In difesa di Osgiliath (III parte)

Prosegue la narrazione dell’assedio di Osgiliath. In queste pagine Erfea e i suoi compagni discutono intorno alla follia della guerra, capace solo di recare lutti a quanti la combattono e riflettono sulle colpe dei Numenoreani nell’aver spinto i popoli del Sud e dell’Est ad allearsi con Sauron. Buona lettura!

«Infine l’oscurità opprimente disparve dal cuore dei liberi popoli ed essi accorsero ad armarsi: manipoli di fanti furono formati e i cavalieri montarono sui loro destrieri, mentre gli arcieri correvano a schierarsi lungo le mura e incoccavano nere frecce dalla punta acuminata. Simili a un’oscura marea, simili a una fiamma destatasi a oriente che nel suo percorso consumi ogni cosa che incontri, così le truppe di Mordor mossero all’attacco e il secondo assedio di Osgiliath ebbe inizio; possenti macchine da guerra, spinte da bestie senza nome, furono avvicinate alle bianche mura che nessun nemico aveva mai oltrepassato, mentre cavalieri provenienti dalle remote contrade del Khand e dall’Harad cavalcavano rapidi attorno alla città, scuotendo corte aste sugli scudi guarniti di punte acuminate in bronzo e di oscene figure in oro; crudeli capitani aizzavano le loro truppe e l’eco delle loro alte voci giungeva alla città. Esterling, armati da pesanti mazze e da scuri in ferro, si inerpicavano sulle rozze passerelle che dalle alte torri d’assedio sporgevano, mentre arcieri giunti dalle terre dei Chey a meridione e frombolieri delle isole di Wolim bersagliavano di proiettili avvelenati i soldati dell’Alleanza. Nessun Orco, né Uomo fu risparmiato dal Re Stregone durante il suo attacco alla città; eppure, la forza e il coraggio dei Figli di Iluvatar non vennero meno e nel cuore del condottiero delle schiere di Mordor crebbe l’odio per coloro che si opponevano con tenacia e successo ai piani del suo padrone: algidi arcieri elfici, la cui maestria è divenuta leggendaria nel corso dei secoli, colpivano senza esitazione i fanti delle schiere di Mordor e nessuna freccia mancò il bersaglio; Nani, il cui spirito battagliero era stato temprato da innumerevoli scontri con le schiere del Maia Caduto, impedivano agli Orchi di stabilire una testa di ponte sulle mura e questi trovarono la morte in gran quantità, i loro miseri corpi squarciati dalle asce dei Figli di Aule o fatti precipitare dalle scale da abili tiri degli arcieri elfici e gondoriani. Gli Eothraim si disposero lungo le mura di Osgiliath, sì larghe da poter consentire a tre Uomini a cavallo di manovrare e finanche di caricare, facendo strage di quanti, risparmiati dalle frecce, riuscivano ad approdare sugli spalti; fanti gondoriani, armati di lunghe spade e possenti scudi trucidavano i soldati di Mordor e sovente riuscivano a incendiare le massicce torre mobili; allorché una di queste prendeva fuoco, coloro che erano all’interno perivano a causa del grande calore che esse sviluppavano e l’assedio subiva una pausa. Per giorni e notti si combattè nella Città delle Stelle e le schiere di Mordor erano sbigottite dalla resistenza che i Popoli Liberi opponevano loro; esigua, tuttavia, era l’armata dei difensori e sebbene il valore compensasse l’inferiorità di numero, pure essi si ridussero progressivamente, né giungevano altri rinforzi a Osgiliath. Erfea Morluin non si era risparmiato negli aspri combattimenti che erano sorti sulle mura e nei pressi del cancello, sì che il suo mantello era stato marchiato in più di un’occasione dal vermiglio marchio del coraggio; pure, egli esortava sovente i suoi Uomini a resistere, ché era conscio di quale valore avesse per il nemico la presa della città: conquistato il passaggio del fiume, infatti, le sue armate si sarebbero impadronite con facilità di Minas Anor e le truppe dell’Alleanza, posto che avessero ancora avuto la forza di radunarsi e di correre in soccorso delle genti del Sud, non avrebbero trovato altro che rovine e morti.

Una mattina di giugno, il Sovrintendente di Gondor si inerpicò sugli spalti del cancello orientale, mentre l’assedio subiva una pausa e gli Orchi e le altre creature dell’Oscuro Signore erano rintanate nei loro bivacchi, festeggiando quella che pareva essere loro una vittoria prossima; nessun altro era con lui, ché Groin e Bor erano intenti a verificare quali danni avessero subito gli edifici e le mura, mentre Edheldin e Glorfindel assistevano i feriti ricoverati nelle Case di Guarigione con l’ausilio dell’Antica Arte Medica dei Noldor in esilio, e Herim ed Herugil si occupavano dell’addestramento dei nuovi soldati e dell’approvvigionamento delle truppe. Stupore dunque si dipinse sul volto di Erfea, allorché egli scorse Ariel e Aldor affacciati alla balaustra dell’ampia terrazza che circondava il palazzo reale; i loro visi non erano visibili, né le affettuose parole che si scambiavano erano echeggiate nell’orecchio del Dunadan, ché il vento soffiava da ponente e conduceva con sé ratto ogni suono proveniente dalla città. Lesti si voltarono tuttavia i due capitani allorché percepirono il pesante passo del Numenoreano e la luce che brillava nei loro volti tradì quanto i loro cuori non osavano confessare: “Quali notizie, Erfea, dal capezzale del sovrano? Riuscirà Anarion a sopravvivere al triste fato che l’ha colpito?” gli domandà Aldor Roch-Thalion.

