altro documento concernente tale Uomo.

Se parrà opportuno alla vostra graziosa maestà e alla sua nobile consorte leggere quanto la mia mano ha solo vergato sulla chiara pergamena e non scritto di suo pugno – ché troppa, invero, sarebbe stata la fatica e io non sono che un umile scrivano – essi troveranno novelle concernenti quanti vissero nella Seconda Era e molti di coloro che ebbero parte agli eventi dei secoli successivi.

In fede,

Heruo di Gondor, scrivano e contabile del Re».

Note
(1) “Lunedì” nella lingua Sindar degli Elfi
(2) “Ottobre” nella lingua Sindar degli Elfi
(3) “Elessar” (gemma di radianza) era uno dei nomi elfici con cui era conosciuto Aragorn.
(4) “Orthanc” nome elfico di Isengard

Suggerimenti di lettura:
Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio»
Da Numenor alla Terra di Mezzo: benvenuti, lettori de «Il Ciclo del Marinaio»!
Il Ciclo del Marinaio

Storia di Miriel – L’inganno

Come ho scritto nel mio ultimo articolo (I giardini di Armenelos – bozzetto), fino a questo momento ho trascurato di raccontare un episodio cruciale della storia di Miriel, che si interseca strettamente con quella di Erfea: il loro primo incontro. Posso qui anticiparvi che potrà sembrarvi quantomeno un po’ insolito…e in effetti lo è, così come sembra esserlo il titolo di questo articolo. Non voglio rivelarvi di più – a ben pensarci, ho già fatto un grosso spoiler (chi leggerà, capirà)! – e non intendo, in questo cappello introduttivo, dare alcun giudizio in merito alla scelta di questo titolo «anomalo»: sarò tuttavia ben felice di rispondere alle vostre domande e commentare insieme questa parte del racconto de «Il Marinaio e il Messere di Endore». Ricordo ai lettori e alle lettrici che in questa fase della sua vita (cioè a 20 anni) Erfea adottava ancora il nome paterno «Earél», mentre Miriel aveva allora 15 anni e…beh, ho già scritto troppo, non mi resta che augurarvi buona lettura!

«Molto tempo trascorreva Eärél negli archivi di Armenelos, allontanandosene solo quando percorreva i vasti parchi che si estendevano tra il mare ed il Meneltarma[1]: ivi, allorché aveva vent’anni, gli si fece incontro una giovane fanciulla sconosciuta. Una coroncina in perle ornava il suo candido volto ed essa era intrecciata con i biondi capelli che le scendevano lungo la schiena; una cintura d’argento le stringeva una lunga veste azzurra e sulle minute spalle era posato un manto dello stesso colore.
A lungo Eärél la mirò, incapace di pronunziare parola; infine, resosi conto di non essersi ancora inchinato dinanzi ad una simile dama, egli si prostrò e le chiese chi fosse.
Argentina squillò la voce della fanciulla ed ella rise graziosamente: “Il mio nome è Eärien, giovane signore; non meravigliatevi di non avermi mai scorto prima in tale contrada, ché non sono solito percorrerla, essendo la mia dimora situata nella regione dell’Andustar, dalla quale mi allontano raramente”.
“Forse che i vostri avi discendono dalla schiatta di Finwë? – sorrise Eärél, eseguendo un breve inchino – Perdonate le mie parole: non sono molte le dame di queste contrade che possono vantare una tale capigliatura!” Sicuro appariva il volto del principe, eppure, mentre pronunciava codeste parole, il suo cuore tremò: poco avvezzo a discorrere con le dame di corte, non aveva mai visto una simile dama di tale grazia e bellezza adorna.
Rise Eärien e nei suoi occhi potevano leggersi sorpresa e piacere: “Giovane signore, non sono l’erede di Fëanor, né i miei avi vantano simile ascendenza; essi sono, infatti, umili pescatori della costa prigionieri dei capricci della sorte, ché non sempre il mare si mostra generoso nei loro confronti”.
Rispose allora Eärél: “Sappi che il mio cuore non è rivolto al mare: un oscuro presentimento legato ad esso turba infatti i miei pensieri. Eppure, fanciulla dell’Andustar, volentieri ti seguirò alla tua dimora, se tale sarà il tuo desiderio”.
Lesta, allora, Eärien si inchinò dinanzi all’erede degli Hyarrostar e adoperò tali parole: “Non è saggio, giovane signore, che un principe calpesti lo spoglio pavimento della dimora di un umile pescatore. Le nobili dame riderebbero di lui ed egli proverebbe giusta vergogna”.
“Mia signora, non desidero arrecarvi danno in nessun modo: nessun timore, tuttavia, potrebbe impedirmi di visitare la vostra dimora, ché fosse essa oscura e minuta, pure la luce dei vostri occhi la renderebbe più nobile delle dimore di molti principi di Númenor”.
Parve, per un istante, che il volto di Eärien si rabbuiasse, come se una rapida nube ne avesse coperto la calda luce che emanava; pure, in breve il suo viso si ricompose, assumendo nuovamente un’espressione divertita: “Siete stato scortese mio signore! Non vi siete ancora presentato, eppure conosco già il vostro nome: non siete forse Eärél, principe dell’Hyarrostar?”
Stupefatto e confuso, l’erede di Gilnar non seppe replicare a tale osservazione, e il suo sguardo espresse tale stato d’animo; lesta, tuttavia, la dama gli si inchinò cortesemente e domandò perdono: “Mio signore, vi domando scusa se ho turbato i vostri pensieri; perdonate le mie parole. Mio padre conobbe il vostro quando servì sotto le armi: il principe Gilnar era il suo comandante ed egli lo reputava un uomo giusto, privo dell’arroganza mostrata dagli altri ammiragli. Ho veduto in voi, quest’oggi, la stessa nobiltà d’animo di vostro padre”. Lesta, dopo aver pronunciato questo discorso, fece per andare via, ma Eärél le rivolse parole intrise di cortesia e saggezza, sicché ella rimase e percorse con lui gli ampi viali che attraversavano il parco della reggia.

Non vi era alcun sentore della presenza di altri Uomini, eppure Eärél avvertì o credette di avvertire l’eco di un pesante passo; sulle prime, insospettito da tale suono, si fermò esitante, infine, non vi prestò più attenzione, ché la sua mente ed il suo cuore erano altrove. Al termine della giornata Eärél si separò dalla giovane dama ed ella gli porse l’affusolata mano: presala e baciatala dolcemente, i due giovani si congedarono in silenzio.
Trascorsa una settimana, ecco che i due si incontrarono nuovamente nel medesimo luogo ove si erano conosciuti e la mattina trascorse lieta; al termine di essa, poiché Eärél aveva necessità di far ritorno alle aule dei precettori, così si congedò dalla fanciulla del mare: “Mia signora, la scorsa volta ho confidato nella buona sorte per rivedervi; poiché non potrò godere dello stessa fortuna per due volte di seguito, vi do appuntamento per l’indomani, all’ora del pomeriggio che più vi aggraderà”.
Eärien si inchinò e non pronunziò alcuna parola; pure, ella si presentò all’incontro con il giovane principe il giorno dopo e quelli successivi. Insieme, i due giovani percorrevano i viali dei parchi di Armenelos, chiacchierando amabilmente: nessun altro era presente a tali incontri, né Eärél sembrava farvi caso, intento com’era ad ascoltare solo la bassa voce della fanciulla. A volte capitava che Eärél condividesse con la fanciulla il suo pranzo ed ella lo accettava con gioia, trovando il suo gesto spontaneo e gioioso al tempo stesso. Una mattina, tuttavia, la il comportamento di Eärien parve mutare: non prese alcun discorso, limitandosi a rispondere brevemente alle domande che le porgeva il suo compagno. Eärél, infine, reso inquieto da tale comportamento, così la interrogò:
“Mia dolce amica, cosa ti ha turbato? Il mese di Lótessë[2] è prossimo e con quello le grandi feste della Primavera; perché dunque siete pallida e infelice?”
A lungo Eärien ristette in silenzio, infine pronunciò parole amare: “Prossimo è il momento in cui i nostri percorsi si divideranno. Tra breve rientrerò alla mia terra natia, ove aiuterò mio padre e mia madre nelle loro attività quotidiane. In questa stagione, infatti, il mare è ben disposto verso i naviganti ed essi lo solcano volentieri”.
Eärél l’ascoltò attentamente, infine parlò a sua volta: “Eärien, se le tue attività ti renderanno distante da Armenelos, sappi che ti raggiungerò, se avrai il piacere di rivedermi. Hai riempito di gioia il mio animo in questi giorni di primavera, rendendo meno solitari i miei pensieri”.
Eärien proruppe in una risata, un suono amaro ad udirsi: “Mio principe, credete forse che i vostri nobili genitori approverebbero il vostro comportamento? Voi siete giovane ed i vostri sentimenti ignari delle leggi del mondo: non potrei tollerare che il vostro onore possa venir meno. I principi degli orgogliosi Númenóreani non sono avvezzi a simili incontri, sicché sarebbe opportuno che voi conservaste solo il ricordo della mia compagnia”.
A nulla valsero le parole che il giovane Dúnadan adoperò per convincerla a recedere dal suo proposito, ché egli non avrebbe rinunciato alla sua compagnia, né avrebbe permesso che si allontanasse da Armenelos. Nessuna preghiera, tuttavia, né alcuna parola furono sufficienti dal farla desistere dal suo intento e la giovane si allontanò. Eärél ignorava per quali motivi aveva rifiutato di accoglierlo nella sua dimora; pure, era destinato ad incontrarla nuovamente, sebbene sarebbero trascorsi molti anni e numerose vicende avrebbe vissuto fino a quel momento».

Note

[1] Monte di Númenor, sulla quale sommità era stato eretto un tempio dedicato ad Eru Ilúvatar.

[2] Maggio.

Ritorno a Numenor

Continuo in questo articolo la narrazione delle avventure che Erfea visse nella Terra di Mezzo durante la sua giovinezza, fino al suo ritorno a Numenor per essere insignito del titolo di cavaliere.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Lesti trascorsero i mesi, e gli anni, né alcuna notizia giungeva da occidente; pure, sebbene nel suo cuore Erfëa fosse lieto e nulla gli fosse venuto meno, egli avvertì crescere nel suo animo una profonda nostalgia della sua gente e della sua dimora. Esitava, tuttavia, ad abbandonare il regno del Lindon, ché egli era convinto di non aver mostrato ai suoi ospiti sufficiente gratitudine per quanto aveva ricevuto ed avrebbe voluto compiere per il suo anfitrione gesta valorose.
Yavië[1] era giunto e ancora nessun’occasione per mostrare il suo valore gli si presentava, allorché Gil-Gilad gli parlò: “Giovane figlio di Gilnar, il tuo animo è insoddisfatto, perché inebriato dai racconti che ha udito in queste sale. Ambisci ottenere la gloria imperitura che i bardi riservano a quanti compiuto grandi gesta; pure, non aver fretta di voler dimostrare il tuo valore, ché questi sono ancora giorni di pace e se essi verranno meno, il tuo spirito sarà lesto a dolersi”.
“Mio signore, poiché tu mi hai esposto il tuo pensiero, lascia che io possa essere sincero con te: ho appreso quanto desideravo conoscere ed ho duellato con maestri d’arme quali non ci sono nella mia patria; pure, sebbene io ti sia profondamente grato per quanto hai permesso che io imparassi, il mio animo è invero insoddisfatto, ché esso brama la gloria dei miei avi”.
Un’ombra apparve allora sul volto di Gil-Galad ed egli sospirò a lungo; infine, avvedendosi che l’erede di Gilnar era impaziente di misurare la sua abilità, così gli parlò, tentando di dissuaderlo:
“Erfëa, se anche tu potessi affrontare in singolar tenzone Sauron, l’Oscuro Sire di Mordor in persona, credi che il tuo animo recupererebbe quella pace che invano cerchi? Non è in tal modo che si ottiene la vera gloria, ché essa risiede nella nostra capacità di servire la potenza di Ilúvatar. In tempi di pace, Uomini ed Elfi dovrebbero godere della vita così come era prefigurata prima che Melkor intonasse un canto nuovo e diverso, orribile ad udirsi”.
L’ira avvampò nel cuore del Númenóreano ed egli a stento la dominò: “Mio sire, se Morgoth ha reso irrequieti i cuori degli Uomini, non è ignorando le sue azioni che potremo conoscere pace e letizia! Concedimi, dunque, di stanare le sue creature che ancora dimorano nel vasto mondo, affinché io sia degno delle potenze di Arda”.
Secca fu la replica di Gil-Galad: “Non ho alcun potere su di te, Erfëa, figlio di Gilnar, e se ti ho aperto il cuore è per evitare che tu cadessi vittima delle tue stesse debolezze. Va’ pure, se lo desideri, non sarò io a contrastarti: possano i tuoi passi non tradirti”.
Erfëa si inchinò dinanzi al sovrano, e lasciò la sua dimora, sebbene il suo cuore fosse dubbioso ed egli temesse le parole che il Sovrano dei Noldor aveva pronunciato; pure, non avrebbe rinunciato a portare a termine la sua missione, per paura che la sua codardia risultasse maggiore della sua vergogna. [continuare la lettura del racconto con l’articolo Il Messere di Endore]
[…] Erfëa non rispose e, voltatosi, si incamminò ove ricordava di aver subito l’assalto del servo di Morgoth; trovata l’immonda bestia, si appropriò della sua nera pelle. Dopo alcuni giorni di cammino giunse finalmente alla dimora di Gil-Galad. Lieti furono i Priminati allorché lo scorsero; timoroso in volto, il principe di Númenor si inchinò dinanzi al sovrano degli Eldar e gli donò quanto la sua caccia aveva procurato. Sorrise, allora, Gil-Galad, ché il cuore del suo ospite aveva allontanato l’ombra che ne incupiva l’animo, mostrandosi pentito.
A lungo il figlio di Gilnar parlò dinanzi al suo sovrano di quanto i suoi occhi avevano scorto nelle remote selve che si estendevano nelle contrade al di là delle montagne. Nel suo sguardo vi erano ancora meraviglia e stupore, ché mai avrebbe obliato l’anziano e gaio Messere della foresta e la sua graziosa dama del fiume. Al termine del racconto, Gil-Galad si levò dal suo scranno ed estratta una pesante chiave dalla sua veste, si diresse verso un antico forziere che giaceva in fondo alla sala: apertolo, ne estrasse una lama quale gli uomini di Númenor più non ricordavano, essendo le loro menti molto più rapide ad obliare di quanto non lo siano quelle dei Primogeniti. Stupito, Erfëa la osservò con fanciullesca curiosità: non gli sembrava possibile che una simile lama fosse stata forgiata, finanche dai fabbri dei Noldor, i quali avevano appreso l’arte da Fëanor il Grande, l’artefice dei Silmaril[2] e delle Palantíri.
Un’elegante elsa stringeva nel suo forte pugno l’Alto Sovrano dei Noldor ed essa era arricchita da delicati intarsi in ithildin[3], i quali rappresentavano le sette porte che un tempo custodivano Gondolin la Segreta dalla malizia dell’Oscuro Nemico. Il forte pomo in acciaio era attraversato da sottili fili di mithril: pareva risplendere di luce propria allorché un raggio di sole o di luna si posava sulla sua chiara superficie. Quale arte fosse stata in grado di concepire una simile meraviglia, Erfëa non avrebbe saputo dire: perfino le orgogliose lame dei suoi padri gli parevano poca cosa, se paragonata all’arma che Gil-Galad impugnava.
La guardia, solitamente realizzata in bronzo, era invece fabbricata in acciaio cavo, risultando leggera nell’impugnarla. La lama, la cui luminosità, perfino in una giornata soleggiata, era tale da abbagliare coloro che l’avessero mirata troppo a lungo, si estendeva per cinquanta pollici: sulla sua lucida superficie, rune di grande potere rilucevano splendenti.
Sorrise il Sovrano dei Noldor: “Sappi, Dúnadan, che questa lama fu forgiata da Curufin, figlio di Fëanor, celebre fabbro, agli albori della Prima Era, quando il mondo era giovane e gli Edain ancora dormivano. Donata al sovrano di Gondolin[3] Turgon la spada servì i Signori della sua casata, finché non essi non perirono durante la sua caduta. Idril, figlia del re, la trasse in salvo dal disastro e la condusse con sé allorché fuggì da Gondolin; attraverso gli anni giunse agli eredi di Eärendil e giacque a lungo nei forzieri di Imladris la Nascosta, che un giorno, forse, visiterai tu stesso. Elrond mi ha chiesto di consegnarla nelle tue mani, come dono degli Elfi a colui che si accinge a divenire cavaliere di Númenor. Io la rimetto al fianco di Erfëa, figlio di Gilnar e principe di Númenor, con profonda commozione: possa essere per te un valido sostegno, come il nodoso bastone lo è per il viandante”.
Grande fu la gioia che si dipinse allora sul volto di Erfëa, ché non credeva possibile che un simile dono fosse destinato ad un mortale: “Mio grazioso signore, se l’artefice della lama stessa reclamasse quanto la sua arte ha forgiato, pure mi mostrerei riluttante nel concedergliela, ché essa sembra non già la creazione di uno dei Figli di Ilúvatar, quanto quella del Signore dei Fabbri, Aulë il Vala. Per tale motivo, il mio braccio è troppo debole per impugnare una simile lama; pure, se tale è la volontà del Sovrano degli Eldar, io la accetterò, ché possa essere mia fedele compagna negli anni a venire”. Con prudenza, il Dúnadan accettò la spada eppure, nelle sue esitanti mani, essa parve prendere vita. Erfëa non avvertì più alcun timore, e gli sembrò che la lama fosse fiera del suo padrone. Raggiante in volto, il principe di Númenor la lanciò in aria e ripresala al volo, lesse ad alta voce le rune che vi erano impresse, chiamandola con il nome che l’artefice aveva scelto per lei:
“Sulring di Gondolin, avversaria dell’Oscuro Nemico del Mondo e dei suoi immondi servi”. Inspirò profondamente: “Possa la sua lama incutere terrore agli eserciti di Sauron, il crudele signore di Mordor”.
Congedatosi dal sovrano dei Noldor e da quanti erano nella sua corte, Erfëa si accinse a fare ritorno alla terra natia: erano ormai trascorsi sedici anni dalla sua dipartita e molto era cresciuta nel suo cuore la nostalgia per coloro che aveva abbandonato allorché, ancora giovinetto, si era imbarcato alla volta della Terra di Mezzo. Nel viaggio di ritorno lo seguì Arthol: grande amicizia era stata stretta fra i due principi ed essi, sovente, aprivano l’un l’altro i reconditi segreti che i loro cuori custodivano.
Al termine di una lunga traversata, il marinaio di vedetta sulla coffa, annunciò essere prossime le spiagge di Rómenna, il porto orientale di Númenor. Alte grida di giubilo si levarono dall’equipaggio: lesti, i marinai si accinsero ad ammainare le vele, ché il vento era caduto ed essi avrebbero dovuto proseguire a remi, né questo parve lavoro troppo grave a chi era imbarcato; la vicinanza della propria dimora, infatti, aveva accresciuto in tutti la forza e le notti insonni parevano un ricordo del passato.
Spronata da una simile forza, la nave giunse dunque al porto di Elenna, ove fu accolta da una folle festante. Da alcuni giorni, infatti, si era sparsa la voce che avrebbero fatto ritorno alla terra natia i giovani principi. Ritto sulla fiancata della nave, Erfëa scorse Gilnar e Nimrilien attenderlo e il suo cuore fu colmo di gioia; sbarcato sul pontile, il giovane principe dell’Hyarrostar fu accolto dal suo popolo ed essi lo mirarono stupiti, ché Erfëa era divenuto invero un uomo quale pochi fra loro erano, ed alto e bello a vedersi era il suo sembiante. Parve a molti, abbigliato come era nelle vesti che gli Eldar della Terra di Mezzo gli avevano donato, che Erfëa fosse divenuto simile ai Primogeniti.
Lungo il tragitto che lo condusse a Minas Laurë, sua città natale, molte domande gli posero i suoi genitori, pregandolo di soddisfare la loro curiosità; eppure, ora che il figlio di Gilnar aveva mirato i volti cari, nel suo cuore era delusione ed essa trapelò nel suo volto. Questa non sfuggì, tuttavia, a Nimrilien ed ella così gli parlò:
“Nobile figlio, devi essere davvero molto stanco, dal momento che la tua lingua è muta e non presti attenzione alle domande che ti sono poste. Il tuo spirito è affranto ed il tuo sguardo spento”.
Silente e scuro in volto, così Erfëa le rispose: “Veneranda madre, ogni tua parola corrisponde a verità; io però non intendo rivelare quale sia l’origine del mio male, per paura che il mio dolore possa sembrarmi maggiore, se fosse rivelato qui innanzi a voi”.
Scuro in volto divenne allora Gilnar: egli non gli pose più alcuna domanda, né alcun suono si levò dalla sua bocca, ché oscure gli parevano le parole del figlio ed egli non ne comprendeva il significato.
Nei giorni successivi, crebbe l’inquietudine nel cuore di Erfëa ed egli prese a vagabondare da solo, sicché a molti parve che non avrebbe potuto scegliere nome migliore. Si recava sovente nei giardini di Armenelos, ove, qualunque fosse l’intento che lo conducesse in tale luogo, pure non sembrava appagato. L’umore di Erfëa mutò solo quando si sparse la voce che Numendil avrebbe invitato tutti i pari del Regno nella sua dimora: egli manifestò allora grande impazienza, sebbene nessuno riuscisse a comprenderne il motivo».

