Prosegue la narrazione dell’assedio di Osgiliath. In queste pagine Erfea e i suoi compagni discutono intorno alla follia della guerra, capace solo di recare lutti a quanti la combattono e riflettono sulle colpe dei Numenoreani nell’aver spinto i popoli del Sud e dell’Est ad allearsi con Sauron. Buona lettura!
«Infine l’oscurità opprimente disparve dal cuore dei liberi popoli ed essi accorsero ad armarsi: manipoli di fanti furono formati e i cavalieri montarono sui loro destrieri, mentre gli arcieri correvano a schierarsi lungo le mura e incoccavano nere frecce dalla punta acuminata. Simili a un’oscura marea, simili a una fiamma destatasi a oriente che nel suo percorso consumi ogni cosa che incontri, così le truppe di Mordor mossero all’attacco e il secondo assedio di Osgiliath ebbe inizio; possenti macchine da guerra, spinte da bestie senza nome, furono avvicinate alle bianche mura che nessun nemico aveva mai oltrepassato, mentre cavalieri provenienti dalle remote contrade del Khand e dall’Harad cavalcavano rapidi attorno alla città, scuotendo corte aste sugli scudi guarniti di punte acuminate in bronzo e di oscene figure in oro; crudeli capitani aizzavano le loro truppe e l’eco delle loro alte voci giungeva alla città. Esterling, armati da pesanti mazze e da scuri in ferro, si inerpicavano sulle rozze passerelle che dalle alte torri d’assedio sporgevano, mentre arcieri giunti dalle terre dei Chey a meridione e frombolieri delle isole di Wolim bersagliavano di proiettili avvelenati i soldati dell’Alleanza. Nessun Orco, né Uomo fu risparmiato dal Re Stregone durante il suo attacco alla città; eppure, la forza e il coraggio dei Figli di Iluvatar non vennero meno e nel cuore del condottiero delle schiere di Mordor crebbe l’odio per coloro che si opponevano con tenacia e successo ai piani del suo padrone: algidi arcieri elfici, la cui maestria è divenuta leggendaria nel corso dei secoli, colpivano senza esitazione i fanti delle schiere di Mordor e nessuna freccia mancò il bersaglio; Nani, il cui spirito battagliero era stato temprato da innumerevoli scontri con le schiere del Maia Caduto, impedivano agli Orchi di stabilire una testa di ponte sulle mura e questi trovarono la morte in gran quantità, i loro miseri corpi squarciati dalle asce dei Figli di Aule o fatti precipitare dalle scale da abili tiri degli arcieri elfici e gondoriani. Gli Eothraim si disposero lungo le mura di Osgiliath, sì larghe da poter consentire a tre Uomini a cavallo di manovrare e finanche di caricare, facendo strage di quanti, risparmiati dalle frecce, riuscivano ad approdare sugli spalti; fanti gondoriani, armati di lunghe spade e possenti scudi trucidavano i soldati di Mordor e sovente riuscivano a incendiare le massicce torre mobili; allorché una di queste prendeva fuoco, coloro che erano all’interno perivano a causa del grande calore che esse sviluppavano e l’assedio subiva una pausa. Per giorni e notti si combattè nella Città delle Stelle e le schiere di Mordor erano sbigottite dalla resistenza che i Popoli Liberi opponevano loro; esigua, tuttavia, era l’armata dei difensori e sebbene il valore compensasse l’inferiorità di numero, pure essi si ridussero progressivamente, né giungevano altri rinforzi a Osgiliath. Erfea Morluin non si era risparmiato negli aspri combattimenti che erano sorti sulle mura e nei pressi del cancello, sì che il suo mantello era stato marchiato in più di un’occasione dal vermiglio marchio del coraggio; pure, egli esortava sovente i suoi Uomini a resistere, ché era conscio di quale valore avesse per il nemico la presa della città: conquistato il passaggio del fiume, infatti, le sue armate si sarebbero impadronite con facilità di Minas Anor e le truppe dell’Alleanza, posto che avessero ancora avuto la forza di radunarsi e di correre in soccorso delle genti del Sud, non avrebbero trovato altro che rovine e morti.