A lungo inspirò il figlio di Gilnar, prima di rispondere a tale quesito, la mente e il cuore immersi nel ricordo di giorni perduti e ormai remoti; infine egli rispose, pronunziando stanche parole: “Un grave morbo ha debilitato il nostro sire ed egli vaneggia, senza tuttavia riuscire a recuperare lucidità e vigore; sovente l’ho udito nelle notte gemere e Meneldil, erede del sovrano, si erge accanto a suo padre, scuro in volto, senza pronunciare parola alcuna; nessuno fra coloro che conoscono l’antica Arte delle Erbe comprende l’origine del male che ha colpito Anarion, figlio di Elendil, anche se vi è chi suppone possa essere stato colpito da una lama infetta di un qualche veleno quale la nostra arte e quella degli Eldar non è in grado di curare”. Triste, il volto di Erfea mirò la pianura sotto di sé, infine esclamò: “Quanta morte mirano i miei occhi! Infiniti sono i corpi che giacciono abbandonati nel campo della battaglia, oltraggiati dagli uccelli rapaci e dai cani famelici; eppure, io credo che massima offesa provenga non già da simili bestie, feroci per natura e istinto, bensì dalla follia degli Uomini che ha condotto tanti dei loro simili a codesto triste sentiero”. Silente Ariel osservò il volto del sire Dunadan e scorse pietà e rimorso nel suoi occhi; stupita allora lo osservò, perché aveva sempre creduto che egli fosse un Uomo d’arme e non già depositario di una saggezza come pochi fra i Secondogeniti potevano vantare di possedere; timore e reverenza sorsero nel suo cuore e sebbene il suo spirito fosse quello di una rude guerriera del Nord, poco avvezza alle cortesi parole che sovente i Dunedain erano soliti scambiare fra loro finanche in tempi oscuri, pure ella gli sfiorò il viso, commossa. Sorrise allora Erfea e per un istante la malinconia che attanagliava il suo cuore parve scomparire; tosto, tuttavia, egli si incupì nuovamente e il suo sguardo si diresse lungi da Osgiliath, fino ai contrafforti montuosi dell’Ephel Duath; oscure nubi, prodotte dalle continue eruzioni che scuotevano in quei giorni l’Orodruin, lambivano il cielo a oriente e occultavano alla vista del Dunadan numerose legioni del Nemico; invisibili sembravano costoro, eppure, tale era la malvagità che le animava, che Erfea non poteva ignorarne la presenza. Al suo fianco, Aldor Roch-Thalion si ergeva silente; non paventava lo scontro con le schiere del Nemico, ché il suo popolo era spietato e molto lo temevano gli Orchi e gli altri servi di Sauron: guerriero implacabile, pure nel suo cuore l’Alto Theng del Rhovanion desiderava che tale guerra si concludesse quanto prima, ché molto la sua gente aveva sofferto e, sebbene egli non comprendesse appieno le parole che il Numenoreano aveva testé pronunciato, pure il suo animo era sconvolto dalle inaudite crudeltà che le schiere del nemico avevano inflitto ai prigionieri e ai caduti, torturandoli senza pietà alcuna e lasciandone i miseri resti agli aberranti lupi di Dwar e alle altre fameliche bestie di Sauron.