Note

[1] L’Autunno.

[2] Le “pietre veggenti” affidate, secondo la tradizione, dagli Eldar ai Númenóreani; si veda anche “Il Racconto del Marinaio e delle Palantíri”.

[3] Una lega metallica composta da alluminio e mithril, riflettente i raggi della Luna.

[4] Gondolin, dimora del re elfico Turgon, fu costruita nei recessi di una remota valle occultata dai monti del Dorthonion, nel Beleriand settentrionale. Per secoli la sua ubicazione fu nota solo a pochi tra gli Eldar: tuttavia, al termine della Prima Era, Maeglin, il traditore, desideroso di vendicarsi di Idril, principessa di tale città e da lui a lungo amata invano, rivelò tale segreto all’orecchio di Morgoth che ordinò alle sue armate di raderla al suolo.

L’incontro fra Erfea e Gil-galad

Come scritto nel precedente articolo Infanzia di un paladino. Lontano dal mare… l’infanzia e l’adolescenza degli esseri umani rappresentano, senza alcun dubbio, due momenti molti complessi della vita di ciascuno di noi. Anche Erfea non fa eccezione a questa regola: dopo aver incontrato per la prima volta Miriel (sotto mentite spoglie) (Ritratto di una principessa), il giovane paladino di Numenor deve scontrarsi con l’impossibilità di poter conoscere il proprio destino prima del tempo e imparare a gestire le proprie ambizioni. Un incontro con uno dei più grandi sovrani elfici della Seconda Era, tuttavia, potrebbe essere di grande aiuto per la maturazione del giovane principe numenoreano…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Al termine dell’anno, Eärél dovette scegliere, secondo le tradizioni degli antenati e la legge di Númenor, se preservare il nome che gli era stato attribuito dal padre alla nascita, oppure mutarlo con uno di suo gradimento. Alla cerimonia partecipavano i parenti del giovane uomo: non avevano facoltà alcuna nella scelta, ché era a discrezione del prescelto e non poteva più essere mutata. Uno scriba prendeva nota della decisione che in tale consesso era raggiunta e il cittadino di Númenor era registrato nei rotoli degli archivi di Elenna con il nome che sceglieva liberamente in tale occasione. Il giorno della festa di Yestarë[1], dedicata ad Eru Ilúvatar e ad ogni sua creazione Eärél, accompagnato dalle Dame e dai Signori dei Fedeli, si recò alla corte del principe Numendil, affinché questi ascoltasse quale sarebbe stata la sua scelta. Era opinione comune che egli non avrebbe preservato il nome paterno, ché non era amante del mare ed esso gli pareva estraneo: nessuno fra loro, tuttavia, avrebbe saputo presagire quale sarebbe stata la scelta di Eärél.
A lungo Numendil scrutò il volto del principe dell’Hyarrostar, infine, avvedutosi che la sua decisione era stata presa, così parlò:
“Giovane Eärél, dinanzi a questa corte riunita e all’Unico che è sopra i Reggenti di Arda, dovrai pronunziare il nome con il quale sarai d’ora innanzi noto alle Genti Libere e a coloro che seguono il vessillo dei seguaci di Morgoth; sia dunque la tua scelta libera e sincera, ché se così non fosse, possa l’ira di Ilúvatar abbattersi su di te”.
Tosto, la chiara voce di Eärél echeggiò nella sala pronunciando il nome che aveva prescelto: “Mio signore, dinanzi alla maestà dei Valar e di Eru Ilúvatar, giuro solennemente che prenderò il nome di Erfëa e sarò Erfëa degli Hyarrostar, principe e signore di Númenor”.
Stupiti, si levarono nella sala mormorii increduli, eppure i volti di quanti ascoltarono la profezia di Manëa non mostrano sorpresa alcuna, ché ben compresero quanto le parole della Veggente si fossero rivelate veritiere. Numendil, che era stato fra quanti avevano assistito alla nascita di Eärél, sospirò, infine parlò: “Sia dunque rispettata la tua volontà, Erfëa, figlio di Gilnar, principe dell’Hyarrostar e signore di Númenor: che la tua scelta si riveli lieta e che il tuo cuore non abbia da pentirsi per quanto la tua voce ha testé annunciato”.
Pronunciate queste parole, il signore di Andúnië si accinse ad abbandonare la sala, allorché echeggiò, per la seconda volta, la voce del figlio di Gilnar e le sue parole sorpresero nuovamente coloro che le ascoltarono: “In verità, Numendil della stirpe di Elros Tar-Minyatur, mi è parso che le vostre parole alludessero a quanto la mia mente ed il mio cuore ignorano; cosa temete, dunque? Cosa vi spinge a parlare in siffatto modo dinanzi all’erede di Gilnar? In nome dei Valar e dell’Unico, non nascondete i vostri pensieri a riguardo, ché vedo il dubbio rendere inquieto il vostro animo”.
Non vi era arroganza nelle parole che Erfëa aveva adoperato; tuttavia, per lunghi mesi, coloro che assistettero a tale cerimonia ricordarono quale inquietudine dimorasse nel cuore di Numendil, mentre si accingeva a rispondere al figlio di Gilnar: “Invero, Erfëa di Númenor, sappi che innumerevoli sono i percorsi che i nostri animi intraprendono, gli uni dettati dal libero arbitrio, gli altri dalla necessità e non tutti conducono al medesimo luogo. Qualunque sia il mio pensiero in tale faccenda, non rivelerò nulla di quanto ho appreso sul tuo destino, né troverai in questa sala e fra codeste persone, alcuno disposto a divulgare simile notizie. Il tuo cuore è ancora giovane e non è bene che apprenda anzitempo ciò che riguarda il futuro”.
Profondamente ferito nel suo acerbo orgoglio, Erfëa abbandonò la sala, senza pronunciare parola alcuna, essendo il suo spirito furente per l’umiliazione che credeva di aver subito. Non vi furono parole che placarono la sua insulsa ira ed egli trascorse alcuni giorni immerso in un profondo silenzio. Al termine di tale periodo, si presentò innanzi al padre e gli domandò consiglio:
“Padre, ben m’avvedo, ora che l’ira è scemata e la mia anima è nuovamente lieta, che le parole di Numendil furono sagge. Egli volle così mettermi in guardia contro l’arroganza che in talune occasioni si impadronisce dei nostri animi. Mi rendo conto, infatti, di essere privo di quella saggezza che terrebbe a freno la mia lingua: permettimi dunque di recarmi nella Terra di Mezzo, affinché i saggi consigli degli Eldar possano mitigare il mio carattere”.
“Se tale è il tuo volere figlio mio – rispose Gilnar – non mi opporrò. Parti dunque, e reca i miei saluti all’Alto Re dei Noldor, Gil-Galad, figlio di Fingon”.
Raggiante in volto, Erfëa si inchinò dinanzi al padre e non pronunziò più parola alcuna, ché i suoi pensieri erano volti alla partenza. Impaziente come lo sono solo tutti i giovani, prese a studiare le mappe e ogni altra pergamena fosse reperibile nella biblioteca paterna e che riguardasse la stirpe dei Primogeniti: avide, le sue mani accarezzavano i delicati rotoli racchiusi nei neri cilindri ornati di rune argentate, ché molto il suo cuore ambiva conoscere le nobili gesta della schiatta di Fëanor. Infine, allorché ogni cosa fu pronta, un vascello salpò da Númenor, recando a bordo Erfëa e Arthol[2], l’erede della casata del Mittalmar[3]. Grande amicizia era sorta tra i due giovani, ché erano fratelli nel sangue e nelle armi, essendo entrambi discendenti di Elros Tar-Minyatur e othar[4].

Lunghe settimane trascorsero, né alcun evento infausto turbò il viaggio dei Númenóreani alla volta dei lidi rocciosi della Terra di Mezzo. Infine, all’alba del quarantesimo giorno dacché essi avevano abbandonato Rómenna[5], il marinaio che era di vedetta lanciò un grido ed essi scorsero, remote all’orizzonte, alte vette la cui cima pareva sfiorare il cielo. Affascinato da tale visione, Erfëa avanzò fino alla poppa e da lì poté scorgere uccelli, le cui sembianze il giovane Númenóreano aveva scorto solo in antichi tomi polverosi, prendere vita innanzi a lui, sostenuti dalla leggera brezza che spirava da occidente.
Il cuore del Númenóreano fu colto da grande emozione, ché mai avrebbe immaginato che luoghi a lui così estranei gli sarebbero sembrati familiari come le contrade di Andor: il suo animo e quello dei suoi compagni, colmati di euforia, si accinsero ad effettuare i preparativi per lo sbarco. Allorché ogni manovra fu compiuta e lo sbarco prossimo, alcuni fra i marinai più anziani, i quali erano stati ricevuti in passato alla corte di Gil-Galad, così parlarono ai giovani passeggeri: “Non abbiate timore! Alti signori dei Noldor, la cui maestà è tale che nessuno fra noi potrebbe eguagliarne lo splendore dimorano in palazzi ricoperti d’oro ed argento; splendenti dame, le cui vesti leggiadre ondeggiano al ritmo di invisibili orchestre, allietano i banchetti che i magnanimi principi degli Eldar offrono a quanti di noi si recano presso le loro contrade”.
Sbarcati dalla nave, i Númenóreani furono accolti da Elfi avvolti in chiari abiti; costoro si inchinarono loro, suscitando negli uomini sorpresa e confusione. Nessun giovane trovò o seppe solo immaginare parole tali che potessero sembrare degne degli eredi di Fëanor: meschine e superflue, infatti, sembravano loro le cortesi espressioni apprese durante l’infanzia. Gli Elfi, tuttavia, non parvero notare l’imbarazzo dei Dúnedain, consapevoli di quanto provavano nei loro cuori i giovani principi.
Alte guardie, i cui usberghi in maglia splendevano alla luce del Sole, fecero loro segno di seguirli presso la reggia di Gil-Galad, ché costui era impaziente di farne la conoscenza. Nel momento in cui essi furono dinanzi al sovrano elfico, egli rivolse loro cortesi parole di benvenuto:
“Le nostre stirpi, Dúnedain, sono sorelle, ché esse hanno diviso le medesime pene, né è mai venuta meno l’alleanza che i vostri padri strinsero con i nostri sovrani, allorché il mondo era giovane e l’Oscuro Nemico opprimeva i nostri popoli. Sia dunque piacevole il vostro soggiorno nelle nostre dimore”. Terminato questo breve discorso, egli si rivolse ad ognuno di loro e con un cortese cenno del capo invitò i Númenóreani a prendere posto accanto a sé, ché era l’ora in cui gli Eldar erano soliti desinare.

In verità, sebbene i Dúnedain non avessero preso riposo dall’alba e fossero affamati, pochi fra loro riuscirono a mangiare: scarsa era l’attenzione che essi riservarono alle vivande riposte nei piatti d’argento, essendo i loro sguardi rivolti ai nobili signori e alle soavi dame che seduti al loro fianco. Erfëa, assorto dalla visione di simili Priminati, non pronunziò parola alcuna, né si mosse dal suo scranno finché non fu udito l’eco di una campana risuonare argentino. Lesti, i Signori degli Eldar si levarono allora dagli scranni ed invitarono i loro ospiti a seguirli in una vasta sala le cui finestre davano ad occidente; ivi si sedettero nuovamente e convocati bardi e menestrelli pregarono i Dúnedain di discorrere su quanto accadeva nell’Isola del Dono, ché, come riferì loro Gil-Galad, “ben poche erano divenute negli anni le visite degli eredi degli Edain alle aule dei Primogeniti”.
A turno, i giovani principi di Númenor si levarono in piedi e raccontarono le vicende delle proprie casate e di quanto accadeva nei loro possedimenti: assorto nell’ascolto di tali parole, Gil-Galad annuiva sovente e i suoi scribi annotavano su preziosi tomi ogni parola pronunciata dagli ospiti. Infine, dopo che molti ebbero parlato, Erfëa si levò dal suo scranno e si rivolse all’Alto Re dei Noldor con tali parole:
“Cosa vuoi che ti racconti, o re? Non dubito che i miei compagni abbiano rivelato alle tue orecchie quanto desideravi apprendere. Nessuna storia che narri le vicende degli uomini, tuttavia, mi pare adatta alle tue nobili sale, sicché io nulla dirò su tali eventi”.
Curiosa parve invero al figlio di Fingon tale risposta ed egli domandò al suo ospite cosa volesse narrare, ché era stato il solo fra gli ospiti a non pronunciare parola ed il sovrano era ansioso di ascoltarne la chiara voce. Erfëa, tuttavia, scosse il capo e formulò tale richiesta: “Mio signore, giungemmo da Númenor per apprendere la scienza elfica e tale fu la ragione che spinse il mio spirito ad imbarcarmi sul nostro vascello; vorrei, dunque, che fosse la vostra voce a narrare una storia dei tempi remoti, quando la Luna ed il Sole dormivano e l’Oscuro Nemico del Mondo tesseva le sue tele di inganno nel periglioso settentrione. Ben dicesti, infatti, allorché affermasti che rade sono divenute le visite di noi Dúnedain alla tua dimora, sicché io ti prego di narrarci quanto i nostri cuori hanno obliato”.
Mormorii di sorpresa si levarono da Elfi e dagli Uomini e molti si domandarono se le parole di Erfëa non fossero state troppo avventate; esse, tuttavia, piacquero al Signore dei Noldor, sicché egli raccontò ai suoi ospiti molte storie della Prima Era, le quali i Dúnedain avevano obliato o di cui nulla sapevano. Spentasi l’ultima nota del menestrello, Gil-Galad congedò i suoi ospiti con cortesi parole e si raccomandò ai suoi servitori affinché il loro riposo non fosse turbato da altro suono che non fosse quello dello stormire delle fronde degli alberi e dei canti che i Silvani[6] intonavano fino a tarda notte.
Rapidi trascorsero i giorni nella dimora di Gil-Galad ed Erfëa era lieto, ché gli Elfi gli mostravano grandi onori e sovente lo invitavano a disquisire di quanto aveva appreso. Gil-Galad si avvide che il giovane era lungimirante e sapiente quanto alcuni del suo popolo, pur non avendone la medesima saggezza, ché era sovente impetuoso e restio ad accettare consigli, a meno che questi non fossero ispirati da voleri simili al suo. L’alto sovrano dei Noldor molto si doleva dell’irrequietezza del suo pupillo; tuttavia, allorché il suo sguardo era colmo di sottile inquietudine, il suo araldo, Elrond il Mezzelfo, lo rincuorava, rimembrandogli che Erfëa era giovane e che presto sarebbero giunte anche per lui le prove che ne avrebbero forgiato l’animo. Gil-Galad allora annuiva e mostrava maggior indulgenza nei confronti del Númenóreano, seppure l’ombra della inquietudine non abbandonasse mai il suo spirito».

Note

[1] Il primo giorno dell’anno.

[2] Arthol, (Sindarin) “Nobile Elmo”.

[3] Contrada situata nell’entroterra di Númenor.

[4] Gli othar (scudieri in Quenya), presso i Númenóreani, erano quanti non avevano ancora raggiunto i gradi e l’esperienza dei cavalieri (Q. roqueni).

[5] Porto orientale di Númenor.

[6] Chiamati anche Moriquendi, costoro non avevano mai veduto la luce di Aman ed erano rimasti nella Terra di Mezzo, anziché seguire i loro congiunti a Valinor.