Una mattina di giugno, il Sovrintendente di Gondor si inerpicò sugli spalti del cancello orientale, mentre l’assedio subiva una pausa e gli Orchi e le altre creature dell’Oscuro Signore erano rintanate nei loro bivacchi, festeggiando quella che pareva essere loro una vittoria prossima; nessun altro era con lui, ché Groin e Bor erano intenti a verificare quali danni avessero subito gli edifici e le mura, mentre Edheldin e Glorfindel assistevano i feriti ricoverati nelle Case di Guarigione con l’ausilio dell’Antica Arte Medica dei Noldor in esilio, e Herim ed Herugil si occupavano dell’addestramento dei nuovi soldati e dell’approvvigionamento delle truppe. Stupore dunque si dipinse sul volto di Erfea, allorché egli scorse Ariel e Aldor affacciati alla balaustra dell’ampia terrazza che circondava il palazzo reale; i loro visi non erano visibili, né le affettuose parole che si scambiavano erano echeggiate nell’orecchio del Dunadan, ché il vento soffiava da ponente e conduceva con sé ratto ogni suono proveniente dalla città. Lesti si voltarono tuttavia i due capitani allorché percepirono il pesante passo del Numenoreano e la luce che brillava nei loro volti tradì quanto i loro cuori non osavano confessare: “Quali notizie, Erfea, dal capezzale del sovrano? Riuscirà Anarion a sopravvivere al triste fato che l’ha colpito?” gli domandà Aldor Roch-Thalion.
A lungo inspirò il figlio di Gilnar, prima di rispondere a tale quesito, la mente e il cuore immersi nel ricordo di giorni perduti e ormai remoti; infine egli rispose, pronunziando stanche parole: “Un grave morbo ha debilitato il nostro sire ed egli vaneggia, senza tuttavia riuscire a recuperare lucidità e vigore; sovente l’ho udito nelle notte gemere e Meneldil, erede del sovrano, si erge accanto a suo padre, scuro in volto, senza pronunciare parola alcuna; nessuno fra coloro che conoscono l’antica Arte delle Erbe comprende l’origine del male che ha colpito Anarion, figlio di Elendil, anche se vi è chi suppone possa essere stato colpito da una lama infetta di un qualche veleno quale la nostra arte e quella degli Eldar non è in grado di curare”. Triste, il volto di Erfea mirò la pianura sotto di sé, infine esclamò: “Quanta morte mirano i miei occhi! Infiniti sono i corpi che giacciono abbandonati nel campo della battaglia, oltraggiati dagli uccelli rapaci e dai cani famelici; eppure, io credo che massima offesa provenga non già da simili bestie, feroci per natura e istinto, bensì dalla follia degli Uomini che ha condotto tanti dei loro simili a codesto triste sentiero”. Silente Ariel osservò il volto del sire Dunadan e scorse pietà e rimorso nel suoi occhi; stupita allora lo osservò, perché aveva sempre creduto che egli fosse un Uomo d’arme e non già depositario di una saggezza come pochi fra i Secondogeniti potevano vantare di possedere; timore e reverenza sorsero nel suo cuore e sebbene il suo spirito fosse quello di una rude guerriera del Nord, poco avvezza alle cortesi parole che sovente i Dunedain erano soliti scambiare fra loro finanche in tempi oscuri, pure ella gli sfiorò il viso, commossa. Sorrise allora Erfea e per un istante la malinconia che attanagliava il suo cuore parve scomparire; tosto, tuttavia, egli si incupì nuovamente e il suo sguardo si diresse lungi da Osgiliath, fino ai contrafforti montuosi dell’Ephel Duath; oscure nubi, prodotte dalle continue eruzioni che scuotevano in quei giorni l’Orodruin, lambivano il cielo a oriente e occultavano alla vista del Dunadan numerose legioni del Nemico; invisibili sembravano costoro, eppure, tale era la malvagità che le animava, che Erfea non poteva ignorarne la presenza. Al suo fianco, Aldor Roch-Thalion si ergeva silente; non paventava lo scontro con le schiere del Nemico, ché il suo popolo era spietato e molto lo temevano gli Orchi e gli altri servi di Sauron: guerriero implacabile, pure nel suo cuore l’Alto Theng del Rhovanion desiderava che tale guerra si concludesse quanto prima, ché molto la sua gente aveva sofferto e, sebbene egli non comprendesse appieno le parole che il Numenoreano aveva testé pronunciato, pure il suo animo era sconvolto dalle inaudite crudeltà che le schiere del nemico avevano inflitto ai prigionieri e ai caduti, torturandoli senza pietà alcuna e lasciandone i miseri resti agli aberranti lupi di Dwar e alle altre fameliche bestie di Sauron.