“Ben dici, Sovrintendente di Gondor, allorché affermi che tali Uomini sono periti a causa della follia e dell’arroganza; eppure, concorderai con me che essi sarebbero morti comunque e che tale fato rappresenti quanto di più nobile un guerriero possa desiderare. Nella spada e nella lancia, ogni soldato trova il compimento del proprio destino”. Erfea sospirò, infine così gli rispose: “Veritiere sono le tue parole, eppure non dimenticare che coloro i cui corpi giacciono desolati sulla pianura avrebbero potuto interprandere un percorso differente, se l’Oscuro Signore fosse stato sconfitto molti secoli prima e il suo spirito giacesse ora nelle Aule al di fuori del tempo e dello spazio. Forse é vero che il miglior giaciglio per un guerriero sono lo scudo e il lacero manto di cui è ricoperto, tuttavia io non credo che tale dovesse essere il destino ultimo dei Figli di Iluvatar, ché se non fosse stato per la vile azione di Morgoth e dei suoi servi, nessuna lama avrebbe baluginato nell’oscurità, né una freccia sarebbe stata scagliata imperiosa”. “Sagge sono le tue parole e non sarò io a metterle in discussione – interloquì allora Ariel – ché sei invero un Uomo savio e lungimirante; tuttavia, mi chiedo se tale responsabilità non sia da attribuire anche a coloro che seguirono la stolta volontà dei Signori della Tenebra: giorni fa, ci narrasti quali vicende condussero coloro che un tempo erano Uomini rinomati per la loro fama e forza a cederle all’Oscuro Signore, nell’illusoria promessa di ottenere da costui immortalità e gloria eterna; eppure costoro gli cedettero l’anima e rinunciarono al libero arbitrio, divenendo in tal modo i Nazgul, gli Schiavi dell’Anello. Non furono forse costoro malvagi fin da quando erano mortali, e non fu forse l’insana arroganza a condurne i destini verso una schiavitù eterna?”.“Quanto dici corrisponde solo in parte al vero, Ariel figlia di Aran; sappi, infatti, che neppure i Nazgul erano malvagi fin dalla nascita e che i loro animi furono corrotti dalla inopportune scelte che essi compirono. I racconti tramandataci dai Noldor affermano che finanche Sauron non si erse dal principio del mondo come seduttore dei Figli di Iluvatar, ché, in verità, egli era del popolo di Aule: quanto poi gli accadde in seguito, dimostra che nessun spirito è stato creato malvagio da Iluvatar, ché fu Melkor a desiderare che il tema della Musica fosse mutato a beneficio della sua gloria e della sua fama, ché molto desiderava creare la vita; eppure, sappiate questo, capitani dei Popoli Liberi, che solo Eru Iluvatar è il custode della Fiamma Imperitura, la stessa dalla quale ogni forma di vita su Arda ha avuto origine, e che neppure lo stesso Morgoth è stato in grado di conquistare. La vita e il dono del libero arbitrio sono stati affidati dall’Uno agli Uomini perché fossero adoperati come doni; eppure, sovente Morgoth e i suoi servi hanno ispirato nel cuore dei Secondogeniti angoscia e timore e reso tali doni una schiavitù che a molti è parsa insopportabile e intollerabile”. Aldor allora parlò: “Se quanto tu affermi corrisponde a verità, allora il potere del nemico è invero grande, se riesce ad attrarre a sé un gran numero di servi; poca pietà prova tuttavia il mio cuore per loro, ché molta sofferenza arrecarono ai nostri popoli e i loro nomi sono maledetti. Non rechi nel tuo cuore il medesimo astio che anima i miei sentimenti in tale ora oscura?”.“Signore del Rhovanion, davvero credi che le schiere dei Secondogeniti siano composte solo da Uomini che desiderano la distruzione dell’Ovest? Se tale è il tuo pensiero, allora sappi che è mendace, ché molti fra gli Uomini che servono Sauron sono stati attratti da menzogne infide; grave responsabilità hanno avuto, nell’aver contribuito a tale seduzione degli Uomini da parte di Sauron, gli scellerati atti che i Numenoreani fedeli al Partito del Re compirono a danno di tali popolazioni; molti fra coloro che oggi combattiamo, non hanno obliato i massacri che i loro padri subirono a causa della follia delle schiere di Tar-Ciryatan e dei suoi figli, e adesso la sete di vendetta si agita nei loro cuori. Quanto a me – soggiunse, scuro in volto – nel mio cuore provo pietà per codesti Uomini, ingannati da colui che ora noi combattiamo”. A lungo rifletté Ariel sulle parole che il Sovrintendente di Gondor aveva adoperato, infine così gli rispose: “Forse vuoi dire che il tuo animo e la tua mente sono colmi di tristezza per il destino di coloro che hanno oltraggiato le donne del tuo popolo e che hanno condotto alla perdita di Minas Ithil? Forse non vi è dolore nel tuo cuore per i guerrieri figli del tuo popolo che ora giacciono nella piana?” Furente era in volto il capitano delle Amazzoni ed ella si attendeva una veemente risposta da parte di Erfea: nessuna parola, tuttavia, fu pronunciata dalla bocca del Sovrintendente, che si limitò a osservare con i suoi chiari occhi la sua interlocutrice, finché questa, colma di vergogna e dolore, non abbassò lo sguardo e le lacrime ornarono le sue gote; allora Erfea parlò, ma non vi era rabbia nelle sue tristi parole: “Non una sola vita, ma due, a me infinitamente care, furono infrante dalla crudeltà delle armate di Sauron e nessuna vittoria sulla gente dell’Avversario potrà restituirmi Miriel di Numenor ed Elwen di Edhellond, il cui destino ultimo è noto a me soltanto; tuttavia, sebbene il ricordo di tali vicende non abbandoni mai il mio animo, ritengo che un cuore provato dalla malvagità e dalla follia degli Uomini, sia sovente condotto ad analoghe azioni infami. Nessuno, fra coloro che chiudono il proprio cuore ai saggi moniti che provengono da Valie, può sperare che simili avversità non colpiscano anche loro; e se non vi è dubbio che gli Haradrim e gli Esterling siano da condannare per la loro adesione alla causa del Nemico, pure, non meno grave è la colpa delle armate numenoreane dei secoli trascorsi, che molto sparsero sangue nella Terra di Mezzo, rendendo gli animi degli altri Secondogeniti deboli, perché permeati dal desiderio di vendetta, e succubi ai voleri di colui che fece dell’inganno il suo strumento di dominio sulle altre stirpi”.