Infanzia di un paladino. Lontano dal mare…

Gli articoli pubblicati fino ad oggi si sono concentrati particolarmente sulla vita adulta di Erfea e degli altri protagonisti del Ciclo del Marinaio, portando alla luce, in qualche caso, alcuni episodi accaduti durante l’adolescenza di Erfea e di Miriel, in particolare in relazione al primo incontro tra questi due personaggi (che potrete leggere in Ombre sinistre su Numenor…). Molto poco, sino a questo momento, è stato rivelato sulla loro infanzia: in particolare, ci sfuggono le connessioni tra Erfea e i suoi genitori, sui quali credo di aver rivelato sino ad ora solo i nomi o poco più, e le circostanze che resero Erfea diverso dagli altri principi che frequentavano la scuola di Armenelos, riservata ai rampolli delle grandi famiglie nobiliari di Numenor.
L’infanzia, si sa, è un periodo molto complesso della nostra esistenza: senza dubbio ci capita di riflettere sulla sua potenza evocativa, capace di influenzare le nostre scelte e le nostre decisioni, anche a distanza di molti anni. Per alcuni personaggi, addirittura, ciò che è accaduto nell’infanzia si dimostra in grado di segnare profondamente la loro personalità e la loro esistenza per molti anni a venire, come succede, ad esempio, ad Harry Potter.
Erfea, naturalmente, non può sfuggire a questo meccanismo: anche la sua infanzia e la sua fanciullezza sono segnate da eventi fondamentali per la sua successiva maturazione e dall’incontro con personaggi in grado di lasciare nel suo animo un segno profondo, come avrete modo di capire leggendo questo nuovo articolo, che spero possa illuminarvi sulle ragioni che mi hanno indotto ad attribuirgli una titolazione così curiosa…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Gilnar era il ventiquattresimo signore dell’Hyarrostar[1], erede di Atanalcar, quarto figlio di Elros Tar-Minyatur[2], primo re di Númenor. Gilnar era un gran capitano di navi ed un valoroso paladino del partito dei Fedeli[3], coloro che si opponevano agli uomini del Re, adoratori della Morte, che temevano sopra ogni altra cosa. Al tempo in cui questi avvenimenti ebbero luogo, Gilnar aveva acquisito notevole fama: lungimiranti erano i suoi consigli, sicché non vi era Númenóreano che non onorasse la saggezza che gli proveniva dall’aver viaggiato molto nelle inesplorate contrade della Terra di Mezzo, il grande continente che si estendeva a levante dell’isola di Elenna[4]. Nobile era il suo sembiante, sicché perfino i suoi nemici non osavano contrastarlo apertamente e quanti erano della sua fazione ne ammiravano la ferrea volontà. La casata del sovrano di Elenna sosteneva le ambizioni di Gilnar, grata per le gesta che questi aveva compiuto allorché era giovane e vi era stata guerra e discordie fra Palantir[5] e suo fratello minore Gimilkhâd[6], eredi al trono di Númenor. Palantir, sostenuto dagli Elendili[7] e dal diritto di quella contrada, aveva ereditato il trono, nonostante i partigiani dell’infame congiunto gli si fossero rivoltatati contro; essi erano stati tuttavia sconfitti e banditi da Númenor.

Sangue era stato versato in quei giorni ormai remoti ed i cuori dei Dúnedain, seppure fossero trascorsi molti anni da tali eventi, non avevano obliato i massacri che i seguaci di Gimilkhâd avevano perpetrato ai loro danni, ché i nomi di tali sventurati erano stati mormorati nelle contrade che lo scettro degli eredi di Elros dominava. Molti paladini erano morti, trafitti non solo dal crudele ferro di mercenari senza scrupolo ma anche dalle armi dei propri congiunti: i figli trucidavano i padri e questi la loro progenie. Vani erano stati per lungo tempo i tentativi dei Fedeli di sconfiggere gli uomini di Gimilkhâd: costoro, infatti, erano sostenuti da molti signori e capitani discendenti da Elros ed avevano i forzieri ricolmi dell’oro e dell’argento che avevano strappato alle stirpi dei Secondogeniti stanziati all’Est e al Sud di Endor.

Al termine di numerosi scontri, infine, il valore dei Principi dei Fedeli aveva permesso a costoro di trionfare e di imprigionare coloro che si erano macchiati di crimini indicibili, quali solo gli Orchi allevati dall’Oscuro Potere sono soliti perpetrare. Gilnar e Amandil[8], signore della casata di Andúnië, discendente di Silmariel ed erede a sua volta di Elros, avevano esortato Tar-Palantir a condannare a morte il fratello Gimilkhâd, per tema che costui, se lasciato libero, avrebbe potuto assoggettare i regni degli Uomini in Endor e condurre contro Númenor orde di predoni. Il nuovo sovrano, tuttavia, non ebbe il coraggio di levare la mano contro colui che era un suo congiunto nel sangue, e lo condannò all’esilio perpetuo nella colonia di Umbar[9], sperando che si ravvedesse e che il suo destino non fosse segnato dai crimini di cui si era macchiato in gioventù. L’erede minore allo scettro di Númenor, tuttavia, radunò nuove armate con l’intenzione di riprendere la guerra. Un’imboscata tesagli da alcuni mercenari ribelli del Variag[10] impedì però che le ostilità avessero nuovamente inizio. I cuori dei Fedeli, allorché tale novella giunse a Númenor, presero ad esultare: essi, tuttavia, ignoravano che la consorte di Gimilkhâd era sopravvissuta e con lei suo figlio. All’interno delle fortezze edificate dai loro avi secoli prima, i Númenóreani Neri celarono l’erede del fratello minore di Tar-Palantir alla sorveglianza delle schiere dei Fedeli, nell’attesa che i tempi fossero maturi per la vendetta.

Molti anni prima della morte di Gimilkhâd, quando il padre, Ar-Gimilzôr, era ancora il sovrano di Andor[11] e i seguaci dei Valar e degli Eldar invisi ai suoi mercenari e guerrieri, profondi erano i legami che intercorrevano fra i Signori di Andustar[12] e dell’Hyarrostar. Entrambi, infatti, servivano la medesima causa, sebbene Gilnar fosse più audace e risoluto nell’opposizione al sovrano di quanto non lo fosse Numendil, padre di Amandil. Questi aveva una sorella minore, chiamata Nimrilien, ché sovente era abbigliata di vesti bianche e sembrava, a coloro che dal mare la vedevano ergersi, durante le tempeste invernali, simile ad un faro nell’oscurità incipiente. Nimrilien volse il suo pensiero al principe dell’Hyarrostar, e Numendil era lieto per tale sentimento: non avrebbe desiderato, infatti, un cognato migliore di Gilnar, ammiraglio di Númenor. Erano trascorsi dodici anni[13] dacché Ar-Gimilzôr[14] era asceso al trono, allorché la bianca dama di Andúnië diede alla luce un maschio, nelle cui vene scorreva il sangue di Elros. Lieta, la donna consegnò l’infante al congiunto affinché lo chiamasse e lo accettasse all’interno della famiglia, secondo la tradizione e la legge di Elenna. “Mio figlio sarà principe dell’Hyarrostar e del mare – queste furono le parole che Gilnar pronunciò – del quale Ossë[15] ha consentito a noi Secondogeniti di solcare le vaste profondità. Eärél sarà dunque il suo nome, ché egli sarà invero un grande ammiraglio e oserà esplorare contrade che i Dúnedain mai hanno percorso con le loro leste imbarcazioni”.

I Signori di Andúnië recarono visita ai loro congiunti, esprimendo grande letizia per la nascita dell’erede di Gilnar; i Noldor di Gil-Galad colmarono il bimbo di doni preziosi e si rallegrarono della nascita del principe númenóreano: per ultima, giunse colei che i mortali chiamavano Manëa La Veggente[16]. Alcuni mormoravano che la donna fosse araldo dei Valar del remoto occidente, ché sapeva scrutare nei cuori degli Uomini e la sua sapienza era pari solo alla sua saggezza. La veggente, preso il bambino tra le anziane ma ancora vigorose braccia, lo guardò sorpreso, sicché tutti coloro che erano nella sala del palazzo di Minas Laurë[17] osservarono, angosciati, il suo viso oscurarsi. Infine, dopo aver riposto delicatamente l’erede di Gilnar nella sua culla, sospirò e pronunciò tali parole: “Signori di Númenor, mai mi era capitato, nel corso della mia lunga esistenza, di guardare un simile bambino. Eärél è stato chiamato, eppure sappi, Gilnar figlio di Nardil, che egli muterà il suo nome allorché giungerà l’ora. Il destino di tuo figlio sarà solitario e si concluderà in terra straniera: non si vincolerà a nessuna mortale o immortale, a meno che non deciderà di abbandonare il percorso che gli eventi cui sarà partecipe lo costringeranno a seguire”.

Inquieti, i volti di Gilnar e di Nimrilien osservarono in silenzio la Veggente; infine, la dama dell’Andúnië parlò e la sua voce era rosa dal dubbio e dal timore: “Vuoi forse dire che il nostro primogenito avrà una vita travagliata? Non domandavo per mio figlio ricchezze o vita lunga; eppure, il mio cuore piange presagendo quali conseguenze avranno le parole da te pronunciate”.

Il volto di Manëa rimase impassibile, come le rocce rese impenetrabili alla salsedine del mare: “Non temere Figlia di Andúnië, ché egli è destinato a grandi imprese e se il suo cuore resterà saldo, acquisterà grande fama tra le Genti Libere di Endor ed il suo nome non sarà obliato”.

La veggente si inchinò lentamente e afferrata la sua bianca verga si accinse ad abbandonare la sala; giunta, tuttavia, alla soglia della porta, si voltò e parlò ancora una volta: “Colui che ora dorme nella culla vivrà a lungo e la sua vita si spegnerà a tarda età: se la sorte non gli sarà contraria, solo Elros Tar-Minyatur avrà avuto un’esistenza più lunga della sua. Amerà, signora di Andúnië e sarà a sua volta amato. Se dolorosa sembrerà a tuo figlio la separazione allorché giungerà l’ora, sappiate che non perderà quanto sarà caro ai suoi occhi, ché il destino dei Figli Minori di Ilúvatar si compie al di fuori del mondo: i mortali, tuttavia, non lo comprendono, mentre coloro che sono degli Eldar lo ignorano. Ho parlato”.

Nessuno fra i presenti osò sovrapporre la propria voce a quella di Manëa: essi, infatti, pur onorandola, la temevano, ché, sebbene avesse sembiante umano, pure percepivano che non era della stirpe dei Figli di Ilúvatar e che aveva assunto tale aspetto solo per confondersi fra loro.

Gli ospiti, al termine dei festeggiamenti, abbandonarono la dimora di Gilnar, recandosi ciascuno nei propri domini: negli anni seguenti serbarono nel proprio cuore il ricordo di quanto era avvenuto quella notte, consapevoli che se il sovrano o uno dei suoi vassalli avesse appreso la profezia, non avrebbe esitato a sopprimere il figlio di Gilnar. Trascorsero dunque dieci lunghi anni, ed Eärél crebbe forte e vigoroso nel corpo e nella mente, sebbene parlasse poco e le sue parole fossero oscurate da una ombra di pallida malinconia. Stupiti, i suoi genitori lo vedevano parlare sovente con i gli anziani che avevano dimora nella città di Minas Laurë: Eärél, infatti, aveva un animo curioso ed era ansioso di conoscere le leggende ed i racconti che il suo popolo aveva tramandato; nelle ore serali consultava i manoscritti e le pergamene che giacevano nelle grandi e silenziose sale sotterranee di Minas Laurë.

Gilnar, suo malgrado, si avvide che il primogenito non volgeva quasi mai lo sguardo al mare: se i suoi occhi grigi si soffermavano per qualche istante sulle tumultuose onde che si abbattevano fragorosamente sulle sponde rocciose dell’Hyarrostar, ne restavano turbati. Ben presto, in cuor suo, Gilnar si rese conto che le parole pronunciate anni prima da Manëa si erano mostrate veritiere e che mai il suo erede si sarebbe dimostrato un esperto marinaio.

Grande fu dunque la sorpresa che Gilnar nutrì, allorché scorse il figlio avvicinarsi ai possenti stalloni che aveva ricevuto pochi giorni prima come dono da parte dei popoli della Terra di Mezzo. Eärél non sembrava mostrare alcun timore e le bestie lo lasciavano avvicinare al loro chiaro pelame, mostrando di gradire i suoi affettuosi buffetti.

Stupefatto, il Signore dell’Hyarrostar condusse l’erede da colui che un tempo era stato il suo scudiero, Manveru[18], perché gli insegnasse quanto era nelle sue conoscenze riguardo ai figli di Oromë[19]. Eärél trascorse molte ore nei boschi e nelle praterie battute dal soffio di Manwë[20], mentre il suo maestro lo istruiva, meravigliandosi che un Númenóreano si mostrasse abile nell’apprendere esercizi che i Dunédain comprendevano a fatica, essendo per lo più i loro cuori rivolti al mare e non ai destrieri delle contrade settentrionali.

Da mane a sera, il figlio di Gilnar apprendeva i rudimenti dell’arte di cavalcare e Manveru, ancorché fosse anziano e la sua vista era venuta meno, nutriva nel suo cuore soddisfazione per quanto il suo allievo mostrava di imparare e non mancò di farlo notare al suo Signore. Non meno stupito di quanto non lo fosse l’anziano scudiero, Gilnar si mostrava compiaciuto, ché ben si avvedeva quanto abile fosse Eärél ed era orgoglioso di un simile erede.

Trascorsero gli anni ed il giovane principe dell’Hyarrostar prese a frequentare le lezioni dei precettori reali ad Armenelos[21], capitale di Númenor. L’animo del giovane principe era colmo di meraviglia: l’arte e la scienza dei Númenóreani erano allora all’apice delle loro vette e non esistevano palazzi sì imponenti come quelli che si ergevano lungo i viali della capitale di Andor. Eärél mostrava grande interesse per ogni forma vivente di Arda e studiava i tomi che gli eruditi del suo popolo avevano scritto centinaia di anni prima sulle bestie del cielo e della terra di Endor a loro note. Sovente, allorché i suoi compagni giacevano nei loro dorati giacigli, egli afferrava un antico lume e si recava nella biblioteca di Armenelos, ove i suoi occhi, intenti a decifrare le antiche scritture dei savi, non conoscevano riposo.

Dell’interesse del giovane Eärél per le creature di Yavanna si è detto, eppure esso era superato da quello verso le antiche tradizioni e storie del suo popolo. Il principe dell’Hyarrostar sfogliava avidamente tomi polverosi, di cui nessuno ricordava più l’esistenza, sfiorandone delicatamente la superficie. Eärél considerava tali cimeli simili a tesori e si rammaricava che le biblioteche reali conservassero pochi scritti sulle stirpi di uomini che abitavano le contrade della Terra di Mezzo; per tale ragione, dunque, crebbe nell’animo del Númenóreano l’amore per le vaste distese che si estendevano al di là del mare a oriente ed il suo animo fu preso dal desiderio di esplorarle.

I precettori reali, ai quali non era sfuggito la passione che il loro allievo dimostrava nello studio di tali discipline, pur nutrendo nel loro animo incredulità, non osavano mostrarla apertamente, per tema di incorrere nell’ira del sovrano o di uno dei suoi vassalli. La schiatta dell’Hyarrostar, infatti, era invisa ad Ar-Gimilzôr, perché lo contrastava apertamente; sovente, il silenzio era l’unica risposta che tali uomini fornivano ad Eärél. All’indifferenza fece presto seguito l’ostilità: gli altri allievi, rampolli delle stirpi del Forostar, dell’Orrostar e dell’Hyarnustar[22], presero a chiamarlo Erfëa, che nella lingua degli Eldar significa “spirito solitario”, giacché egli aveva preso l’abitudine di trascorrere molto tempo lontano da loro, ignorando le crudeli risa che gli altri principi riversavano sul suo conto e poco o punto curandosi dell’odio che muoveva i loro animi ad agire in tale modo. I rampolli dei vassalli di Ar-Gimilzôr, infatti, temevano il figlio di Gilnar e ne invidiavano la saggezza e la lungimiranza che, in maniera precoce, si erano rivelate in lui».

Note

[1] Regione di Númenor, posta a Sud Est: la sua capitale era Minas Laurë, la Torre Dorata.

[2] Figlio di Eärendil ed Elwing, fratello gemello di Elrond; scelse una vita mortale e divenne il primo sovrano di Númenor.

[3] Le genti númenóreane che si mantennero fedeli all’amicizia con gli Elfi e che continuarono a venerare i Valar anche quando tale devozione fu dichiarata fuori legge.

[4] Altro nome dell’isola di Númenor, “Terra della Stella” nella lingua degli Eldar.

[5] Tar-Palantir, ventiquattresimo sovrano di Númenor e figlio di Ar-Gimilzôr.

[6] Fratello di Tar-Palantir e capitano della fazione dei Númenóreani Neri: morì durante un’imboscata tesagli dai Variag del Khand nel 3175 S. E.

[7] “Amici degli Elfi” nella lingua dei Noldor.

[8] Figlio di Numendil, fu signore di Andúnië e Sovrintendente del Regno fino alla sua dipartita dal mondo, la quale, in mancanza di testimoni oculari – ché egli si era recato all’Ovest per chiedere grazia per la sua gente – si ritiene avvenuta nel 3319 della S. E., l’anno della Caduta di Númenor.

[9] Roccaforte degli uomini del Re, e in seguito, dei Númenóreani Neri, fu edificata presso l’omonimo promontorio da alcuni coloni nell’anno 2280 S. E.

[10] Landa desertica situata a Sud di Mordor, ove erano stanziate tribù bellicose e superstiziose di uomini dell’Est; alcuni credono che costoro siano i discendenti degli Orientali che servirono sotto Morgoth e che sopravvissero alla rovina del Beleriand.

[11] “Terra di Dono”, (Númenor).

[12] Contrada situata all’interno del grande golfo che i promontori dell’Orrostar e dell’Hyarnustar creavano nelle acque del Balegaer (il Grande Mare Occidentale) prende il nome dall’omonima città: feudo degli eredi di Silmariel, primogenita di Tar-Elendil, quarto sovrano di Númenor, l’Andustar fu la dimora di molte genti fedeli agli Eldar e ai Valar.

[13] Si era dunque nell’anno 3112 S. E.