“Ben dici, Sovrintendente di Gondor, allorché affermi che tali Uomini sono periti a causa della follia e dell’arroganza; eppure, concorderai con me che essi sarebbero morti comunque e che tale fato rappresenti quanto di più nobile un guerriero possa desiderare. Nella spada e nella lancia, ogni soldato trova il compimento del proprio destino”. Erfea sospirò, infine così gli rispose: “Veritiere sono le tue parole, eppure non dimenticare che coloro i cui corpi giacciono desolati sulla pianura avrebbero potuto interprandere un percorso differente, se l’Oscuro Signore fosse stato sconfitto molti secoli prima e il suo spirito giacesse ora nelle Aule al di fuori del tempo e dello spazio. Forse é vero che il miglior giaciglio per un guerriero sono lo scudo e il lacero manto di cui è ricoperto, tuttavia io non credo che tale dovesse essere il destino ultimo dei Figli di Iluvatar, ché se non fosse stato per la vile azione di Morgoth e dei suoi servi, nessuna lama avrebbe baluginato nell’oscurità, né una freccia sarebbe stata scagliata imperiosa”. “Sagge sono le tue parole e non sarò io a metterle in discussione – interloquì allora Ariel – ché sei invero un Uomo savio e lungimirante; tuttavia, mi chiedo se tale responsabilità non sia da attribuire anche a coloro che seguirono la stolta volontà dei Signori della Tenebra: giorni fa, ci narrasti quali vicende condussero coloro che un tempo erano Uomini rinomati per la loro fama e forza a cederle all’Oscuro Signore, nell’illusoria promessa di ottenere da costui immortalità e gloria eterna; eppure costoro gli cedettero l’anima e rinunciarono al libero arbitrio, divenendo in tal modo i Nazgul, gli Schiavi dell’Anello. Non furono forse costoro malvagi fin da quando erano mortali, e non fu forse l’insana arroganza a condurne i destini verso una schiavitù eterna?”.“Quanto dici corrisponde solo in parte al vero, Ariel figlia di Aran; sappi, infatti, che neppure i Nazgul erano malvagi fin dalla nascita e che i loro animi furono corrotti dalla inopportune scelte che essi compirono. I racconti tramandataci dai Noldor affermano che finanche Sauron non si erse dal principio del mondo come seduttore dei Figli di Iluvatar, ché, in verità, egli era del popolo di Aule: quanto poi gli accadde in seguito, dimostra che nessun spirito è stato creato malvagio da Iluvatar, ché fu Melkor a desiderare che il tema della Musica fosse mutato a beneficio della sua gloria e della sua fama, ché molto desiderava creare la vita; eppure, sappiate questo, capitani dei Popoli Liberi, che solo Eru Iluvatar è il custode della Fiamma Imperitura, la stessa dalla quale ogni forma di vita su Arda ha avuto origine, e che neppure lo stesso Morgoth è stato in grado di conquistare. La vita e il dono del libero arbitrio sono stati affidati dall’Uno agli Uomini perché fossero adoperati come doni; eppure, sovente Morgoth e i suoi servi hanno ispirato nel cuore dei Secondogeniti angoscia e timore e reso tali doni una schiavitù che a molti è parsa insopportabile e intollerabile”. Aldor allora parlò: “Se quanto tu affermi corrisponde a verità, allora il potere del nemico è invero grande, se riesce ad attrarre a sé un gran numero di servi; poca pietà prova tuttavia il mio cuore per loro, ché molta sofferenza arrecarono ai nostri popoli e i loro nomi sono maledetti. Non rechi nel tuo cuore il medesimo astio che anima i miei sentimenti in tale ora oscura?”