Più discorso fu pronunciato quel giorno e per lungo tempo Erfea non scambiò parola con alcuno dei capitani, la mente e il cuore rivolti altrove; infine, una mattina, furono uditi squillare numerosi corni nella piana e gli eserciti di Mordor si prepararono ad avanzare nuovamente; leste squillarono le trombe nella città e i soldati dell’Alleanza corsero ad armarsi, consapevoli che tale assedio avrebbe potuto essere l’ultimo per la Bianca Città, ché erano state fatte avanzare le possenti macchine d’assedio forgiate nell’oscurità delle fucine di Barad-Dur dai Nani appartenenti alla stirpe di Bavor; i poderosi trabucchi, i cui imponenti bracci erano assicurati alle massicce strutture in legno e acciaio che ne sorreggevano l’enorme peso, furono condotti avanti da bestie senza nome, quali mai erano state avvistate fino a quel momento. Presagendo in cuor suo gravi sventure, il figlio di Gilnar accorse al cancello, mirando, stupefatto e atterrito, l’enorme arsenale di guerra che il nemico muoveva contro la Città delle Stelle; al suo fianco era Glorfindel, Signore dei Noldor in esilio, la cui bionda capigliatura strideva palesemente con la tenebra che colmava l’aria attorno a loro. “Maledetta sia la stirpe di Bavor l’Infame, ché le sue creazioni belliche molti danni provocheranno alla nostra città; se il mio cuore avesse presagito che saremmo giunti a tale ora buia e senza speme, mai avrei desiderato che Iluvatar avesse concesso perdono ad Aule allorché costui forgiò dalla roccia i sette Padri dei Nani”. “Gravi sono le tue parole ed ecco che il mio animo teme per te, Glorfindel di Rivendell, ché mai ti avevo sentito parlare in maniera sì stolta – gli rispose Erfea, scuro in volto – Non obliare che fra coloro che servono l’Oscuro Signore di Mordor vi è anche un rinomato artista della tua stirpe, e, sebbene egli sia così vile da non desiderare incrociare la sua spada con coloro che appartengono al suo lignaggio, pure ha preso parte a innumerevoli malvagità dacché Sauron corruppe Celebrimbor e si appropriò dei segreti di forgiatura dei Noldor dell’Eregion; non solo i Naugrim di Bavor servono nei suoi eserciti, ma anche Numenoreani e altre stirpi di Uomini: codesto ti sembra forse un motivo opportuno per desiderare la distruzione di tali razze? Non essere sì drastico nei tuoi giudizi, ché nessuna stirpe fu creata da Iluvatar per servire il Nemico e coloro che ne seguono l’insegna in battaglia non possono invocare sui loro lignaggi la maledizione delle Libere Genti, ché molti fra i Naugrim, gli Eldar e gli Edain combattono per la nostra causa e mai hanno compiuto atti di fellonia”. Profondamente pentito per quanto la sua bocca aveva testé pronunciato, Glorfindel fece un breve inchino, infine si rivolse a Erfea: “Ti chiedo perdono, Signore dei Dunedain, ché non ero io a pronunciare tali parole ricolme di odio e rancore, ma la paura che parlava in me; ora m’avvedo quanto la speme non sia smarrita nei cuori degli Uomini, ché, se perfino in tali giorni di terrore i loro cuori rimangono saldi, allora nulla è perduto e il volere di Iluvatar sarà seguito; molti anni dovranno tuttavia trascorrere prima che il mondo appartenga ai Secondogeniti e numerose canzoni allieteranno ancora il mio popolo”. “Triste sarà il giorno in cui l’ultima nave abbandonerà i lidi orientali; tuttavia, poiché tale destino è ancora lungi dal compiersi, affrontiamo adesso il male che affligge il nostro mondo, ché fratelli siamo stati creati e a unico scopo destinati, né, finché in Arda il nome dei Valar sarà benedetto, la grazia e la possanza dei figli dell’Unico saranno obliate!”. Lieti, i due capitani si strinsero la mano e si ritirarono ciascuno alle proprie posizioni, onde evitare che i servi di Sauron si impadronissero del ponte e del cancello; tuttavia, sebbene numerosi atti di valore fossero compiuti in quei giorni e le schiere di Mordor subissero gravissime perdite, pure numerosi edifici della città furono rasi al suolo dai proiettili che i trabucchi dell’Avversario scagliavano con notevole precisione al di là del muro di cinta».

 

Il Ciclo del Marinaio, pp. 281-289

La difesa di Osgiliath (II parte)

Questo articolo prosegue la narrazione iniziata nel contributo precedente. Continuano ad arrivare rinforzi ad Osgiliath, ma saranno sufficienti per fermare l’avanzata delle truppe di Sauron? Buona lettura!

[Illustrazione gentilmente concessami da Emanuele Manfredi Gallery. Tutti i diritti riservati. https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/photos/a.696568877024130/3429349947079329/?type=3&theater]