[14] Ar-Gimilzôr, ventitreesimo sovrano di Númenor, nacque nel 2960 S. E. e morì nel 3177 S. E.: perseguitò a lungo i Fedeli e proibì che costoro adoperassero le lingue elfiche.

[15] Uno spirito che entrò in Arda (il Mondo) allorché esso fu creato; seguace e servitore di Ulmo, Vala e Signore delle Acque.

[16] Veggente ed astronoma, Manëa predisse le sorti di numerosi uomini e donne di Númenor, compresa quella di Erfëa Morluin. Nessuno, tuttavia, fu in grado di apprendere il suo vero nome o la sua ascendenza ed ella era solita ripetere che non vi erano favelle atte a pronunciarlo. Sebbene in altri scritti si accenni ad una sua dipartita dal mondo, nessuno conobbe il luogo ove fu sepolta. Secondo interpretazioni postume, Manëa sarebbe stata l’incarnazione di Varda, Valië e Signora delle Stelle: non tutti, però, credettero a questa rivelazione, ed il suo nome fu obliato al termine della Seconda Era.

[17] Capitale dell’Hyarrostar e dimora degli eredi di Atanalcar.

[18] È curioso che il nome di quest’uomo sia espresso in Quenya, anziché in una delle lingue degli uomini del Nord, alle quali stirpi egli apparteneva; è tuttavia probabile che costui abbia fatto proprio l’appellativo con il quale lo chiamava il suo signore, adoperandolo come fosse un nome proprio. In base ad una nota riportata in calce al manoscritto, sembra che il suo vero nome sia stato “Ridderman”, “(Colui che) Doma il Cavallo”.

[19] Oromë, Vala e Signore dei Cavalli; presso gli uomini del Nord era anche noto come Bema.

[20] Manwë Súlimo, Vala Reggente di Arda e Signore del Cielo.

[21] Capitale di Númenor e dimora degli eredi maggiori di Elros.

[22] Forostar, Orrostar e Hyarnustar erano i nomi di alcune contrade di Númenor: la prima si trovava nel Nord, la seconda nel Nord-Ovest e la terza nel Sud-Ovest del Paese.

Uccidete Miriel! Complotto a Numenor

Prosegue in questo articolo la narrazione, iniziata nell’articolo Ombre sinistre su Numenor…, del complotto che mira ad eliminare Miriel, figlia di Tar-Palantir, erede al trono di Numenor. L’unico che potrebbe salvarla, tuttavia, è anche lo stesso uomo che nutre per lei sentimenti contrastanti e che è stato avvinto, a causa della suo rancore e della sua ingenuità, all’interno di una rete dalla quale potrà districarsi solo a costo di grandi sacrifici. Vi presento così la conclusione di un racconto che vede svilupparsi un rito di passaggio traumatico, dall’adolescenza alla maturità, di un giovane Erfea, per il quale la vita non sarà mai più la stessa…e un sentimento che avrebbe potuto crescere e rafforzarsi cessa bruscamente di vivere. Per la scrittura di questo racconto mi sono ispirato alle opere storiche classiche romane, soprattutto a quella scritta da Tito Livio, dal titolo «Ab Urbe Condita libri», ossia «Storia di Roma dalla sua Fondazione».

Colgo qui l’occasione per ringraziare tutti coloro che dedicano qualche minuto della loro giornata a leggere e commentare le storie del «Ciclo del Marinaio»…grazie di cuore, i vostri apprezzamenti e le vostre osservazioni sono indispensabili nel mio percorso di crescita umana e professionale!

Buona lettura!

«Giunse infine il giorno del suo compleanno; egli era inquieto, e sovente teneva il capo basso perché, sebbene le pietanze fossero gustose ed il vino odoroso di resina e di fiori dell’estate, pure non scorgeva Miriel. Solo quando l’araldo pronunciò il nome della sua amica egli, senza badare altri ospiti, balzò in piedi e porse un calice d’argento alla principessa. Rapide, le loro dita si incrociarono ed Erfëa le avvertì al tatto calde ed umide, come se Miriel fosse in preda a grande sgomento e paura; pure, luminosi erano i suoi occhi e la sua voce riecheggiava cristallina fra le volte di pietra che si ergevano sopra i loro capi. Miriel portava ancora la maschera che aveva indossato allorché l’aveva mirata la prima volta, tuttavia il suo sembiante era splendido, ché era esile come un giunco e alta come le fanciulle elfiche che Erfëa aveva incontrato nei suoi viaggi ad oriente. Lesta, la mano del giovane intrecciò quella di lei allorché i menestrelli presero a suonare ed essi ballarono per molte ore, appagati l’uno della compagnia dell’altro. Gli altri ospiti si rallegrarono dell’affettuoso legame che era sorto tra il figlio di Gilnar e la figlia di Palantir, ché erano degni l’uno del sentimento dell’altra. Infine, allorché furono troppo esausti per danzare ancora, Miriel condusse Erfëa dinanzi alla tavola imbandita di doni e lo pregò di scegliere quello che il suo cuore avesse gradito maggiormente: incuriosito e divertito da tale proposta, il principe di Númenor scosse il capo e negò che vi fosse un dono che il suo animo desiderasse sopra ogni altra cosa. Per tre volte Miriel domandò ad Erfëa cosa volesse e per tre volte il capitano di Númenor scosse il capo. La giovane allora sorrise compiaciuta ed estratto un lungo fodero da una preziosa custodia in pelle, lo porse ad Erfëa, mentre con l’altra mano afferrò un calice e lo levò in alto: “Possa essere il fato benigno con te – gli augurò – permettendoti di ottenere ogni cosa il tuo cuore desideri. Infatti – concluse ridendo – dev’essere qualcosa di veramente prezioso, dal momento che hai rifiutato ogni dono volessi offrirti questa sera”. “Amica mia – rispose divertito Erfëa – nessuna lama potrebbe sperare di essere riposta in un fodero migliore di quello che tu mi offri; eppure, questo sarebbe un dono per Sulring, non per me”.

“E cosa desidererebbe il capitano di Númenor che io possa offrirgli? – replicò Miriel sorridendo – Egli è un uomo ormai e non dovrebbe temere alcuna paura: mostri a Miriel quanto desidera, ché ella possa scusarsi con lui per non avergli donato alcunché”.

1Lesto, prima che la principessa di Númenor potesse fuggire, Erfëa la cinse nelle sue braccia: ella restò lì, come un usignolo che l’abile laccio del cacciatore abbia stretto nella sua morsa. Rapide le labbra del principe si posarono su quelle di Miriel ed ella infine cedette; lenta, cadde la sua maschera e rivolse il suo volto ad Erfëa, il quale l’osservò stupito. Il figlio di Gilnar non riuscì a distogliere il suo sguardo dal volto che aveva innanzi e che aveva disperato di ritrovare. Miriel era in verità Eärien, la fanciulla che un tempo aveva scorto nei giardini di Armenelos: rabbia e desiderio lo presero ed Erfëa la scorse, ormai donna, ergersi dinanzi a lui. Sconvolto, il principe arretrò di un passo e tenne il suo sguardo su di lei, finché ella non chinò il capo e mormorò amare parole:

“Temevo che sarebbe giunto questo giorno, nel quale avrei assaporato il dolce e l’amaro allo stesso tempo; colmi di vergogna sono questi miei occhi, ché essi, a lungo occultati dall’inganno e dalla paura, tennero nascosta la mia identità”. Sospirò un attimo, indi mormorò: “Sei irato, Erfëa, figlio di Gilnar, questo lo vedo bene. Se ti ho nascosto la mia identità, però, l’ho fatto per tema che il tuo sentimento nei miei confronti fosse viziato dalla notorietà del mio lignaggio. Avviene sovente che molti dolori debba conoscere il nostro animo, affinché essi possano scongiurare sventure ben più grandi e terribili”.

Livido era il volto di Erfëa e freddo il suo tono allorché egli trovò la forza per risponderle: “Sia egli un umile pescatore, un facoltoso mercante o un signore dal glorioso lignaggio, chiunque manifesti tanta viltà da temere di rivelare la propria identità agli altri, dimostra ancor più infamia nei propri riguardi e in quelli della propria stirpe. Non ti domando alcun pentimento ché esso sarebbe falso, se a pronunciarlo fosse la tua lingua maliziosa, né pronunzierò alcuna parola contro il tuo lignaggio, verso il quale nutro maggior amore rispetto a quanto nutre l’erede. Grave atto è, infatti, dire il falso, anche quando i nostri cuori sono incapaci di distinguerlo dal vero”. Ciò detto, Miriel abbandonò la dimora di Erfëa, né ella sembrava pentita per il suo gesto, ché il suo sguardo era limpido e a lungo sostenne il suo prima di allontanarsi.

Colmo d’ira e di rancore, Erfëa non si mostrò più sorridente ai suoi ospiti quella sera e nei giorni successivi evitò i contatti con la sua gente. Poche erano le parole che egli pronunciò in quei giorni ed esse erano dettate dall’ira e dal dolore, sicché gli altri presero ad evitarlo, timorosi di incorrere nella sua ira. Le voci del dissidio avvenuto fra i due giovani giunsero ad Akhôrahil, ché egli aveva spie ovunque ed erano poche le notizie che sfuggivano al suo udito. Allorché, dunque, il Nazgûl si avvide del rancore che il figlio di Gilnar provava nei confronti della figlia di Palantir, ne gioì, ché gli parve essere alla sua mercè; si rivolse dunque a Gilmor, dei cui favori aveva goduto, affinché seducesse Erfëa ed alimentasse l’odio che nutriva per colei che un giorno sarebbe divenuta regina.

Erfëa, provato dal dolore e dal desiderio per la donna a lungo amata, cedette alle lusinghe della principessa del Mittalmar: Gilmor, infatti, era graziosa ed abile nell’occultare i suoi inganni. Arthol, tuttavia, era riluttante a concedere la mano della sorella all’amico di un tempo: egli, infatti, diffidava di Gilmor, perché temeva che avrebbe rivelato ogni cosa al suo amante. Fu proprio questa esitazione, tuttavia, a provocare la sua rovina: Erfëa, infatti, non comprendeva per quale motivo Arthol fosse contrario all’unione con la sorella. Il timore nacque allora nel suo cuore, sebbene indugiasse e non osasse confessare ad alcuno le sue inquietudini.

Allorché erano trascorsi alcuni mesi da che giacque con Gilmor, Erfëa la scorse, non veduto, dialogare con Akhôrahil e con un’altra donna che si ergeva accanto a lui; bella era, eppure il suo sembiante e quello del suo compagno sembravano nascosti da un velo di oscurità. Una pesante cappa pendeva sulle sue spalle e sul suo capo era posto un rosso diadema, che rifulgeva di un sinistro bagliore. Erfëa provò una grande paura nel guardarla ed il suo cuore tremò. Attese alcuni istanti, indeciso sul da farsi: infine, un quarto individuo, anch’egli sconosciuto al figlio di Gilnar si aggregò al terzetto. Erfëa vide con orrore Gilmor accasciarsi, come se un grande male fosse piombato su di lei: il suo cuore fu allora raggelato dalla paura, sicché non poté che accostare le sue mani alle tempie, mentre il suo respiro diveniva affannoso. Nelle atroci convulsioni che seguirono a tale visione, le sue tremanti mani sfiorarono l’elsa di Sulring e nuova forza fluì nelle sue vene, sicché riaprì gli occhi e gli parve che una grande ombra si fosse allontanata dal suo sembiante. Erfëa non poteva saperlo, eppure l’uomo che aveva colmato di paura il suo cuore, altri non era che Er-Mûrazôr, il Signore dei Nazgûl, il più potente fra quanti servirono Sauron. Molti secoli erano trascorsi dacché aveva calcato con i suoi neri stivali le strade lastricate di Armenelos ed egli giungeva in quella che un tempo era stata la sua terra natia perché inviato colà dal suo oscuro padrone.

A lungo si intrattennero le tre figure con Gilmor ed essi appresero molto dalla sventurata fanciulla; questa non osò mai mirarne i volti, ché altrimenti la follia si sarebbe impadronita della sua mente e avrebbe perso il senno. Infine, rapidi com’erano giunti, essi si allontanarono svanendo nell’ombra. Erfëa allora la raggiunse e le domandò chi fossero; Gilmor, tuttavia, non rispose ad alcuna delle sue domande e gli antichi timori che erano sorti nel cuore del figlio di Gilnar, presero a destarsi nuovamente. Nei giorni successivi egli prese a sorvegliare la donna, sebbene osasse ancora sperare che non vi fosse alcun inganno: grande dolore l’avrebbe tuttavia colto, se egli fosse venuto a conoscenza della congiura che Arthol era intento a organizzare. L’atteggiamento di Gilmor nei confronti di Erfëa mutò: le macchinazioni del fratello erano ormai giunte a maturazione, sicché freddo divenne il suo letto e di rado il suo sguardo incrociò quello di Erfëa. Nei rari momenti in cui accettava di vederlo, la donna dissimulava ogni cosa: dopo qualche tempo, convinta che il figlio di Gilnar avesse abbandonato ogni sorta di sospetto su di lei, iniziò a mostrarsi meno cauta.

Una notte di Narquelië[1], dunque, Gilmor dimenticò di inviare messaggi ad Erfëa affinché non la raggiungesse: era, infatti, giunta l’ora in cui i congiuranti avrebbero dovuto prendere accordi per compiere l’efferato delitto. Ignaro di ciò, il principe dello Hyarrostar giunse alla sua dimora e trovatala vuota e silenziosa, si insospettì. Gli abitanti della casa, interrogati sull’assenza della padrona, non seppero rispondere, perché erano tenuti all’oscuro di tutta la vicenda. Stanco, Erfëa prese la decisione di abbandonare la dimora della sua amante: fu solo allora, mentre sostava dinanzi all’uscio perso nei suoi pensieri, che lo sguardo cadde su un piccolo astuccio appoggiato su un’alcova nei pressi dell’ingresso. Incuriosito, lo aprì, trovandovi all’interno un anello e una pergamena, sulla quale erano iscritte le seguenti parole:

“Colui che affiderà tale missiva ti rivelerà il mio nome; attendimi alla terza ora della notte.”

L’animo di Erfëa, divenne allora inquieto, ché ignota gli era quella grafia e non conosceva il mittente di tale messaggio. Messa da parte per un attimo la missiva, esaminò l’anello, sperando di ottenere da questo altre informazioni. La superficie dell’anello era liscia, interrotta solo da un rubino, incastonato sul lato esterno; era freddo al tatto, come se fosse stato forgiato nel ghiaccio. Il corridoio era avvolto nella penombra, sicché il giovane avvicinò l’anello alla tremula luce di una lampada. L’anello non rifulse di alcuna luce, ma parve assorbire al suo interno quella emanata dalla torcia. Era l’anello di un uomo, a giudicare dalla sua grandezza: rischiarato dalla torcia sembrò perdere parte del suo fascino misterioso mostrato poco prima. Erfëa lo esaminò a lungo senza trovarvi segno o incisione: nella sua mano l’anello aveva preso a riscaldarsi, perdendo la freddezza iniziale. Monili simili giacevano nei forzieri di molti nobili numenoreani; Erfëa l’avrebbe sicuramente abbandonato, se non fosse stato attratto dal singolare taglio che l’incisore aveva attribuito alla pietra che lo ornava. La sua sagoma romboidale, infatti, riportava alla memoria del principe ricordi confusi ai quali, tuttavia, non sapeva attribuire alcun nome. Indeciso se appropriarsi o meno di un oggetto che non gli apparteneva, fu spinto al furto a causa del sentore di passi lungo il corridoio. Impaurito, il giovane si rifugiò all’interno di una sala il cui ingresso era situato a pochi passi dall’ingresso. La curiosità, tuttavia, fu più forte di qualsiasi paura e, lasciato l’uscio un poco aperto, Erfëa osservò quanto accadde nel corridoio. Due figure, avvolte strettamente nei loro scuri manti, avevano sollevato un pesante arazzo che copriva tutta la parete opposta alla stanza nella quale aveva trovato rifugio. Una di esse alzò una leva, prima nascosta, e svelò l’ingresso di un uscio segreto. Le figure scomparvero all’interno dell’oscuro antro: la seconda sostò sulla soglia, reggendo con entrambe le mani l’arazzo, mentre l’altra, armata di una torcia, la precedeva nell’oscurità. Quando fu certa che il suo compagno si era profondamente inoltrato nei segreti meandri della casa, la figura restata sulla soglia lasciò cadere l’arazzo e rinchiuse il pannello dall’interno, scomparendo alla vista di Erfëa. Il figlio di Gilnar attese alcuni istanti, infine si avvicinò alla parete, avendo cura di ripetere gli stessi gesti compiuti da quanti l’avevano preceduto: aperto cautamente l’uscio, egli discese umidi scalini, immerso nella tenebra e nel silenzio; infine, giunse in un profondo cunicolo ed ivi ascoltò l’eco di voci irate levarsi nell’aria. Proseguì, sebbene il suo cuore fosse riluttante ad addentrarsi in un simile luogo, ché non vi era luce che potesse rischiararne gli oscuri anfratti, né i suoi occhi riuscivano a scorgere quanto accadeva.

Dopo aver percorso il cunicolo, egli giunse dinanzi ad una massiccia porta a due battenti, oltre la quale gli parve di ascoltare numerose voci, molte delle quali in preda a furente collera; infine, fra quelle si levò una che Erfëa riconobbe con chiarezza:

“Principi e dame di Númenor, prossima è l’ora in cui le sale della reggia saranno colme del fetore della morte! Pianti e urla saranno versati sui corpi di quanti calpestarono la nostra dignità, ignorando quanti, pur essendo del loro stesso lignaggio, non ritennero degni di considerazione.

Se vi è alcuno fra voi il cui nerbo sia troppo fragile o la cui mano sia priva di forza, sappia che maggiori saranno i premi per coloro che, ribellatasi alla stirpe di Elros, sapranno colpire ove altri si dimostrarono codardi.

Un giuramento di sangue stringeremo questa notte e, affinché esso possa restare impresso nella mente di ciascuno e tenere vincolati i cuori di coloro che ancora esitano, fluisca nelle vene di voi tutti!”