.“Signore del Rhovanion, davvero credi che le schiere dei Secondogeniti siano composte solo da Uomini che desiderano la distruzione dell’Ovest? Se tale è il tuo pensiero, allora sappi che è mendace, ché molti fra gli Uomini che servono Sauron sono stati attratti da menzogne infide; grave responsabilità hanno avuto, nell’aver contribuito a tale seduzione degli Uomini da parte di Sauron, gli scellerati atti che i Numenoreani fedeli al Partito del Re compirono a danno di tali popolazioni; molti fra coloro che oggi combattiamo, non hanno obliato i massacri che i loro padri subirono a causa della follia delle schiere di Tar-Ciryatan e dei suoi figli, e adesso la sete di vendetta si agita nei loro cuori. Quanto a me – soggiunse, scuro in volto – nel mio cuore provo pietà per codesti Uomini, ingannati da colui che ora noi combattiamo”. A lungo rifletté Ariel sulle parole che il Sovrintendente di Gondor aveva adoperato, infine così gli rispose: “Forse vuoi dire che il tuo animo e la tua mente sono colmi di tristezza per il destino di coloro che hanno oltraggiato le donne del tuo popolo e che hanno condotto alla perdita di Minas Ithil? Forse non vi è dolore nel tuo cuore per i guerrieri figli del tuo popolo che ora giacciono nella piana?” Furente era in volto il capitano delle Amazzoni ed ella si attendeva una veemente risposta da parte di Erfea: nessuna parola, tuttavia, fu pronunciata dalla bocca del Sovrintendente, che si limitò a osservare con i suoi chiari occhi la sua interlocutrice, finché questa, colma di vergogna e dolore, non abbassò lo sguardo e le lacrime ornarono le sue gote; allora Erfea parlò, ma non vi era rabbia nelle sue tristi parole: “Non una sola vita, ma due, a me infinitamente care, furono infrante dalla crudeltà delle armate di Sauron e nessuna vittoria sulla gente dell’Avversario potrà restituirmi Miriel di Numenor ed Elwen di Edhellond, il cui destino ultimo è noto a me soltanto; tuttavia, sebbene il ricordo di tali vicende non abbandoni mai il mio animo, ritengo che un cuore provato dalla malvagità e dalla follia degli Uomini, sia sovente condotto ad analoghe azioni infami. Nessuno, fra coloro che chiudono il proprio cuore ai saggi moniti che provengono da Valie, può sperare che simili avversità non colpiscano anche loro; e se non vi è dubbio che gli Haradrim e gli Esterling siano da condannare per la loro adesione alla causa del Nemico, pure, non meno grave è la colpa delle armate numenoreane dei secoli trascorsi, che molto sparsero sangue nella Terra di Mezzo, rendendo gli animi degli altri Secondogeniti deboli, perché permeati dal desiderio di vendetta, e succubi ai voleri di colui che fece dell’inganno il suo strumento di dominio sulle altre stirpi”.