«Quella sera più parole furono pronunciate tra i comandanti e le luci si spensero nella città; Erfea, tuttavia, ritto sul pinnacolo della torre più alta, vigilò per tutta la notte, ché il suo animo non avrebbe certo trovato scampo alle preoccupazioni che lo angosciavano negli incubi notturni. Lesto il mattino sorse all’orizzonte e Aldor comparve sugli spalti recando con sé una coppa: “Bevi, mio signore – tali furono le sue parole allorché scorse Erfea nella bruma mattutina – ché lunga è stata la veglia e le sentinelle hanno scorto il tuo luminoso elmo per tutta la notte”. Accettato con gratitudine il dono, Erfea così si rivolse all’Alto Theng del Rhovanion: “Questa notte ho scorto decine di luci a Est. Migliaia di luci a Est; le truppe del nemico sono pronte alla pugna e lesta la tempesta si abbatterà sulla Città delle Stelle”. “Cosa temi dunque, figlio di Numenor?” Lenta echeggiò la risposta di Erfea tra gli argentati minareti e i dorati vessilli: “Gli Eothraim hanno scorto la potenza di uno degli Ulairi, servi immortali di Sauron; mai nessuno fra voi, tuttavia, ha mirato il terribile sembiante del Signore dei Nazgul, luogotenente di Sauron e comandante degli eserciti di Mordor; mortale è la sua voce e letale il suo lungo braccio, ché egli è possente nel corpo e nello spirito; bada alle sue schiere, principe del Rhovanion, ché esse sono tra le più feroci e malvagie tra quante servono l’Occhio di Mordor”. Brevemente soppesò tali parole Aldor, infine rispose: “Innanzi a me scorgo tuttavia uno dei figli di Elenna, terrore dei servi di colui che noi non nominiamo; si dice che egli non oblii nessuno dei torti subiti e se tale pensiero corrisponde al vero, ebbene, Erfea Morluin, i suoi servi molto temeranno il tuo nome e la tua lama”. Sorrise lievemente Erfea, infine discese lungo le mura e voltatosi, così gli parlò: “Non credere che io abbia dimenticato quanto accadde a Edhellond molti anni fa; possa Sulring colpire svelta, quando egli calerà su di noi”. Improvviso nella pianura, tuttavia, squillò un corno, poi seguito da molti altri ancora; leste le guardie chiamarono a gran voce il Sovrintendente di Gondor e gli altri capitani ed essi accorsero al cancello, ché a ponente si scorgeva una minuta schiera avanzare. Glorfindel cavalcò fino a un miglio dalla città per ricevere tali stranieri; con lui era anche Herim, il quale aveva stretto profonda amicizia con il Noldo: grande era la curiosità che muoveva gli animi dei due ed essi per lungo tempo non pronunciarono parola; infine il Capitano degli Orientali parlò: “Glorfindel, i racconti della mia gente narrano che la vista degli Elfi è invero lungimirante; cosa scorgono, dunque, i tuoi occhi in tale ora?” Per qualche istante Glorfindel non pronunciò parola; infine rise, e il suono della sua letizia colmò di stupore l’animo dell’Uomo: “Amazzoni! Le donne guerriere del Rast Vorn giungono a Osgiliath!” Veritiere si dimostrarono tali parole, ché codeste guerriere erano le eredi di quanti fra il popolo di Haleth non si erano allontanati dalle spiagge della Terra di Mezzo al termine della Prima Era e avevano trovato nuova dimora tra i boschi della penisola del Rast Vorn, ove oggi nessun Uomo vive. A lungo i superstiti della Seconda Casa degli Uomini avevano dimorato in quei boschi e nessun servo di Morgoth era mai giunto per disturbarli, ché presso gli Orchi si narrava che spiriti feroci infestassero tale contrada; vi era del vero in tali voci, ché il popolo di Haleth era maestro delle Arti del legno e della pietra, avendole apprese dagli Elfi di Thingol, prima che il suo reame sprofondasse sotto le gelide acque del Belagaer ed essi tendevano innumerevoli trappole fra gli alberi, sicché l’incauta creatura che si fosse addentrata nella foresta si sarebbe smarrita in breve tempo e con altrettanta rapidità avrebbe trovato la morte. Finanche i Numenoreani non avevano mai osato approssimarsi a tali boschi onde sfruttarli per farne legname da costruzione per le loro navi, ché grande era in loro la paura delle guerriere del Rast Vorn e, sebbene freccia o lancia non fossero stati mai scagliate contro gli Edain dell’occidente, pure essi si tenevano alla larga da tale contrada e nessun Uomo, Elfo o Nano era mai stato ospite del popolo di Haleth, fin dal termine dei giorni Remoti; grande fu dunque la meraviglia, in città, allorché giunsero le schiere del Rast Vorn e gli sguardi dei presenti esprimevano tacita ammirazione e sincera meraviglia per coloro che ora marciavano lungo il ponte rialzato e si approssimavano a fare il loro ingresso a Osgiliath; giunte innanzi al Sovrintendente, così gli si rivolse il loro capitano: “Ariel io sono, figlia di Aran del Rast Vorn; un’aquila si presentò al nostro popolo quando ancora la Luna era giovane nel cielo, e riferì di gravi e luttuose notizie riguardanti i nostri cugini del Sud; tristi furono quel giorno i nostri cuori, ché, sebbene siano trascorsi innumerevoli secoli da allora, pure nessuna fra noi ha obliato la malvagità di Morgoth e il nome di Sauron l’Aborrito non è mai stato venerato dalla nostra gente. A lungo abbiamo percorso contrade sconosciute ai nostri occhi, ove il vento e gli astri erano i nostri unici compagni di viaggio, ché il messaggero di Manwe aveva fatto il nome di colui che i nostri aiuti molto avrebbe gradito e che sconosciuto risultava alle nostre orecchie: sei tu dunque Erfea il Numenoreano, colui che chiamano il Morluin, Sovrintendente del Regno di Gondor?” “Sì, lo sono e questa ove siete giunti è la dimora di Isildur e Anarion, re di Gondor e figli di Elendil l’Alto, Sovrano dei reami in esilio”. Allora Ariel si inchinò e sguainata la spada dal fodero, ne porse l’elsa a Erfea e fece giuramento: “In nome di Eru Iluvatar e delle potenze di Arda, giuro che il mio popolo sosterrà l’Alleanza delle Libere Genti contro l’Oscuro Signore di Mordor e i suoi schiavi, fino alla fine del mondo o fin quando l’ultima di noi non cadrà sotto i colpi del nemico; possano la Morte e la Vendetta cogliere me e la mia stirpe se tale giuramento verrà infranto”. Lieto Erfea le si inchinò e squillò nel suo olifante per tre volte, sicché i guerrieri corsero da lui, credendo fosse imminente un attacco del nemico e che la città abbisognasse delle loro spade e delle loro vite; eppure, squillante risuonò la voce del Dunadan ed egli parlò loro: “Mirate, popoli che non venerano la malizia dell’oriente e non prestano orecchio alle menzogne di Mordor e del suo oscuro signore! Mirate, ché è giunto il giorno in cui i Figli di Iluvatar sono nuovamente riuniti per un sol scopo e ogni rivalità fra noi è cessata! Mirate lo splendore e la beltà delle nostre terre della cui visione i vostri occhi e i vostri cuori serbano memoria! Mirate, ché la pugna si approssima e lesta verrà l’ora in cui combatteremo l’uno accanto all’altro, fratelli nell’oscurità che avanza, spada accanto a lancia, ascia accanto all’arco! Come un sol individuo combatteremo e mostreremo agli schiavi di Sauron quanto sia ancora forte la tempra di coloro che non si piegano al loro dominio!”