L’oratore altri non era che Arthol; pure, se Erfëa avesse potuto scorgere con i suoi occhi quanto accadeva nella sala, avrebbe mostrato grande incredulità mista ad orrore, ché vennero coppieri ed essi versarono nei calici dei presenti un liquido scuro e viscido, che molti, in seguito, non esitarono a definire sangue. Nessuna voce si levò per contrastare la follia del principe del Mittalmar, né alcuno rifiutò di stringere quel folle giuramento; rapidi, i cospiratori sguainarono i pugnali, la cui lama era intinta di letale veleno ed abbandonarono la sala, uscendo da un segreto pertugio occultato dagli arazzi che ivi si trovavano.

Sgomento, Erfëa risalì il pertugio segreto e attese che la casa fosse nuovamente silenziosa; non appena gli fu chiaro che i cospiratori si erano allontanati, afferrò le briglie del suo destriero e, con il cuore colmo di paura, lo condusse alla dimora di Palantir.

I servi del principe reale, meravigliati da quella visita notturna, esitarono dinanzi alla richiesta di Erfëa di aprirgli le porte e condurlo dal suo signore. Infine, mossi dalle sue accorate parole, gli fecero strada attraverso l’ampia dimora, sino alla camera di Palantir. Non appena fu introdotto al suo interno, il figlio di Gilnar lo trovò intento a decifrare antiche scritture delle quali punto o poco si curavano gli alti dignitari di Ar-Gimilzôr. Erfëa non pronunciò parole; il suo volto, tuttavia, era turbato e Palantir, sollevato lo sguardo dalle sue carte, credette di comprenderne il motivo. Non lo salutò, né lo invitò a prendere posto accanto a sé; con un greve cenno del capo, lo invitò a seguirlo in una piccola stanza attigua, ove nessuno li avrebbe disturbati. Il principe dello Hyarrostar lo seguì, e il suo sguardo non osò incrociare quello di Palantir. I servi erano andati via sin da quando Erfëa aveva fatto il suo ingresso nello studio del figlio di Ar-Gimilzôr; eppure, mentre abbandonava la biblioteca, gli parve di scorgere, per un istante, la bionda capigliatura di Miriel svanire dietro l’uscio della porta di ingresso a quella.

Palantir attese che il giovane principe fosse entrato all’interno della saletta; infine, rinchiusa la sala, lo invitò a sedere dinanzi a lui. I due uomini si osservarono per alcuni momenti: severo ed impassibile era lo sguardo del principe reale, ché, sebbene la figlia non gli avesse rivelato alcunché di quanto era accaduto in passato, pure era lungimirante e scorgeva molti dei segreti che gli uomini celano nei loro animi. Il suo cuore, tuttavia, fu mosso a pietà, perché nessuna luce brillava negli occhi del giovane. Erfëa pareva assente, quasi che le sue forze si fossero esaurite in quella folla cavalcata che l’aveva condotto dinanzi al futuro sovrano di Númenor. Solo il petto, sollevandosi e abbassandosi ad ogni suo respiro, permetteva al suo anfitrione di riconoscerlo per creatura vivente. Palantir sospirò, eppure non pronunciava ancora parola; afferrata una brocca situata al suo fianco, versò un liquido, denso e ambrato, in un calice che offrì al giovane. Questi, presa la coppa fra le dita, l’avvicinò alle fredde labbra e, inghiottito qualche sorso, parve riprendere forza sufficiente per poter parlare.

“Non ti nasconderò, o re, che in questa ora buia desidererei non essere venuto al mondo o almeno non essere mai stato strappato dal ventre della madre mia; eppure, poiché il tempo stringe, vengo a raccontarti il motivo di questa mia inaspettata visita”.

“Inaspettata, dici? Forse è così – rispose turbato Palantir – eppure, sai bene che non saresti mai riuscito a sottrarti a questo incontro, figlio di Gilnar, neppure se tu fossi stato più cauto e saggio di quanto l’ardore giovanile non permette di esserlo. In tal caso, tuttavia – aggiunse levandosi dallo scranno e avvicinandosi allo scranno ove l’ospite sedeva – non è a me che dovresti rivolgerti, bensì a colei che hai offeso”.

Nulla rispose Erfëa e per un istante parve che egli stesse per abbandonare il suo scranno; infine parlò, e la sua voce, dapprima roca e bassa, crebbe di intensità man mano che egli narrava quanto era accaduto; non un particolare fu tralasciato, nessun nome fu occultato. Al termine delle sue rivelazioni il giovane principe versò lacrime amare, non riuscendo a tollerare la delusione e lo sconforto causati dalle sue colpe.

A lungo tacque Palantir, sopraffatto da quanto aveva appreso: alla rabbia, suscitata dalla colpa del giovane Dúnedan, si aggiungeva ora la preoccupazione per la sorte sua, della figlia e dell’intero regno. Il suo cuore, tuttavia, era più pronto al perdono di quanto non lo fossero i suoi pensieri: si avvide che le parole di Erfëa erano prive di menzogna e che il suo pentimento era sincero:

“Innumerevoli sono i dolori che patiscono gli Uomini e, sovente, a nulla valgono le parole consolatrici ed i saggi ammonimenti. Questo, tuttavia, è il destino dei Secondogeniti: soffrire per espiare le colpe commesse, perché, se forti ed orgogliosi appaiono i loro spiriti, deboli sono invece i corpi in cui dimorano.

Grande colpa hai commesso, Erfëa, figlio di Gilnar; io credo, tuttavia, che le tue amare lacrime siano invero una imperizia maggiore, ché esse sono sterili, né cancelleranno il tuo dolore; recati dunque ove quanto hai appreso possa condurre coloro che congiurano nell’Ombra al giusto castigo ed oblia rimorsi e rancori”.

“Sagge sono le vostre parole, sire, né sarò io a metterle in discussione; pure, se la mia volontà fosse ancora vincolante in questa faccenda, vorrei porgere sincere scuse a colei alla quale rivolsi parole troppo imprudenti, ché infine caddi anche io nel medesimo errore, e tuttavia non fui in grado di scorgerne gli oscuri abissi nei quali ero piombato”.

Un lieve sorriso apparve nel volto di Palantir, ed egli non si sarebbe opposto a tale richiesta; pure, tarda era l’ora ed il giovane principe era impaziente, sicché, seppur a malincuore, così rispose il figlio di Ar-Gimilzôr ad Erfëa: “Sii paziente, figlio di Gilnar, ché ella è ora in preda all’ira e allo sconforto; attendi, dunque, che il suo volere si volga nuovamente a te, ché, se agissi in preda all’impulso e alla fretta, pure ne avresti a soffrire”.

Annuì Erfëa e, preso congedo da Palantir, si recò nella dimora paterna ove attese che si succedessero gli eventi; l’indomani, una notizia percorse in lungo e in largo l’isola di Númenor, ché era stata scoperta una congiura contro i figli del sovrano ed i suoi mandanti erano i principi del Mittalmar; grande fu lo sgomento che prese Gilnar allorché apprese di tale novella ed egli, pur non facendone parola con Erfëa, sospettò, e a ragione, che egli ne sapesse più di quanto le sue scarne parole lasciavano intendere: voci contrastanti si levarono da entrambe le fazioni, l’una accusando l’altra di aver sobillato Arthol e sua sorella Gilmor ad obliare il nobile lignaggio di cui erano portatori, per compiere un disegno efferato e dalle conseguenze ardue da individuare.

2Nei giorni seguenti, furono incriminati numerosi esponenti di entrambi i partiti e ciò fece nascere in molti il sospetto che vi fosse qualcun altro dietro tale congiura, qualcuno il cui interesse non era né in una fazione, né nell’altra; tuttavia, poiché gli uomini sono facili alla corruzione e all’oblio, tali vicende furono presto rimosse, e nessuno, eccetto alcuni, si domandò chi avesse consegnato la lista dei nomi dei congiurati al sovrano, né come costui fosse venuto in possesso di tale documento: lesto fu il processo ed Arthol, Gilmor ed i loro seguaci furono giustiziati all’alba, contravvenendo, tuttavia, alle leggi di Númenor, le quali prevedevano che per i crimini di lesa maestà fossero interpellati tutti coloro che gestivano lo Stato e quanti erano del popolo, perché prendessero visione delle prove a favore o a danno degli accusati. Ritenendo, perciò, invalida tale sentenza di morte, Gilnar allora convocò il Consiglio dello Scettro e inviò rapidi messaggeri alle contrade di Númenor, affinché vi prendessero parte anche coloro che erano stati eletti dalle Gilde ed i capitani, ciascuno nel proprio ordine e con il proprio grado: a tale consesso prese parte una grande moltitudine, gli uni attratti dal sentore del sangue che presto sarebbe stato versato, gli altri dalla letizia di poter assistere alla sconfitta dei propri avversari: molti levarono la propria voce in difesa della Corona e fra essi Akhôrahil ebbe a pronunciare un’agguerrita orazione:

“Signori di Númenor e voi, Custodi delle Tradizioni e delle Leggi che i nostri padri ci hanno tramandato, ascoltate ora Akhôrahil, principe dei feudi del Nord e fedele vassallo del sovrano disquisire su quanto codesti servitori di menzogne e falsità avevano intenzione di perseguire a danno dello Stato e della Corona! Poiché mi sembra che Uomini probi e valorosi come voi non abbiano alcuna tema di adoperare i precetti che un tempo uomini giusti ebbero a stabilire, nulla, che non sia il timore e la codardia dei mortali, può spingere i vostri voleri a disconoscere quanto ciascuno di voi ha udito venir fuori dalla bocca di questi corruttori.

Non è mio scopo illustrarvi le mostruose macchinazioni e gli aberranti costumi di coloro che giunsero dinanzi a me in catene, ché essi sono noti, né vi è fra voi, o giudici, qualcuno che ignori la perfidia e la lussuria che mossero i principi del Mittalmar a muovere contro lo Stato! Eppure, sebbene ciò possa sembrare arduo da ascoltare ai vostri uditi, vi sono tra coloro che vantano appartenenza al lignaggio del glorioso Elros Tar-Minyatur, uomini e donne la cui codardia è pari solo alla crudeltà che infiammò i cuori di coloro che i vostri voleri giudicheranno.

Una sentenza è stata ieri emessa, eppure, si badi bene, un giudizio fu già emesso dai Valar e dall’Uno che è sopra Arda: quale altra sorte, infatti, potrebbe condurre questi spregevoli esseri mortali alla condanna, se non fosse essa stessa decretata da menti savie e prive della malizia che uomini infami covavano nei loro animi? E non siamo noi stessi gli artefici dei voleri dei Valar? Perciò, o giudici, mi sembra che a noi sia stato solo demandato il portare a termine un verdetto che altri hanno realizzato per noi: una sentenza di morte”.

Frenetici applausi si levarono dagli Uomini del Re e Gimilkhâd, secondogenito del sovrano, così parlò dinanzi ai suoi sudditi: “Prendo la parola in virtù dei poteri di cui il padre mio ha insignito la mia persona; uomini di Númenor, punto o poco potrei aggiungere alle parole che il mio vassallo ha testé pronunziato dinanzi a voi; solo, se la volontà dei giudici fosse quella che tutti noi ci aspettiamo possa essere, allora io così li esorterei, ché non siamo qui per giudicare coloro i quali crimini hanno decretato il fato, ma per perseguire le leggi dei nostri padri. Arthol ed i suoi seguaci dovevano essere condannati a morte, oppure il regno non avrebbe avuto alcuna facoltà di sussistere nei cuori e negli animi degli uomini; infatti, non fu detto che esso si sarebbe preservato florido nel corso degli anni, se la stirpe di Elros fosse rimasta sul trono? Morti coloro che impedivano ai congiurati di condurre a termine i loro piani, non sarebbe venuta a mancare Númenor stessa?

Certo, molti fra voi potranno rimembrarmi che la stirpe dei principi del Mittalmar condivide il mio medesimo sangue ed essi sarebbero dunque miei fratelli; eppure, tale parentela non avrebbe forse dovuto scongiurare i loro animi dal perseguire un simile crimine, anziché indurli a tramare contro la mia casata? Posto che gli oscuri piani di costoro avessero trovato compimento, non sarebbe stato, il loro atto, tale da cancellare ogni loro pretesa sul sacro scettro di Númenor?

Or dunque, o giudici, abbiamo costì decretato la sorte di costoro, rimembrando le leggi dei padri e la virtù dei nostri animi”.

Molti si levarono in piedi allorché l’orazione di Gimilkhâd ebbe termine e vi furono alcuni che presero a mormorare essere costui ben più capace del fratello maggiore nel detenere scettro e trono; sconcertati erano i volti dei Fedeli, ché essi avevano compreso quale malizia covasse nel cuore di Akhôrahil, ché egli, trucidati quanti si opponevano al suo volere e che – alcuni sostenevano e non a torto – egli stesso aveva in principio sostenuto, salvo poi rinnegare gli accordi presi allorché i principi del Mittalmar erano sfuggiti al suo controllo, avrebbe ottenuto grande autorità sulle sorti di tutti loro.

Forte si levò, allora, la chiara voce di Gilnar ed egli così parlò: “Uomini di Númenor, e voi, giudici dello Scettro, ascoltate ora le parole che Gilnar, figlio di Nardil, pronunzierà dinanzi a voi.

Gravi colpe sono state in procinto di essere commesse, né vi è alcuno fra noi che potrebbe mettere in dubbio la colpevolezza di coloro che si macchiarono di tali crimini; pure, se è mio diritto esprimere il mio giudizio su tale faccenda, non dirò che codesto sia stato un equo processo”.

Mormorii di sorpresa si levarono allora dagli scranni e vi fu chi, fra quanti militavano nelle fila degli Uomini del Re, levò imprecazioni e accuse di codardia contro colui che aveva parlato innanzi a loro; eppure, Gilnar non ritrasse alcunché di quanto aveva pronunziato e, levata la mano per chiedere nuovamente la parola, proseguì:

“Vi è in tale consesso, o giudici, chi crede essere l’arte dell’emettere sentenze propria di coloro i quali siano pronti a sostenere ragioni personali a scapito della verità: chi, infatti, tra quanti hanno plaudito alla condanna dei due giovani, ha domandato che fossero accertate le responsabilità di quanti condussero i loro destini alla morte?

Akhôrahil ha giurato innanzi al Consiglio e all’erede al trono quanto ogni sua parola ed ogni suo atto fossero dettati dalla volontà di perseguire la verità; ebbene, dove sono le prove che testimonierebbero la colpevolezza di coloro i quali la scure del boia ha giustiziato senza che noi fossimo avvertiti di tale atto? Gimilkhâd ha affermato di aver compiuto tale atto in virtù dei poteri che il sovrano gli ha concesso, eppure, uomini di Númenor, non credete che sarebbe stato suo dovere avvertire della propria scelta colui che un dì siederà sul trono marmoreo di Armenelos? Perché egli non ne fece parola con alcuno, tranne che con Akhôrahil, il quale, sebbene sia un principe, non è di sangue reale né è l’erede al trono?”

Un grave silenzio scese allora sulla sala e quanti erano presenti presero ad ascoltare con viva attenzione quanto il principe dell’Hyarrostar pronunciava; egli si arrestò per qualche istante, infine proseguì:

“Se io, o giudici, fossi colpevole di misfatti quali la giustizia di Akhôrahil e di Gimilkhâd hanno non meno di un giorno fa puniti con la pena capitale, pure potrei sedere sullo scranno ove mi trovo senza temere alcuna condanna, dal momento che coloro i quali si sono recati nelle aule di Mandos più non hanno facoltà di parlare e la dimora nella quale si vociferi tali misfatti ebbero avuto luogo, si dice sia bruciata in un grande incendio; ebbene, o giudici, non vi pare che tali eventi costituiscano una curiosa ed inquietante coincidenza? Che cosa rimane di quanto complottarono costoro, che sia sopravvissuta alla ferocia del boia e a quella delle fiamme corruttrici? Nulla, se non le parole che costoro pronunziarono dinanzi a noi, asserendo che esse corrispondano al vero, senza peraltro apportare prova alcuna se non le dichiarazioni di colpevolezza che i principi del Mittalmar avrebbero vergato di loro pugno nel tentativo – così è stato detto – di avere grazia; eppure, uomini di Númenor e voi giudici, è stato detto che il vorace lupo può tramutarsi in pecora, pur di non destare sospetti nel pastore e nel suo segugio”.

In preda all’ira, così avvampò Akhôrahil: “Quanto hai testé pronunziato innanzi a noi, è invero grave, sicché nessuno fra quanti ricordano le antiche leggi dei nostri padri, muoverebbe contro la mia decisione, se essa fosse di accusarti di alto tradimento e di vilipendio; tuttavia, poiché mi avvedo che uomini onesti e probi quali noi siamo non abbisogniamo di macchiare nel sangue di un pari le proprie vittorie – e così dicendo si inchinò ironicamente al principe dell’Hyarrostar – nulla, che non sia il dolore di un animo ingiustamente provato da tali accuse – ché ben m’avvedo essere il bersaglio di ogni tua infame dichiarazione – potrà suscitare in me ogni tua parola”.8

Per ultimo prese la parola Palantir ed egli si espresse in questi termini:

“Figli di Númenor, lasciate che io parli dinanzi a voi, ché invero gravi crimini sono stati commessi ed altri sarebbero forse giunti se altri – e qui parve ad Erfëa che lo sguardo dell’erede al trono si posasse su di lui – non avessero rivelato le oscure macchinazioni che muovevano contro i sovrani di Elenna; gli uomini lungimiranti, tuttavia, sono soliti dichiarare che la verità, lungi dall’essere raggiunta, è una meta alla quale noi tutti dobbiamo costantemente tendere, ché essa potrà essere raggiunta solo con lo sforzo e la collaborazione di tutti.

Sia dunque aperta un’inchiesta per accertare le responsabilità di quanti operarono al fine di sterminare i reggenti di Andor; affinché sia una giusta indagine, si indaghi pure sul mio conto, se qualcuno crede esservi segreti occulti che la mia casata nasconde nel suo seno, ché non sarò io ad oppormi ad una simile richiesta: come può, infatti, un principe essere superiore alla legge del proprio Stato?

È nostro dovere perseguire, in pace e in guerra, quanto i nostri antenati hanno scritto di loro pugno sugli antichi manoscritti, né si deve invocare in maniera sì avventata il nome dei Valar – e quivi parve che il suo sguardo si posasse su Akhôrahil e che egli lo abbassasse in preda all’ira e alla paura – ché nessuno fra noi conosce gli intenti che animano le Potenze dell’Occidente, né alcuno fra i Secondogeniti può parlare in loro vece”.