Più discorso fu pronunciato quel giorno e per lungo tempo Erfea non scambiò parola con alcuno dei capitani, la mente e il cuore rivolti altrove; infine, una mattina, furono uditi squillare numerosi corni nella piana e gli eserciti di Mordor si prepararono ad avanzare nuovamente; leste squillarono le trombe nella città e i soldati dell’Alleanza corsero ad armarsi, consapevoli che tale assedio avrebbe potuto essere l’ultimo per la Bianca Città, ché erano state fatte avanzare le possenti macchine d’assedio forgiate nell’oscurità delle fucine di Barad-Dur dai Nani appartenenti alla stirpe di Bavor; i poderosi trabucchi, i cui imponenti bracci erano assicurati alle massicce strutture in legno e acciaio che ne sorreggevano l’enorme peso, furono condotti avanti da bestie senza nome, quali mai erano state avvistate fino a quel momento. Presagendo in cuor suo gravi sventure, il figlio di Gilnar accorse al cancello, mirando, stupefatto e atterrito, l’enorme arsenale di guerra che il nemico muoveva contro la Città delle Stelle; al suo fianco era Glorfindel, Signore dei Noldor in esilio, la cui bionda capigliatura strideva palesemente con la tenebra che colmava l’aria attorno a loro. “Maledetta sia la stirpe di Bavor l’Infame, ché le sue creazioni belliche molti danni provocheranno alla nostra città; se il mio cuore avesse presagito che saremmo giunti a tale ora buia e senza speme, mai avrei desiderato che Iluvatar avesse concesso perdono ad Aule allorché costui forgiò dalla roccia i sette Padri dei Nani”. “Gravi sono le tue parole ed ecco che il mio animo teme per te, Glorfindel di Rivendell, ché mai ti avevo sentito parlare in maniera sì stolta – gli rispose Erfea, scuro in volto – Non obliare che fra coloro che servono l’Oscuro Signore di Mordor vi è anche un rinomato artista della tua stirpe, e, sebbene egli sia così vile da non desiderare incrociare la sua spada con coloro che appartengono al suo lignaggio, pure ha preso parte a innumerevoli malvagità dacché Sauron corruppe Celebrimbor e si appropriò dei segreti di forgiatura dei Noldor dell’Eregion; non solo i Naugrim di Bavor servono nei suoi eserciti, ma anche Numenoreani e altre stirpi di Uomini: codesto ti sembra forse un motivo opportuno per desiderare la distruzione di tali razze? Non essere sì drastico nei tuoi giudizi, ché nessuna stirpe fu creata da Iluvatar per servire il Nemico e coloro che ne seguono l’insegna in battaglia non possono invocare sui loro lignaggi la maledizione delle Libere Genti, ché molti fra i Naugrim, gli Eldar e gli Edain combattono per la nostra causa e mai hanno compiuto atti di fellonia”. Profondamente pentito per quanto la sua bocca aveva testé pronunciato, Glorfindel fece un breve inchino, infine si rivolse a Erfea: “Ti chiedo perdono, Signore dei Dunedain, ché non ero io a pronunciare tali parole ricolme di odio e rancore, ma la paura che parlava in me; ora m’avvedo quanto la speme non sia smarrita nei cuori degli Uomini, ché, se perfino in tali giorni di terrore i loro cuori rimangono saldi, allora nulla è perduto e il volere di Iluvatar sarà seguito; molti anni dovranno tuttavia trascorrere prima che il mondo appartenga ai Secondogeniti e numerose canzoni allieteranno ancora il mio popolo”. “Triste sarà il giorno in cui l’ultima nave abbandonerà i lidi orientali; tuttavia, poiché tale destino è ancora lungi dal compiersi, affrontiamo adesso il male che affligge il nostro mondo, ché fratelli siamo stati creati e a unico scopo destinati, né, finché in Arda il nome dei Valar sarà benedetto, la grazia e la possanza dei figli dell’Unico saranno obliate!”. Lieti, i due capitani si strinsero la mano e si ritirarono ciascuno alle proprie posizioni, onde evitare che i servi di Sauron si impadronissero del ponte e del cancello; tuttavia, sebbene numerosi atti di valore fossero compiuti in quei giorni e le schiere di Mordor subissero gravissime perdite, pure numerosi edifici della città furono rasi al suolo dai proiettili che i trabucchi dell’Avversario scagliavano con notevole precisione al di là del muro di cinta».
Il Ciclo del Marinaio, pp. 281-289