Soffiò nuovamente nel suo corno il figlio di Gilnar e il coraggio fece breccia finanche nei cuori più pavidi; allora, rosso sorse il Sole all’orizzonte e Sulring brillò di luce propria, rischiarando Erfea, ed egli sembrava simile a Tulkas il paladino dei Valar a occidente e tutti coloro che erano con lui sguainarono le proprie armi e diedero fiato ciascuno al proprio olifante, si ché fu udito un concerto quale non si udiva dalla Battaglia delle Innumerevoli Lacrime e il suono delle trombe dei Nani di Khazad-Dum si mescolò con quello degli Elfi di Gil-Galad; alti furono issati i vessilli delle stirpi che lottarono contro l’Oscuro Signore ed essi furono visibili per molte miglia. “Aure entuluva!” gridò Erfea, pronunciando le medesime parole che Hurin molti secoli prima aveva esclamato; e tutti coloro che erano nella città fecero echeggiare le loro voci nel medesimo urlo: “Aure entuluva”: il giorno risorgerà!” e, sebbene numerose calamità e lutti si verificarono nei giorni successivi, pure nessuno dei presenti obliò quell’ora e invero fu un momento molto glorioso per i Figli di Iluvatar. Rapidi trascorsero i giorni successivi, mentre i capitani discorrevano delle strategie che avrebbero dovuto escogitare per affrontare i servi di Sauron ed Erfea ripeteva loro quanto i nemici non fossero da sottovalutare, ché essi erano guidati da una mente crudele e votata al massacro. Amicizie durature furono strette in quei giorni amari, ove gli incubi delle sempre più lunghe veglie si mescolavano ai sogni angosciosi che le rare ore di sonno partorivano: di Glorfindel ed Herim così come di Erfea e Aldor si è già detto, tuttavia essi non furono i soli, ché analoghi sentimenti di stima e di affetto sorsero fra Herugil e Edheldin, mentre Bor, accompagnato da suo figlio Groin, era sempre reperibile dal Sovrintendente di Gondor al quale mostrava i segreti di tecniche di lavorazione dei metalli ignoti agli Uomini, ché egli era lungimirante e s’avvedeva che sebbene mortali fossero le armi degli eredi di Numenor, pure avrebbero potuto essere migliorate, e invero eccelsa era in quei giorni l’Arte dei Naugrim. Solidi divennero dunque i rapporti fra i Capitani delle Libere Genti, eppure nessun legame fu sì forte come quello che sorse fra Aldor e Ariel, ed essi sovente discorrevano nei parchi della città, lieti in volto, sebbene la tempesta fosse ormai prossima e più il Sole splendesse nel cielo, ché un’oscura nube proveniente dalla Terra dell’Ombra sembrava aver avvolto nel suo mortifero abbraccio la Città delle Stelle.