Furente fu Gimilkhâd, allorché si accorse che grande amore animava il cuore dei Fedeli nei confronti del suo fratello maggiore, né coloro che erano del suo partito sembravano contrapporre una valida risposta dinanzi alle dichiarazioni del sovrano; abbandonò dunque la seduta, ché aveva compreso essere segnato il suo fato, né egli avrebbe mai impugnato lo scettro di Númenor, ché suo padre era ormai imbelle e non aveva alcuna autorità né sui Principi del Consiglio dello Scettro, né sul popolo: imbarcatosi alla volta della Terra di Mezzo, accompagnato dal figlio e della moglie, egli vi si stabilì finché la morte non lo colse che era ancora giovane secondo il metro della longevità dei discendenti di Elros.

Silenti, coloro che erano seduti sugli scranni, abbandonarono la sala, ciascuno custodendo nel proprio animo le parole che in quel giorno erano state pronunciate ed avendo cura di preservarle per il futuro; solo, Erfëa si recò sulla spiaggia di Rómenna, ove erano sepolti i corpi dei condannati a morte; lunga fu la sua cerca, ché egli ignorava ove fossero stati seppelliti i corpi di coloro che un tempo gli avevano mostrato amicizia; infine, dopo lungo vagare, i suoi occhi scorsero quanto il suo cuore desiderava raggiungere ed egli si fermò dinanzi ai sepolcri dei principi del Mittalmar.

Per qualche istante giacque in silenzio presso i tumuli che erano stati colà edificati; ratto si voltò, tuttavia, allorché una mano gli sfiorò la spalla: nulla vide in principio, ché le lacrime gli impedivano di scorgere alcunché, infine una voce parlò, rincuorandolo:

“Quanta amarezza, Erfëa, figlio di Gilnar, provi il mio cuore nel vedere il tuo spirito dilaniato dagli infausti eventi di questi giorni, mai potrai comprendere, ché si dice essere differenti i linguaggi che gli uomini e le donne adoperano, sicché sovente sembra accadere che fra loro regni la discordia ed il rancore; io però non voglio obliare quanto il mio cuore nutre per te, e sebbene è possibile che tale sentimento in te debba ancora crescere o che esso sia irrimediabilmente svanito – ché, non negarlo, io lo vidi splendere un tempo nei tuoi occhi – pure desidero porgerti le mie scuse per la sofferenza che uno sciocco disio di una imbelle fanciulla arrecò nel tuo cuore. Voglio, dunque, che la pace regni fra noi”.

Presale la mano dolcemente, così parlò Erfëa: “Mia signora, non meno insulso fu il mio comportamento, ché se io fossi stato fedele alle parole che pronunciai quella sera, pure non avrei arrecato un tale dolore al mio e al tuo cuore; mi avvedo, infatti, di aver seguito il medesimo percorso della menzogna che il mio vacuo orgoglio non seppe allontanare allorché giunse l’ora”.

In silenzio percorsero la battigia, l’uno trovando nell’altro conforto e calore; infine, allorché Erfëa si avvide di essere giunto al porto, così si congedò da Miriel: “Addio, principessa dei Númenóreani! Possa la grazia dei Valar non abbandonarti mai, ché molto ne avrebbe da rammaricarsi il cuore dei Dúnedain se tu venissi meno allo scopo che il Fato ha tracciato innanzi a te; sia saldo il tuo animo, ché esso non sia corroso dalla malizia di questi tristi giorni”.

Sulle prime Miriel non comprese a cosa alludessero quelle parole; infine, allorché la verità le fu svelata, ella chinò il capo e lo abbracciò, ché aveva compreso essere il suo un fato ancor al di là dal giungere, posto che una Morte prematura non avesse impedito alla sua volontà di ottenere quanto il suo cuore ambiva; silente mirò Erfëa mentre si imbarcava ed ella tenne alto il suo braccio in segno di saluto, finché le tenebre non caddero su Númenor e la nave non svanì dalla sua vista».

FINE

Note

[1] “ottobre” nella lingua dei Noldor.

 

 

Ombre sinistre su Numenor…

Commentando con un lettore l’ultima parte del racconto sulla Caccia ai Nazgul! (parte II) mi sono reso conto che nel corso della sua narrazione Erfea non spiegava in quale occasione era entrato in possesso di uno scritto autografo del Re Stregone, utile poi per potergli permettere un confronto di grafie con un altro documento dal quale poi prendeva origine la sua ricerca della raccoforte dei Nazgul, nascosta nelle sabbie dei deserti dell’Harad.

Per questa ragione ho deciso di chiarire, in questo articolo, in quali circostanze Erfea entrò in possesso di quel documento e, allo stesso tempo, fornire ulteriori spunti di riflessione sul rapporto fra il principe di Numenor, Miriel e altri personaggi della sua giovinezza che saranno in grado di spiegare – come mi faceva notare acutamente una lettrice – quella personalità malinconica e al tempo stesso saggia che svilupperà Erfea nel corso della sua vita.

La mia fonte di ispirazione per il racconto che spero troverete di vostro gradimento è stata l’oscura vicenda di Lucio Sergio Catalina (108-62 a.C.) un nobile senatore romano noto per la sua celebre congiura che fu scoperta e denunciata nell’anno 63 a.C. da un altro illustre personaggio dell’antica Roma, Cicerone, che gli rivolse in Senato le parole divenute poi celebri: «Quo usque tandem abutēre, Catilina, patientia nostra?» (Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?) Ho immaginato, infatti, che negli ultimi secoli della sua gloriosa esistenza, il regno di Numenor si fosse trasformato in un luogo turbolento, simile alla Roma repubblicana giunta alla fine del suo ciclo storico, dove era facile corrompere (ed essere corrotto) e dove giovani ambiziosi di buone famiglie potevano aspirare ad ottenere un grande potere macchinando nell’oscurità, alle spalle di sovrani persi nell’accumulo di ricchezze, la cui politica, ormai, era controllata e a volte imposta dalle grandi famiglie principesche di Numenor. Il Consiglio dello Scettro, che ai tempi di Aldarion ed Erendis aveva soprattutto una funzione consultiva nei confronti del sovrano, aveva assunto, negli ultimi secoli di esistenza del regno numenoreano, una crescente importanza, fino a diventare una sorta di potere parallelo a quello sovrano: al suo interno ogni membro deteneva un voto (mentre al re ne spettavano due); alleanze e tradimenti erano, dunque, all’ordine del giorno, per far vincere questa o quell’altra fazione.

Fu proprio all’interno di questo clima torbido e violento che Erfea si trovò coinvolto, suo malgrado, in una vicenda che lo pose di fronte a una scelta difficile da compiere…e, come spesso accade in questi casi, ambito privato e pubblico si mescolano senza soluzione di continuità…

Buona lettura!

«Giunse infine l’ultimo giorno di quel mese ed i principi dell’Hyarrostar si recarono ad Andúnië, ove vivevano i Signori di Númenor. Pochi saluti si levarono allorché essi varcarono la soglia del grande salone della reggia degli eredi di Silmariel, ché erano invisi ai principi della fazione dei Númenóreani Neri. Molte voci si levarono, tuttavia, allorché fecero il suo ingresso Erfëa, figlio di Gilnar ed Arthol, figlio di Nargon. Alcune dame presero a sorridere allorché costoro si inchinarono dinanzi al Signore della Dimora, ché erano belli nell’aspetto e cortesi nei modi; pure, sebbene Arthol si mostrasse disposto nei confronti di codeste fanciulle, il suo compagno mostrava minor interesse, intento com’era a discutere con Numendil di quanto aveva appreso nella Terra di Mezzo.

Nel momento in cui i festeggiamenti giunsero al culmine, Arthol, fatto cenno al suo compagno di seguirlo, così gli parlò: “Dove è dunque la fanciulla di cui mi parlasti? Mi rammarico di non vederla in tale luogo, ché ella allieterebbe il tuo cuore. Sei un giovane uomo e molte sono le dame che gradirebbero danzare con te; perché non oblii codesti tristi pensieri, che da troppo tempo dimorano nel tuo animo?”.

Nulla poté rispondere Erfëa, ché in quel momento l’araldo annunciò ai presenti l’arrivo di Palantir e di sua moglie Silwen. Al loro apparire gli ospiti rivolsero loro deferenti inchini, ché egli sarebbe divenuto sovrano e, sebbene fosse del partito avverso agli Uomini del Re, pure coloro che erano suoi avversari avevano tema dalla sua lungimiranza e non osavano contrastarlo. Un’esile fanciulla, quasi occultata dall’ampia cappa bianca che ne copriva il volto, seguiva la coppia reale. Erfëa, naturalmente, come tutti gli altri principi suoi pari e i sudditi del regno, sapeva essere quella fanciulla Miriel, principessa figlia di Palantir e Silwen: non l’aveva mai vista in volto, tuttavia, poiché ella era solita trascorrere le proprie giornate in compagnia dei suoi precettori reali, lontana da occhi indiscreti.

Invano, i principi presenti in sala tentarono di scorgerne il viso, ché esso era occultato da una graziosa maschera impreziosita da perle: delusi, tornarono ai loro posti, rammaricandosi che il carattere della principessa fosse così schivo da evitare di mostrare il suo aspetto in pubblico. Con il trascorrere delle ore, tuttavia, essi parvero dimenticarsi di Miriel e concentrarono la loro attenzione sul vino e sulle altre dame presenti al banchetto. Sorse infine la Luna, eppure ancora i festeggiamenti erano lungi dal concludersi, ché Palantir si levò in piedi e colmato il suo calice di biondo nettare, così si rivolse a quanti erano con lui:

“Signori e Dame di Númenor, Padri dell’Isola e Custodi dell’Antica Tradizione, vi invito a levare in alto i vostri preziosi calici, ché questa sera accogliamo coloro che ritornano a noi dopo lunga assenza; brindiamo, dunque, ad Arthol e ad Erfëa, Cavalieri del Regno!”.

“Cavalieri del Regno!” risposero quanti erano presenti e i due giovani principi furono invitati a presentare le proprie armi dinanzi a Palantir, affinché fossero investiti e potessero ricevere gli speroni d’argento, simbolo della loro condizione. Per primo avanzò Arthol, accompagnato da suo cugino Brethil: giunto che fu innanzi al suo signore, egli si chinò e sguainata la lama, ne pronunciò il nome ad alta voce, consegnandola nelle mani di Palantir, che ne ordinò l’investitura. Il principe del Mittalmar fu assegnato all’armata di Númenor stanziata ad Umbar: grande fu il dolore che si impossessò del cuore di Erfëa, allorché udì tale notizia, ché avrebbe desiderato che entrambi avessero potuto restare a Númenor.

Lieto era invece Arthol, ché desiderava fare ritorno alla Terra di Mezzo, ove credeva di acquisire maggiore potere di quello che gli sarebbe spettato se fosse rimasto in patria. Sotto questo aspetto il principe del Mittalmar era differente da Erfëa, il quale aveva rinunziato alla vanagloria dopo aver ascoltato i saggi consigli di Tom Bombadil e di Gil-Galad. Arthol, al contrario, aveva sempre reputato essere la condizione della propria famiglia tale da dover conseguire imprese degne di nome per sedersi alla propria tavola senza provare timore alcuno; simili considerazioni sfuggivano tuttavia ad Erfëa ed egli non era a conoscenza delle ambizioni del suo compagno. [qui consiglio di proseguire con la lettura di Il primo incontro di Erfea con i Nazgul]

Lieti, i menestrelli ripresero a suonare ed i bardi cantarono delle gesta della casa del sovrano, sin dai tempi in cui l’isola era sorta dal mare ed Elros era divenuto il primo re di Elenna. I Fedeli, invece, presero a congratularsi con il giovane Erfëa, mostrandogli stima e affetto, sicché molti calici si alzarono in suo onore; pure, sebbene grande fosse la sua gioia, il pensiero dell’imminente perdita del suo amico d’infanzia molto lo rattristava.

Tali erano i suoi foschi pensieri che non si avvide di una fanciulla che gli si inchinò dinanzi; distrattamente, Erfëa replicò a tale gesto, eppure, grande fu il suo stupore allorché si avvide che era la figlia di Palantir: “Nobile capitano di Númenor, permettete alla principessa di Armenelos di congratularsi con voi? Avete ottenuto una magnifica vittoria su i vostri nemici, sicché immagino che il vostro cuore sia colmo di gioia”.

Sorrise Erfëa nel risponderle: la voce della dama gli era familiare e sebbene non ricordasse più in quale luogo o in quale tempo l’avesse ascoltata, pure la trovava melodiosa. “Graziosa dama, gentili sono state le vostre parole, e non sarò io a negare la mia soddisfazione. Io però non anelo all’onore delle armi, né ai forzieri ricolmi di oro e argento che giacciono nelle dimore dei principi di questa contrada: i miei occhi, infatti, hanno scorto altre meraviglie, quali mai gli uomini e le donne qui presenti hanno visto”.

Piacquero alla fanciulla le parole che Erfëa aveva pronunziato, sicché ella gli chiese di narrarle della dimora di Gil-Galad e degli Alti Elfi che dimorano al di là del mare. A lungo il figlio di Gilnar si intrattenne con Miriel, infine, allorché il suo racconto ebbe termine, ella parlò a sua volta:

“Ora comprendo per quale motivo i vostri occhi siano scuri, Erfëa di Númenor. Qualunque uomo sarebbe colmo di tristezza se non potesse più ammirare simili meraviglie, di beltà e luce intrise”.

Amaro risuonò il riso di Erfëa: “Mia signora, se tale fosse il motivo per il quale provo dolore, non potrei che imputare a me stesso l’aver abbandonato il popolo degli elfi; colei che io rimpiango di aver perso, invece, rinunciò di sua volontà alla mia amicizia”.

Stupore misto a commozione si dipinse sul volto della principessa, eppure Erfëa non poté notarlo, occultato com’era dalla maschera che indossava; nondimeno, il Dúnadan avvertì che la sua voce era incrinata e le chiese perdono per averla rattristata con simili storie.

“Mia signora, non era mia intenzione turbarvi. La dolce amica di cui vi ho parlato, infatti, appartiene alla mia infanzia”.

“Non piango per la vostra sventura, giovane principe, ché, sebbene dolorosa, pure è comune a tutte le sorti umane. Se il mio cuore è triste, lo è perché teme la fine di questi giorni felici. Non vi è gioia più grande, infatti, che assaporare, come un dolce frutto proveniente dal lontano oriente, la letizia del tempo presente”.

Erfëa l’osservò stupito e gli parve saggia e lungimirante; a lungo discorsero i due giovani, sicché grande fu il rammarico di entrambi allorché dovettero prendere congedo l’uno dall’altra.

“Mia signora – la salutò il figlio di Gilnar – avete allietato il banchetto e le danze; concedetemi, dunque di mirare il volto di colei alla quale porsi il mio calice “.

Miriel, tuttavia, scosse graziosamente il capo: “Mio signore, voi siete ora avvezzo ai volti delle fanciulle elfiche, sicché trovereste disdicevole porre i vostri occhi su quelli mortali. Non sarò io a rivelarmi dinanzi a voi, né dovrete portarmi rancore per tale mia scelta, ché, ecco, molto ne avrei a soffrire. Sia dunque, codesto, un pegno presso il vostro cuore che rimembrerete ogni giorno”.

Curiosa parve la risposta ad Erfëa ed egli non ne comprese appieno il motivo; pure, chinò il capo e si allontanò senza pronunciare parola alcuna. Una profonda stanchezza lo aveva avvolto ed il suo corpo desiderava il riposo.

Nei giorni seguenti il figlio di Gilnar si recò sovente nella contrada di Numendil: costui era divenuto, infatti, il suo signore ed egli doveva al principe di Andúnië ben più della stima che un giovane capitano nutre nei confronti del suo comandante. L’animo del parente più prossimo del sovrano gli sembrava insondabile, né il suo volto esprimeva letizia: sovente, egli si recava ad Armenelos, ove prendeva parte alle sedute del Consiglio dello Scettro, sicché il principe dell’Hyarrostar trascorreva le sue giornate in solitudine. Nei mesi successivi, tuttavia, Erfëa si avvide che Numendil invecchiava precocemente e, sebbene questi fosse un uomo anziano, anche secondo il metro dei Númenóreani, pure il suo mutamento era sembrato assai repentino.

Trascorsero infine tre mesi e Numendil, avvertendo che la morte gli era ormai prossima, convocò a sé Erfëa, affinché fosse posto a parte di eventi di cui pochi erano a conoscenza, ma in cui molti erano implicati. Sgomento, il figlio di Gilnar l’ascoltò senza pronunziare parola alcuna: gravi erano le rivelazioni che il suo signore gli aveva confidato, sicché giurò solennemente che mai avrebbe svelato ad altri le sue ultime confessioni. Molti anni dopo, allorché i suoi passi lo condussero alla fortezza degli Schiavi dell’Anello, l’animo di Erfëa si volse grato verso colui che l’aveva messo al corrente degli occulti segreti di cui era divenuto depositario.

L’agonia di Numendil fu lunga e dolorosa, poiché un invisibile veleno pareva scorrergli nelle vene e la sua carne era restia a consumarsi nell’oblio della morte. Infine, allorché il moribondo ebbe esalato l’ultimo respiro, Erfëa pianse: mai, infatti, prima d’allora aveva mirato quella che i menestrelli elfici definiscono le funesta sorte dei Secondogeniti. La morte, tuttavia, era un dono e non una punizione: i cuori degli Uomini, tuttavia, divenuti preda dell’angoscia e del timore, avevano preso ad interpretarla come una maledizione, temendone gli esiti. Nessuno sfuggiva a questa paura atavica: persino gli animi dei Fedeli, in parte corrotti dalle paure di quei tempi, scongiuravano il momento della dipartita, facendo appello a tutte le loro conoscenze, senza alcuna fortuna.

Triste fu il cuore di Erfëa mentre versava silenziose lacrime sul petto del suo signore. Egli inviò un messaggero ad Amandil affinché lo raggiungesse nella casa paterna, ché questi era allora nella Terra di Mezzo.

Penosi erano gli sguardi che i due uomini si scambiarono allorché furono l’uno dinanzi all’altro ed essi a lungo tacquero; infine, avvedutosi che il dolore nell’animo di Amandil non era inferiore al suo, così gli parlò Erfëa:

“Fratello nel sangue e nel dolore, triste è la dipartita del nostro signore e padre. Tu fosti il suo seme naturale, ed egli fu per me leale guida e maestro: inutili, tuttavia, saranno le nostre lacrime attuali e altre, ancora più cruenti, verseremo in futuro, se non porremo termine alla minaccia che incombe su di noi”.

Stupito, Amandil lo invitò a prendere posto, accanto al suo trono, pregandogli di narrare quanto era accaduto negli ultimi tempi. Pensoso fu il suo sguardo ed egli si avvide che non vi era menzogna nelle parole del suo congiunto, né temette che tali rivelazioni fossero tremulo parto di una mente resa cieca dal dolore della perdita. Amandil, tuttavia, era esitante: la sua gente era in numero troppo esiguo nel numero per tentare di sopraffare con le armi i propri nemici. Il principe esitò, dunque, riservandosi il diritto di adoperare quelle informazioni nel modo che avrebbe ritenuto opportuno; pregò Erfëa di non farne parola con alcuno, per tema che gli incogliesse un grande male. Riluttante, il figlio di Gilnar annuì, sebbene nutrisse nel cuore il timore che grandi sofferenze sarebbero derivate da tale scelta.

Lesta, si sparse nell’isola la notizia della morte di Numendil: i servi del Re ne furono lieti, ché Amandil, sebbene fosse un uomo lungimirante e saggio, pure era troppo giovane per incutere in loro timore. La carica di Custode delle Leggi del Regno e delle Antiche Tradizioni, che un tempo apparteneva a Numendil, restò per qualche tempo vacante: gli Uomini del Re, allora, presero a mormorare che presto tale incarico sarebbe spettato ad uno di loro. Akhôrahil, tuttavia, esortava loro a non esultare anzitempo, ché sebbene fossero principi dotati di forzieri traboccanti d’oro ed argento, pure non erano a conoscenza degli scritti che antichi legislatori avevano annotato in tomi di pelle nera ed argentata. Riluttanti, perché non avrebbero voluto che Akhôrahil aggiungesse altro potere a quello che già possedeva, gli altri principi lo esortarono, affinché fosse proposta la sua candidatura per tale carica. Il servo di Sauron rifiutò: “Gli Uomini avveduti – replicò – sono soliti governare mediante coloro che si mostrano incapaci di comprenderne i propositi. Costoro, infatti, sono facili prede dei loro intenti”.

Il quinto Nazgûl, tuttavia, considerava con interesse la carriera del giovane Arthol, un uomo forte nel corpo e ambizioso, ma poco lungimirante. Come molti della sua generazione, Arthol dissipava il patrimonio paterno in lussurie e atti dei quali la pudicizia degli uomini consiglierebbe di tacere. In breve tempo la sua giovanile ambizione si tramutò in arroganza e infine in smania di potere; reputò allora che il suo incarico fosse indegno di un uomo del suo genio, mentre l’invidia per colui che un tempo aveva amato come un fratello cresceva nel suo animo e ne occupava i reconditi pensieri, rendendolo cieco dinanzi a qualunque altra cosa.

Arthol prese a sussurrare, da principio in gran segreto, in seguito con maggior audacia, che gli eredi maggiori di Elros Tar-Minyatur avrebbero dovuto rinunciare allo scettro. Molti furono i Númenóreani che seguirono le sue parole e ne ricavarono malvagi insegnamenti, sicché egli prese a riunire nella dimora paterna una combriccola di uomini e donne corrotti ed esperti di tutte quelle arti che sono degne solo degli Orchi di caverna. In poco tempo essi approntarono un piano che avrebbe permesso loro di impadronirsi di quanto desideravano ardentemente e che non riuscivano ad ottenere se non con l’assassinio e il bieco furto. Akhôrahil, i cui servi avevano preso parte ad alcune riunioni indette da Arthol, si avvide che costui avrebbe costituito un valido alleato per il suo Signore, sempre che fosse riuscito ad arrestarne il giovanile ardore.

Dei cavalieri e delle dame che il principe númenóreano sedusse è dato sapere poco, ché essi agivano in gran segreto e non si occupavano di nulla che non fosse lo Stato stesso. A quanti fossero stati all’oscuro dei loro biechi progetti, pareva che essi fossero degni della posizione che la sorte aveva assegnato loro. L’unica dama del quale fu conosciuto il nome era Gilmor, sorella di Arthol; nulla poteva lamentare che la sorte le avesse negato, ché era bella e nobile nel portamento, né era dotata di minor intelligenza di quanto non lo fosse nella grazia. Le sue doti, tuttavia, era solito porle al servizio dei suoi interessi: era solita concedersi agli uomini, allorché le aggradava ed era a conoscenza delle arti che soggiacciono la volontà degli uomini a coloro che ne pronunciano le oscure parole. Infida non lo era stata dalla nascita, ché aveva subito una educazione quale si confà alla nobiltà della sua stirpe; la precoce morte della madre e il dolore che mai si dipanò nel suo animo per la sua dipartita, la spinsero alla disperazione, e indi al rancore, sicché, ancor prima che il fratello fosse corrotto, era divenuta avvezza ad ogni sorta di vizio. Abile nell’occultare le sue perversioni a quanti non fossero a conoscenza della sua malvagità, lo era parimenti nell’eloquio e nel canto e in quelle arti che sono proprie delle altre dame della sua condizione.

Molti fra quanti presero parte alla congiura ai danni della stirpe del sovrano, appartenevano proprio alla fazione che ne avrebbe dovuto sostenere l’influenza a Númenor, né tuttavia, erano estranei a tali complotti gli Amici degli Elfi. Gli uni, infatti, erano attratti dalla lussuria e dalla cupidigia, gli altri dalla falsa speme di liberare il proprio paese dal dominio di un uomo che tanto disprezzavano. In gran segreto essi si addestrarono e compirono efferati delitti: avevano, infatti, gran bisogno di denari per acquistare le armi e corrompere le guardie di palazzo. Akhôrahil donò molte delle sue ricchezze ad Arthol, convinto che se costui fosse riuscito nel suo intento, il suo padrone avrebbe gioito, ché avrebbe spazzato via dalla Terra di Mezzo le colonie númenóreane; se invece il principe del Mittalmar avesse fallito nella sua impresa, lo Spettro dell’Anello avrebbe avuto facoltà di incrementare maggiormente la sua influenza a corte. Ar-Gimilzôr, infatti, non avrebbe avuto alcuna remora ad affidare la repressione dei congiurati al Nazgûl. Nei riguardi dei Fedeli, Akhôrahil nutriva poco interesse, convinto che quelli avrebbero mostrato maggior comprensione per gli assassini del sovrano che per il sovrano stesso. Arthol, invece, non era del suo stesso parere: molto temeva Gilnar, ritenendo che questi non avrebbe tollerato che alla tirannia del sovrano succedesse la sua. Ar-Gimilzôr era ormai al termine della sua esistenza: imbelle, sedeva sul suo regale trono in preda a crisi di follia che abili ministri dissimulavano dinanzi agli occhi del popolo. Presto il sovrano sarebbe morto e lo scettro passato nelle mani del suo erede Palantir, il quale poco amore nutriva per il padre e per quanti ne sostenevano la causa.

Nei giorni seguenti un nuovo timore sorse nel cuore di Arthol, provocato dalla profonda amicizia sorta tra Erfëa e colei che sarebbe succeduta a Palantir, qualora fosse giunto il suo tempo. Arthol mutò allora i suoi piani e prese ad organizzare un complotto ai danni dell’erede maggiore di Ar-Gimilzôr, nella speranza che, ottenuta la sua morte e quella della sua figlia, egli avrebbe potuto colpire più facilmente l’anziano sovrano. Questo sviluppo piacque all’Úlairë: egli, infatti, non tollerava Palantir, temendone lo spirito lungimirante, ed avrebbe, invece, gradito che lo scettro passasse nelle mani di suo fratello, Gimilkhâd il Crudele, che era ambizioso non meno che iracondo, e dunque facile da ammaestrare agli scopi del suo padrone.

Nulla sospettava Erfëa di quanto tramava il suo compagno d’armi in gioventù: non aveva dimenticato gli avvertimenti di Numendil, eppure la sua ira era scemata, perché prossimo a compiere la maggiore età e distratto da altri pensieri. Il figlio di Gilnar spesso conduceva il suo destriero sino alle bianche spiagge di Andúnië, ove era solito interrogare i pescatori ed i marinai sulla sorte che aveva conosciuto Eärien, se ella fosse andata in sposa ad uno di loro, oppure se la morte l’avesse colta in giovane età; costoro, tuttavia, non sapevano rivelargli alcunché, né avevano mai udito tale nome prima di allora. Quando non era occupato dalla ricerca della sua amica di un tempo, Erfëa si recava nei suoi possedimenti, ove badava che i destrieri paterni fossero ben curati, oppure, nelle silenti sale della biblioteca di Armenelos ove più nessuno si recava di innumerevoli anni».

Continua

Il Messere di Endore

Tom Bombadil costituisce uno degli argomenti più controversi tra i lettori di Tolkien: numerose teorie sono sorte sulla sua reale natura, ma nessuna di queste è mai stata universalmente accettata, dal momento che lo stesso autore non hai mai offerto una definizione certa di questo personaggio. Personalmente, come ho avuto modo di spiegare in altra occasione, ritengo che Tom Bombadil sia un Maiar legato strettamente al continente di Endore, una sorta di «genius loci» che incarna in sè stesso la Terra di Mezzo. Un essere che non ha alcun potere al di fuori del minuscolo territorio che ha scelto come sua dimora; all’interno dei suoi confini, tuttavia, i più potenti artefizi del Mondo esterno mostrano caratteristiche anomale: l’Unico Anello, per esempio, diventa invisibile al dito di questo bizzarro personaggio, quasi a simboleggiare l’annullamento di ogni suo potere al cospetto di Tom Bombadil. Anzi, potrei azzardare un’ipotesi suggestiva, anche se priva di riscontri: la sopravvivenza di questo personaggio, mai toccato né da Morgoth, né da Sauron, potrebbe spiegarsi proprio alla luce del profondo vincolo che lo lega alla Terra; se fosse venuto meno, chissà, la stessa Terra di Mezzo ne avrebbe avuto a soffrire, in un modo tale da spaventare perfino i suoi più pericolosi dominatori. È una speculazione, ben’inteso, ma in grado di spiegare la sua esistenza in Endore fin dal principio della sua creazione e il rispetto che tutti – Elfi, Nani e Uomini – sembrano attribuirgli, giungendo a dargli un nome diverso in base alle diverse lingue parlate nella Terra di Mezzo.

Qualunque sia la verità, non ho saputo resistere all’idea di far incontrare Tom Bombadil e Dama Baccador con un giovane e ancora arrogante Erfea…aspetto i vostri commenti per capire se l’incontro sia riuscito o meno. Buona lettura!

«Erfea vagabondò per contrade che poco o punto conosceva, finché non trovò quanto il suo cuore desiderava: tracce fresche nella neve che aveva ricoperto le colline e le brughiere tutte intorno a lui. Fremette il suo spirito, ché egli aveva appreso essere quelle le impronte di un mostruoso warg, un servo di Morgoth nella Prima Era, fuggito alla rovina di Angband allorcé l’armata dei Valar l’aveva rasa al suolo: codeste creature di malizia e perfidia dotate, erravano ancora in quelle terre che un tempo si estendevano per miglia a occidente, mentre ora sono sommerse dalle profonde acque del Belagaer. Per lunghi giorni Erfea inseguì il servo di Morgoth, inoltrandosi nelle vaste e silenti distese dell’Eriador; all’epoca in cui si svolsero questi eventi, vi erano ancora selve e boscaglie in tali contrade e numerosi esseri avevano preso dimora nelle valli che si esten- devano all’interno di queste distese selvagge; creature che poco o punto i Numenoreani conoscevano e di cui finanche gli Eldar del Lindon conservavano solo un pallido ricordo, ché, sebbene fossero invero potenti, pure non prendevano parte alle vicende dei Figli di Iluvatar, limitandosi a osservare quanto il mondo mutasse e preservando gli antichi confini che essi avevano fissato ancor prima che i figli di Feanor giungessero alla Terra di Mezzo.

Nulla sapeva Erfea di tali esseri, la sua mente intenta a tendere una trappola cui l’orrida bestia di Angband non sarebbe potuta sfuggire: essa, tuttavia, era accorta e spietata, sicché tese un agguato al Dunadan allorché questi prendeva riposo sulle radici di un antico albero, quale a Numenor più si vedevano, essendo stati abbattuti per fabbricare i possenti vascelli della flotta del Re degli Uomini; alto si levò l’urlo di Erfea allorché il warg gli trafisse la coscia, pure, egli fu sì lesto da afferrare il coltello e conficcarglielo nella gola sicché la bestia rimase avvinghiata al suo corpo, tentando di piantare le sue mostruose fauci nel suo cuore. Le orribili grida della bestia agonizzante e i lamenti del giovane Numenoreano furono uditi da un essere che vagava in quei boschi. Un Uomo lo avrebbero definito coloro che l’avessero osservato saltare da un fosso all’altro, mentre intonava filastrocche e rime antiche quanto gli Alberi di Valinor o forse anche più: eppure, non era un Figlio di Iluvatar, ma uno spirito sorto dal suo pensiero allorché Arda non era ancora stata creata e Melkor non aveva ancora scelto la via della perdizione e del dolore; pochi fra gli Eldar e gli Edain conoscevano il suo nome ed essi ignoravano le sue origini, né erano noti i suoi padri, sicché presero a chiamarlo Iarwain Ben-Adar, il più anziano e il senza padre, mentre i Naugrim lo chiamarono Forn e gli eredi di Hador Chiomadoro, Ornald; pure, egli non rivelò a nessuno quale fosse il suo vero sembiante, né lasciava che i suoi rari ospiti lo chiamassero con altro nome che non fosse quello di Tom Bombadil, l’allegro vagabondo dei boschi.

Egli vagava per quelle selvagge contrade, badando che i sentieri che aveva tracciato anni prima fossero liberi dalle creature di Yavanna che sovente ne occupavano il percorso; grande fu, tuttavia, la sua sorpresa, allorché egli udì alte grida spezzare il naturale silenzio di quelle contrade, sicché, incuriosito si recò ove gli pareva che avessero origine tali echi; ivi, scorse un giovane uomo e un mostruoso lupo giacere fianco a fianco, avvin- ti in una mortale lotta. Il figlio minore di Iluvatar, tuttavia, era sopravvissuto e Tom, che era invero uno spirito gaio e avverso ai servi di Morgoth – sebbene costoro ne ignorassero l’esistenza – lo sollevò dal luogo in cui giaceva e lo condusse alla sua dimora, la quale era occultata agli sguardi esterni da un’impenetrabile barriera di arbusti: questi, tuttavia, allorché ascoltarono le melodie di Tom Bombadil – suoni che i Numenoreani avrebbero definito senza alcun dubbio bizzarri – si aprirono, richiudendosi allorché egli fu passato.

Una dama era sull’uscio della sua minuscola dimora ed ella lo chiamava a gran voce, ché il Sole era calato all’orizzonte e il desco era apparecchiato; gaia, risuonò la risata del Messere della foresta allorché udì la voce della dama richiamarlo a sé ed egli le si inchinò sorridente in volto, dopo aver avuto premura di deporre il suo ospite su pesanti coltri intrecciate di lana e di parole quali mai gli Uomini avevano ascoltato e che lenivano il dolore in chi le udiva.

“Tom, hai forse obliato la dama del fiume? Un ospite hai infatti condotto alla nostra mensa, pure non hai avuto premura di avvisarmi: cosa offriremo, dunque, al giovane che giace esamine?”. Rise il Messere della foresta, ché nulla sfuggiva al suo lesto sguardo e invero conosceva il pensiero di colei che gli aveva testé parlato: “Mia cara Baccador, Tom è forse stanco, ma i suoi occhi sono ancora vispi! Ben m’avvedo che tu abbia preparato il desco anche per il nostro ignaro ospite, sicché non dovresti trarmi in inganno”. Lesta fu la risposta di Baccador: “Il grande sparviero è giunto stamani alla mia finestra, avvertendomi che vi era nella foresta un Uomo, sicché credetti che fosse scortese da parte nostra non invitarlo a prendere parte alla nostra cena”. Rise ancora Tom, infine osservò, quasi distrattamente, colui che aveva tratto in salvo dalla morte e sospirò: “Egli è uno degli uomini di Numenor, mia cara, giunto in siffatta contrada per trucidare uno dei lupi servi della grande oscurità che un tempo aveva la sua fortezza a Nord”. “Non sembra pericoloso – osservò la dama, posandogli sulla fronte la sua affusolata mano – pure, avverto che egli è stato a lungo sofferente nel corpo, e lo spirito è ancora lungi dall’essere guarito del tutto”. Tom allora sospirò e così le rispose: “Sono fragili i Figli Minori di Iluvatar, eppure sappi, Figlia del fiume, che Arda apparterrà a loro quando sarà giunta l’ora; però il momento è ancora lungi dal giungere e costui non prenderà parte a tali vicende”. Si alzò dalla seggiola che aveva posto dinanzi al camino e fischiettando un motivo allegro, prese a scuotere leggermente il Dunadan. Con un gemito, Erfea si scosse dal profondo sonno in cui era piombato e sul suo viso erano dipinti smarrimento e una gran pena: “Credevo di averla persa per sempre” furono le uniche parole che riuscì a pronunciare per molto tempo, finché egli non ebbe posato il suo sguardo sulle due figure che gli erano accanto, domandando loro chi fossero.

Risero a lungo i suoi anfitrioni, infine Tom gli rispose: “Chi siamo? Io sono il Messere e questa è la dolce dama del fiume; non temere alcunché, giovane uomo, ché ora sei nella dimora di Tom Bombadil ove nulla può entrare, a meno che non sia io a desiderarlo”. Gemette Erfea, infine si levò dalle graziose trapunte che l’avevano avvolto e parlò nuovamente: “Dov’è il lupo di Morgoth che trafisse le mie carni? A lungo vagai in queste contrade inesplorate, eppure codesta creatura si rivelò invero infida, sicché mi tese un agguato, e io, provato dalla stanchezza, non seppi evitarlo”. Amare risuonavano queste parole alle orecchie di Tom e della sua dama, tuttavia essi non replicarono nulla, sicché Erfea parlò nuovamente: “Ebbene, la creatura non è più qui, sicché immagino che il suo corpo giaccia obliato nella medesima raduna ove realizzò l’infame agguato”. Lento, il Dunadan tentò di alzarsi e una volta che le sue gambe, ancora malferme per il dolore e la fatica, furono in grado di sorreggerlo, egli si inchinò, ché aveva compreso essere quell’uomo l’artefice della sua salvezza; goffo gli parve il suo tentativo, tuttavia, con sorpresa, si avvide che i suoi anfitrioni mostravano di gradire il suo gesto, sicché si inchinarono a loro volta e lo invitarono a consumare la cena. Grato per l’attenzione che costoro mostravano nei suoi confronti, per lungo tempo Erfea non parlò, ché mai aveva visto nel corso della sua effimera esistenza una simile dimora: minuta poteva apparire allo sguardo degli Alti Uomini di Nmenor, eppure, le sua ampie finestre e i suoi graziosi camini la rendevano calda e accogliente, nonostante le ombre proiettate dalle fiamme sulle scure pareti confondessero lo sguardo del visitatore; cortesemente, Tom e Baccador attesero che il loro ospite si fosse rifocillato, infine, allorché lessero sul suo volto ampia soddisfazione per la cena consumata, lo invitarono a prendere posto accanto a loro, dinanzi al grande braciere posto al centro della sala.