Una notte di maggio, Herim si recò dal Sovrintendente della città, ché il sonno tardava a giungere e una grave minaccia era sorta nel suo cuore; lesto raggiunse dunque Erfea presso la terrazza dalla quale il Dunadan scrutava silente la piana che si estendeva sotto di lui; una pallida Luna ornava il tenebroso cielo, né la sua moribonda luce rischiarava le figure dei soldati che percorrevano in silenzio gli spalti della mura; eppure, nessuno fra coloro che erano sulle mura in quella ora abbisognava di luci, perché l’intera sponda orientale dell’Anduin era rischiarata da centinaia di migliaia di fiaccole: poco o punto potevano scorgere gli scuri occhi dell’Orientale, eppure, nel suo cuore, il fremito di paura che l’aveva costretto a destarsi dal suo sonno agitato si tramutò in un grido che a stento fu soffocato dall’Uomo. A lungo Herim rimase accanto a Erfea, senza pronunciare alcuna parola, infine il Dunadan parve cosciente della sua presenza e gli parlò: “Le schiere del nemico sono ora molto vicine alla città; entro domattina, le acque dell’Anduin saranno rese torbide dall’avanzare impetuoso degli schiavi di Mordor, né tali invasori sono giunti alla città soli”. Herim annuì, senza tuttavia comprendere realmente cosa il Sovrintendente avesse voluto dirgli; infine, egli voltò il suo sguardo a Nord e la paura si tramutò in orrore, ché i fumi di numerose fiaccole si stagliavano come fredde colonne nell’aria della notte finanche in tale direzione: lentamente, come se il raziocino ancora presente nel suo animo rifiutasse di credere a quanto ormai era palese, egli si voltò verso Sud, ove il suo udito fu attratto dal rapido sciabordare di centinaia di lunghi remi nelle profonde acque del fiume, ché una possente flotta giungeva dal Grande Mare, preceduta dallo stormire degli avvoltoi e di altri uccelli da preda. Leste suonarono le campane quella notte, ma il suono che echeggiava tra le scure mura dei minareti e i flosci vessilli era spento, quasi che un sortilegio di Mordor impedisse loro di squillare; rochi echeggiavano dalla pianura i barriti dei mumakil, le possenti bestie dei feroci Haradrim e sovente si udiva la stridula risata di un Orco salire dal fiume: cupi divennero gli animi dei Numenoreani ed essi non presero più riposo, né una voce si udiva all’interno della città, che gli Uomini si armavano in silenzio e se le donne piangevano, le loro lacrime e i loro singulti erano attutiti da bianchi fazzoletti. Tardivo sorse il Sole, eppure nessuno fra coloro che difendevano il regno di Gondor dall’assedio delle schiere di Sauron parve accorgersene, perché infiniti fumi, come malefici serpi che volessero oltraggiare la maestà di Manwe, salivano dagli accampamenti delle schiere di Mordor e un’ombra minacciosa era calata sulla città. Triste e minaccioso era lo spettacolo che adesso si scorgeva dalle mura: la sponda orientale dell’Anduin era stata invasa dalle schiere di Mordor, ed esse ora si ricongiungevano con i loro alleati giunti dal Nord e dal Sud; Numenoreani Neri erano sbarcati dalle navi che la notte precedente avevano risalito il corso del fiume e ora scaricavano a terra una grande quantità di vettovaglie e di armi; ivi il guerriero affilava una lama; ivi il capitano impartiva ordini ai suoi luogotenenti; ivi erano montate tende e issate rozze palizzate, ché la potenza di Mordor era all’opera, e i suoi servi, come instancabili formiche, realizzavano quanto il loro signore e padrone desiderava ottenere. Nessun canto si levava dalle schiere di Mordor, né alcun vessillo era stato innalzato per sfidare la signoria delle liberi genti: il brusio delle voci provenienti dalla pianura, tuttavia, si accrebbe nei giorni successivi, finché esso non si tramutò in un urlo spaventoso a udirsi; molti fra coloro che militavano nell’Alleanza si chiesero allora se non fosse giunta la fine di Arda e nei loro cuori la paura regnò sovrana; altri si chiedevano quando sarebbero giunti gli eserciti degli alleati dal Nord e interrogavano a proposito Glorfindel, quasi che egli potesse scongiurare nei loro animi la paura, l’arma più efficace che il nemico possedeva per far breccia nelle mura di Osgiliath. Lenti trascorsero i giorni per i difensori della città e nessuna nuova giungeva loro dagli eserciti di Mordor; una mattina, tuttavia, la Guardia levò un possente grido di allarme e i capitani corsero alle mura, ché erano visibili movimenti sulla pianura: Uomini, le cui fattezze erano impossibili da distinguere, si erano inerpicati lungo una ripida collina che si ergeva dinanzi al ponte e al cancello orientale di Osgiliath e ivi avevano innalzato nove lugubri stendardi. La bruma, tuttavia, lesta ricoprì l’accampamento delle schiere di Mordor e per lungo tempo non fu possibile scorgere alcunché: infine, essa disparve e fu visibile a tutti quanto tali vessilli mostravano. Disposti su di un’unica fila, nove stendardi garrivano al vento che possente si era levato dall’oriente: otto erano stati posti alla stessa altezza e uno si ergeva più in alto di tutti gli altri: intimorita, la gente di Osgiliath stentava a decifrarne il significato, ché mai, dacché la città era stata fondata, erano stati avvistati simili vessilli. “Destriero nero, fuoco oscuro, luna morente, nera serpe, saetta rossa, grigio olifante, fauci del segugio, drago dorato: i Nazgul sono dunque giunti a Osgiliath” pronunciò Erfea, rivolto ai capitani che erano con lui; non si era ancora spento l’eco di tali parole, che la Tenebra cadde sulla città e per alcuni istanti non fu possibile scorgere alcunché; molti guerrieri furono colti da nausea e finanche tra gli Eldar e i Naugrim, ché pure non temono l’oscurità, alcuni furono colti dal panico e dal dubbio. Per lunghi istanti parola non fu pronunciata; infine Erfea parlò e nessuno dei presenti obliò le sue parole in quell’ora sì oscura: “Gli Orchi hanno innalzato lo stendardo con l’effige dell’Occhio avvolto dalle fiamme dell’Orodruin. Il Signore dei Nazgul è giunto a Osgiliath e i suoi eserciti lo seguono bramosi della preda, ché invero possente è il suo braccio. Lungi dall’essere in trappola è tuttavia la fiera, ed essa lotterà finché la speme regnerà nel suo cuore”. Infine l’oscurità opprimente disparve dal cuore dei liberi popoli ed essi accorsero ad armarsi: manipoli di fanti furono formati e i cavalieri montarono sui loro destrieri, mentre gli arcieri correvano a schierarsi lungo le mura e incoccavano nere frecce dalla punta acuminata».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 273-281.

In difesa di Osgiliath (I parte)

Negli Annali del Signore degli Anelli e nel Silmarillion si fa cenno alla difesa di Osgiliath da parte dei Gondoriani durante l’assalto finale che Sauron mosse contro quella città alla fine della Seconda Era. Si tratta, come dicevo, di poco più di un accenno, che segue alla caduta di Minas Ithil nelle mani dei servi dell’Oscuro Signore. Ho colto questo accenno per sviluppare un racconto che narra dei popoli che accorsero in difesa di Osgiliath: nel mio libro, infatti, Erfea, ormai anziano, occupa un posto di grande responsabilità all’interno dei Regno in Esilio, svolgendo una figura molto simile a quella che avrebbero incarnato i Sovrintendenti della Terra di Mezzo; per conto di Elendil, supremo re di Arnor e Gondor, infatti, egli si occupa di monitorare il governo dei figli Isildur e Anarion. Tornando alla questione della difesa della capitale di Osgiliath, ho immaginato che, in attesa della costituzione dell’Ultima Alleanza, i cui tempi di mobilitazione sarebbero stati molto lunghi (considerato che non esisteva un servizio di leva permamente presso i Popoli Liberi e che le milizie dovevano dunque essere addestrate di conseguenze), alcune schiere (oggi li definiremmo di soldati di professione) accorressero a Gondor per prendere parte alla battaglia in sua difesa. A questa scelta mi ha spinto l’apprezzamento verso una sequenza di immagini molto intense del film delle “Due Torri”: l’arrivo al Fosso di Helm delle truppe comandate da Haldir. Come sanno i lettori del Signore degli Anelli, in realtà questo evente non si è mai verificato: restava comunque, a mio parere, un’idea promettente, che avrebbe potuto essere sviluppata in altro momento storico, del quale si conosce poco, allo scopo di non creare una contraddizione con il corpus del legendarium tolkienano. Lascio giudicare ai miei lettori se la scelta sia o meno riuscita. Il brano citato inizia dopo la caduta di Minas Ithil e dopo che le armate di Sauron hanno condotto un breve attacco a Osgiliath per testarne le difese. Nell’estate di quell’anno Erfea ricevette la visita del Re delle Aquile…Buona lettura!