“Perdonate la mia ingordigia, signori del bosco, ché non è corretto per l’ospite non mostrare alcunché a colui che l’ha accolto all’interno della sua magione, eccetto la propria fame e il proprio sonno; permettetemi, dunque, che vi riveli il mio nome, ché io sono Erfea, figlio di Gilnar, principe dello Hyarrostar in Numenor”.

Risero graziosamente i suoi anfitrioni, eppure non vi era derisione nella loro letizia, ché essi erano stupiti di sentirsi chiamare signori: “Sappi, figlio di Numenor, ché nessuno ospite ha mai reso tale onore ai nostri spiriti e ai nostri corpi!”. Risero ancora e a Erfea parve che gli alberi del bosco condividessero la medesima letizia di costoro; pure, Tom parlò nuovamente, rivolgendosi a sé stesso, più che al Numenoreano: “Sarebbe invero un compito troppo gravoso per le mie membra, né io desidero imporre alcuna legge su quanti dimorano nelle selve e nelle radure di questa contrada: io sono il Messere, non il Signore”. Fischiettò allegramente alcune strofe, le quali parvero a Erfea intrise dell’acqua di rapidi ruscelli e dello stormire delle fronde degli alberi: il dolce torpore, cui fece seguito il sonno ristoratore, prese il figlio di Gilnar e il suo spirito fu per lunghi istanti vittima dell’oblio. Infine, allorché il Messere più non cantò, egli si destò e mirò nuovamente colui che l’aveva accolto nella sua dimora: lieto pareva il suo volto, né su esso erano impressi i crudeli artigli del tempo corruttore, pure Erfea avvertì che era anziano; con sgomento e sorpresa, si rese conto che Tom lo fissava a sua volta ed egli non riuscì a reggerne lo sguardo; tremante, il Dunadan chinò il fiero capo, ché aveva compreso essere quello uno spirito quale mai nessun Uomo della sua stirpe sarebbe stato in grado di comprendere; rabbrividì, nonostante il calore del fuoco si propagasse attraverso le sue giovanili membra, ché mai gli era capitato di scorgere all’opera un simile potere.

Sorrideva Tom, la mente immersa nel ricordo di eventi remoti; infine, egli ascoltò la voce del Dunadan cantare un canto quale mai il suo udito – che pure aveva compreso i feroci barriti degli orsi e il quieto ronzare delle api nei meriggi estivi – aveva ascoltato; profonda e malinconica si levava la voce del Dunadan ed egli cantava di coloro che erano al di là delle sponde del Lindon; infine, allorché la voce del suo ospite si fu acquietata, così gli parlò Erfea: “Perdonate il mio ardire, signore, tuttavia, non avendo altro da offrirvi ed essendo il mio cuore preso dalla malinconia che spira dall’Occaso, ho voluto tributarvi un simile canto”.

“Invero, principe di Numenor, voi avete portato alla dimora del Messere della foresta un omaggio quale mai nessuno aveva recato seco: Tom non oblierà le vostre parole e le custodirà nei profondi recessi del suo animo”.

Baccador, la quale era intenta a filare, levò allora il grazioso capo e parlò dolcemente: “Giovane uomo, molti cuori ha visto la Figlia del fiume affidare le proprie passioni alle cristalline acque che lambiscono le contrade dei mortali; non temere la malinconia, ché essa altro non è che il dolce nettare istillato dalla nostalgia negli animi dei Figli di Iluvatar”.

A lungo Erfea ponderò tali parole, infine parlò nuovamente: “Mia graziosa dama, ho compreso quanto mi avete testé rivelato e il mio spirito è stato lenito dalla saggezza che esse hanno ispirato nel mio animo”. Esitò per un istante, infine si rivolse a Tom: “Mio signore, perdonate il mio ardire, eppure non posso fare a meno di notare quanto voi siate simile a una donna che un tempo era presso di noi”.

Una curiosa luce baluginò nello sguardo del Messere ed egli posò il suo sguardo sull’ospite, infine rise allegramente: “Simili e dissimili allo stesso tempo sono le creature che hanno preso dimora in Arda allorché Sauron ancora dormiva e nessun Elfo si era destato nelle contrade orientali”.

Annuì Erfea, sebbene non comprendesse appieno quanto il Messere gli avesse rivelato e il dubbio si insinuò nel suo cuore. “Non nutrire nel tuo animo simili sentimenti, figlio di Gilnar! Se anche tu fossi un uomo quale mai le vostre stirpi hanno ancora visto nascere e la tua lungimiranza fosse simile a quella di Manwe il Luminoso, pure la mia risposta sarebbe la medesima che ho pronunziato dinanzi a te! Molto sono note alla tua mente le vicende e le cronache dei tempi remoti e invero potresti apparire saggio, secondo il giudizio dei Figli minori di Iluvatar: sappi, tuttavia, che hai discernimento solo su quanto i tuoi sensi mortali hanno appreso nel corso della tua breve esistenza, e molto ti è ancora ignoto. Non dolerti per aver mancato la preda, ché avventato fu il tuo gesto e questo tu lo sai bene; gioisci, piuttosto, perché ti è stato concesso di apprendere una simile lezione, ché, altrimenti, mai i tuoi sensi avrebbero accettato”.
Chinò il capo Erfea ed egli infine comprese: “Messere, veritiere sono le vostre affermazioni, ché invero il mio cuore ha mostrato infinita arroganza e scarsa umiltà: lasciate, dunque, che io vi doni le spoglie del servo di Morgoth, affinché voi possiate esibirle come trofeo, ché, invero, senza il vostro soccorso, ora il segugio del Nord pasteggerebbe con le mie carni”.

Risero Tom e Baccador, infine il primo parlò: “Il vecchio Tom Bombadil non conserva simili cimeli, ché nella sua dimora sono accolti solo coloro nei quali il soffio vitale ancora spira, e non già coloro che più non sono; tuttavia, Erfea, sono certo che altri gradirebbero un simile trofeo”.

Annuì il Dunadan, e lieto si inchinò: “Grato è il mio animo, ché ora conosco il nome di colui che mi ha salvato la vita non già una volta, bensì due”.

Risero ancora i suoi anfitrioni, infine lo invitarono a prendere riposo, ché l’ora era tarda e le sue membra bisognose di sonno ristoratore; lesto, il principe di Numenor cadde preda del dolce oblio e il suo riposo non fu turbato da alcun suono orribile a udirsi.

Al mattino, egli prese congedo dal Messere e dalla sua dama, inchinandosi profondamente dinanzi a loro, allorché giunse l’ora dell’addio; lesta, tuttavia, Baccador porse al Numenoreano una veste che ella aveva intrecciato con le sue abili mani e sulla quale erano ricamati delicati intarsi; seta pareva, eppure Erfea ignorava con quale arte era stata tessuta, ché non erano visibili punti di giuntura ed essa riluceva alla calda luce di Anor; bianca pareva, tuttavia, allorché l’ombra di un vetusto albero o di una nube passeggera si posava su di essa, mutava colore e assumeva tonalità scure; se questo mutamento fosse dovuto al tessuto o ad altra causa, Erfea non era in grado di affermare.

Stupito, il principe dello Hyarrostar la ripose con grande cautela nella sacca che egli aveva seco, infine domandò alla dama del fiume a chi dovesse destinare un simile dono: “Nulla posso dirti a riguardo, giovane Uomo, eppure sono certa che il tuo cuore saprà rispondere a tale quesito meglio di quanto non possa fare la mia voce”. Grato, Erfea allora le prese la mano e la baciò dolcemente, parendogli la creatura più graziosa sulla quale avesse posato lo sguardo e non osando domandargli il suo nome; tuttavia, la Figlia del fiume parlò nuovamente e sussurrò queste parole: “Baccador io sono, custode della Selva e del Fiume: addio, Erfea di Numenor, possa il nostro ricordo accompagnarti lungo il tuo cammino, ché esso sarà arduo e difficile da percorrere; tuttavia, se il tuo cuore sarà saldo, giungerai sin dove Iluvatar ha decretato che tu debba spirare”».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 31-39.

Il primo incontro di Erfea con i Nazgul

Finora ho narrato le storie dei primi cinque Nazgul, evidenziandone le ragioni che hanno condotto ognuno di loro alla scelta tragica e fatale di accettare uno degli Anelli del Potere e cedere così il proprio libero arbitrio all’Oscuro Signore. Attraverso queste descrizioni, vi ho narrato di Stregoni, Sovrani, Guerrieri, la maggior parte di nobili stirpi, qualcuno di umili origini, ma tutti accomunati da una grande sete di potere e volontà di dominio.

Non ho, tuttavia, ancora spiegato in quale circostanza Erfea conobbe i Nazgul e i motivi che lo spinsero a combattere questi oscuri servitori del Nemico, di cui fu avversario spietato.

Quella che sto per narrarvi in questo articolo è la storia dell’incontro fra un giovanissimo principe numenoreano e un Nazgul che fu, oltre che stregone esperto di Arti Oscure e sovrano, incarichi che condivise anche con altri suoi pari, anche e soprattutto un uomo politico di primo piano nella società numenoreana. Una peculiarità, quest’ultima, che lo rende, a mio parere, forse il più pericoloso fra i Nazgul. Leggete e giudicate, aspetto i vostri commenti in proposito.

«”Signori e Dame di Numenor, Padri dell’Isola e Custodi dell’Antica Tradizione, vi invito a levare in alto i vostri preziosi calici, ché questa sera accogliamo coloro che molti anni hanno trascorso nelle contrade della Terra di Mezzo; brindiamo, dunque, ad Arthol e a Erfea, Cavalieri del Regno!”. Lungo fu l’applauso che i Signori e le Dame riservarono al giovane cavaliere allorché questi fu insignito del suo titolo; infine, l’araldo convocò Erfea, figlio di Gilnar, dinanzi a Palantir: al fianco del principe dello Hyarrostar era Amandil, suo parente, sebbene più anziano: giunto che fu innanzi al figlio di Ar-Gimilzor, egli chinò il capo ed estrasse Sulring dallo sdrucito fodero in cui era stata riposta per centinaia di anni: stupore si levò, allora, in tutta la sala, ché la lama era invero splendida e terribile a vedersi ed essa irradiava una forte luce azzurra, tale che molti furono costretti ad abbassare il capo, pur non comprendendone la ragione, a eccezione di uno.

Mai Erfea aveva posto il suo sguardo sulla maschera dorata che occultava il volto del principe del Forostar, ché questi era giunto a Numenor allorché egli dimorava nelle contrade della Terra di Mezzo e sconosciuto gli era finanche il nome, sebbene a costui fossero noti molti degli eventi che riguardavano l’esistenza di Erfea ed egli era fiero nemico della sua fazione, essendo degli Uomini del Re; eppure, non era un uomo vivente, come lo credevano i suoi alleati e i suoi servi, bensì uno spettro intriso di malvagità e di malizia, ché egli era invero Akhorahil il Re Tempesta, quinto in possanza fra i Nove Ulairi che servivano l’Oscuro Signore di Mordor, Sauron l’Aborrito. Il luogotenente di Morgoth l’aveva inviato a Numenor, ché fosse il suo araldo in tale contrada e ne diffondesse le abiette parole. Molto aveva appreso durante gli anni in cui si era stanziato ad Armenelos, ove, gli era stato attribuito il titolo di principe, ché invero possedeva molto denaro e i suoi mercenari incutevano timore in quanti tentavano di contrastarne la volontà: pure, Ar-Gimilzor l’aveva reputato utile ai suoi scopi, ché molto abbisognava dell’oro e dell’argento che giacevano nei suoi forzieri per corrompere quanti erano suoi avversari, sicché l’aveva colmato di doni e gli aveva affidato il feudo delle contrade settentrionali; grande era divenuta l’influenza di Akhorahil nelle sedute del Consiglio dello Scettro ed egli sovente inspirava nel suo sovrano azioni bieche e crudeli, tali che lo spirito di Ar-Gimilzor ne fu corrotto ed egli divenne presto schiavo del volere di Sauron, ché, invero, qualunque parola fosse stata pronunciata dal Nazgul, pure ne era questi l’ispiratore.

Spie degli Ulairi avevano riferito ad Akhorahil che l’erede di Gilnar era invero un possente guerriero e uno spirito lungimirante, sicché egli prese a detestarlo, pur non avendone ancora scorto le sembianze ed essendo riluttante a recarsi nella sua dimora, ché Gilnar non avrebbe tollerato la sua presenza nella terra natia e tosto l’avrebbe allontanato; a lungo, dunque, aveva atteso che Erfea gli si rivelasse e grande fu invero la sua ira e la sua paura, allorché si avvide che questi era stato armato di una lama elfica, ché essa era in grado di rivelare la presenza dei servi di Morgoth; pure, egli sorrideva, ché sapeva essere tale peculiarità un segreto noto a pochi fra i Signori di Numenor, sicché, per il momento, nulla aveva da temere. Tuttavia, non avrebbe tollerato che un simile Uomo fosse elevato a un rango che gli avrebbe attribuito notevole fama e chiese la parola: “Principi di Numenor, vi è tra voi chi ancora ricordi le leggi dei nostri padri, in tali tempi di decadenza e oblio? Perché, se alcuno fra coloro che sono seduti in tale luogo rimembrasse tali precetti, ecco che io non esiterei a chiamarlo fedifrago e il nome della sua casata sarebbe infangato da un simile disonore; tuttavia, tale è la mia opinione, il dolce nettare degli dei ha inebriato i cuori e le menti di molti dei presenti, sicché non è per me motivo di meraviglia intendere che nessuno sia in grado di ricordare quanto il mio cuore mai hai obliato. Concedetemi, dunque, di parlare a nome del glorioso sovrano, Ar-Gimilzor, il quale non è presente in tale consesso, affinché le leggi dei padri siano tosto rimembrate: l’erede di Gilnar, il cui sembiante mai avevo mirato sino a tale giorno, sebbene mai alcuno fra quanti hanno le loro dimore ad Armenelos gli abbia recato offesa – e dicendo questo, gli rivolse un profondo inchino – costui, dicevo, ha testé recato, innanzi a noi qui riuniti, una lama quale mai la legge dei nostri padri avrebbe permesso che fosse adoperata durante la cerimonia di investitura: essa, infatti, è una spada proveniente dall’antica città di Gondolin, non già da una delle nostre armerie”.

Tacque per un attimo, infine parlò nuovamente: “Leggo nei vostri sguardi lo stesso stupore e la stessa meraviglia che provai allorché questo giovane sguainò la sua arma dinanzi a noi: essa è una lama barbara e tale rivelazione sarebbe sufficiente per riempire me e voi di giusto sdegno; tuttavia, come se ciò non costituisse già una grave colpa, costui ha recato seco una spada stregata, la cui malsana luce incute timore in quanti osano guardarla. Non vi è alcun dubbio che il giovane, confuso dal vino e dai graziosi volti delle dame ivi presenti – e, a tale rivelazione, molti risero sommessamente – abbia obliato tale legge, né sarò io a chiedere che gli venga attribuita pena più grande di quella che la vergogna per tale rivelazione affliggerà il suo cuore: tuttavia, vedete bene come sia impossibile che tale othar aspiri alla carica che il principe Numendil gli offre”.

Silenzio echeggiò in tutta la sala, ché invero molti furono presi dal dubbio e rosi dall’inquietudine; tosto, tuttavia, si levò un brusio concitato, ché ognuno esprimeva la propria opinione ed essa sovente contrastava con quella del proprio vicino; infine, allorché la confusione parve raggiungere il culmine, si levò, chiara, la voce di Numendil: “Le leggi dei nostri padri prevedono quanto tu hai ricordato, principe Akhorahil; eppure, esse stabiliscono che sia l’investitore a giudicare se l’arma con la quale l’othar si presenti per la cerimonia possa considerarsi valida o meno: stando così le cose, io non mi opporrò alla nomina di Erfea di Numenor, ora Capitano della Cavalleria del Regno”. Alte grida di approvazione si levarono allora da coloro che erano del partito dei Fedeli, ché essi speravano venir meno in tal modo la richiesta di Akhorahil; costui, tuttavia, non esitò a parlare nuovamente e, sebbene una furia cieca si agitasse nel suo oscuro animo, seppe abilmente occultarla: “Ai voti! Si metta dunque ai voti la nomina di Erfea, figlio di Gilnar, a capitano della cavalleria del regno!”. Numendil, sebbene fosse profondamente turbato, non poté esimersi dall’accettare una simile richiesta, ché egli era Sovrintendente del Regno e Alto Custode delle Leggi e della Tradizione, sicché, mostrando grande riluttanza, pure fu costretto a cedere. Sorrise in cuor suo il Nazgul, ché egli credeva sarebbe giunta facilmente la vittoria: gli Uomini del Re, infatti, erano in maggioranza ed essi avrebbero seguito il suo volere, mostrandosi avversi alla proposta che Numendil aveva fatto propria; grande fu, tuttavia, la sua sorpresa, allorché risultò che egli era stato battuto, ché alcuni fra i Signori di Numenor del suo partito, spaventati dai successi che il principe del Forostar aveva accumulato negli ultimi tempi, erano stati propensi ad attribuire la contestata carica a Erfea, piuttosto che a osservare accrescersi l’influenza del Nazgul a corte: furente in volto, Akhorahil abbandonò l’aula, giurando che avrebbe ottenuto la sua vendetta sul figlio di Gilnar».

«Il Ciclo del Marinaio», pp. 44-48.