«L’Estate trascorse come se nulla nel vasto mondo fosse mutato, eppure così non era, ché i servi del nemico erano ovunque e nell’ombra che si addensava sugli Ephel Duath, crescevano in numero e in potenza; nessun araldo del Nemico era giunto sprezzante da Minas Ithil ormai caduta per sfidare la potenza di Osgiliath, e ogni cosa sembrava remota e silente; eppure, Orchi e Uomini malvagi si adunavano a levante e vi erano scorribande di cavalcalupi nelle vaste e desolate piane del Rhovanion e nell’Anorien, ché Sauron non aveva perduto nulla della sua antica possanza e mirava a distruggere ogni reame della libera gente.

Furtivi e occultati dalla coltre di tenebra che le eruzioni dell’Orodruin rendevano grigia e fosca, i servi del Nemico si andavano adunando in gran numero; ed ecco che al termine dell’Estate, Ar-Thoron apparve a Erfea, che, ritto sul pinnacolo della torre più alta di Osgiliath, era immerso in profonda meditazione.

“Salute a te, paladino di Gondor! La guardia della città riposa, cullata dal dolce canto del fiume, eppure ben m’avvedo che il suo capitano non prende riposo neppure in giorni che paiono privi di pericolo alcuno”.

“Salute a te, signore dei venti! Vi saranno altre occasioni per dar sollievo alle stanche membra, ché il mio cuore mi dice che il Signore di Mordor non ha dimenticato l’affronto che le sue armate hanno di recente subito, né ha smesso di odiare i Dunedain e le altre liberi genti”.

“Sagge parole le tue; forse, allora, meno gravi ti sembreranno i miei consigli in quest’ora del bisogno, se tali erano i tuoi pensieri prima del nostro incontro. Sappi infatti, figlio di Gilnar, che il tuo antico avversario, il Signore degli Stregoni, è intento a radunare un esercito in confronto al quale ogni altra armata potrebbe impallidire; chiusi in quella che un tempo fu la gloriosa Città della Luna, gli Ulairi addestrano centinaia di migliaia di fanti e cavalieri del nemico; oscuri fumi si levano dalle fornaci di Barad-Dur e antichi e oscuri sortilegi sono all’opera”.

Nessun sorpresa si poté leggere nel volto di Erfea, eppure la sua fronte si corrugò, ché la sua inquietudine crebbe ed egli, in qualità di Sovrintendente della Città e del Regno aveva la responsabilità di difenderla strenuamente qualora fosse giunta l’ora della pugna. Parche e lungimiranti furono le parole che egli pronuncià in quell’ora oscura, e, non fosse stata per la tempestività con le quali vennero formulate, la speme degli Uomini sarebbe venuta meno ed eventi infausti avrebbero condotto alla perdizione Endor:

“Ar-Thoron, messaggero di Manwë, sii l’araldo di coloro che si apprestano a lottare contro colui che un tempo fu servo del nemico del tuo signore! Porta tale messaggio di sventura ai sovrani che sostengono la nostra causa, affinché possano qui giungere Uomini forti e valorosi, pronti a sostenere la nera marea, quando sarà giunta l’ora! Possano i venti sostenere le ali di quanti gioveranno alla causa dei Figli di Iluvatar, ché molte vite dipenderanno dalla rapidità con cui tali messaggi di aiuto giungeranno lì ove il nome di Manwe e di Varda sono ancora cari. Va’, dunque; possa la speme restare presso il tuo popolo, anche quando ogni scudo sarà infranto e prossima sembrerà la fine dei regni degli Eldar e degli Edain”.

Il sire delle aquile chinò il capo, ché mai nessun Secondogenito gli aveva parlato in modo tanto accorato e sincero; lesto volò via e la richiesta di aiuto di Gondor pervenne a quanti avevano contratto l’Alleanza in Giugno e a molti altri popoli ancora, ché sotto le vaste fronde delle foreste di Endor dimorano stirpi di cui poco noti sono lignaggio e signori.

Per primi giunsero gli Elfi di Edhellond; costoro, grati per l’aiuto che Erfea aveva fornito loro durante la difesa del bianco porto dalle armate del Re Stregone, accorsero lesti a Osgiliath, suscitando meraviglia e stupore tra gli Uomini, ché, sebbene i Dunedain fossero avvezzi alla compagnia degli Eldar, pure codesti guerrieri Primogeniti, equipaggiati ancora secondo l’uso degli eserciti elfici della Prima Era, non mancavano di suscitare sorpresa tra le Alte Guardie del Cancello che assistettero stupefatte al loro ingresso in città; giunti che furono dinanzi a Erfea, essi si inchinarono e il loro capitano, Edheldin, prestò giuramento e dichiarò che il suo popolo avrebbe servito nell’Alleanza finché la vittoria non fosse stata riportata o l’ultimo guerriero fosse stato in grado di brandire la spada: lieto, il Sovrintendente di Gondor li accolse con tali parole: “Siate i benvenuti, fratelli degli Edain! Con voi trionferemo o periremo, ché i destini delle Libere Genti saranno decisi dal coraggio e dalla forza con cui le nostre braccia reggeranno l’impugnatura dell’arma con la quale ci ergeremo dinanzi agli schiavi di Mordor!”.

Canti gioiosi furono ascoltati in quei giorni a Osgiliath, ché gli Eldar non erano solo possenti soldati, ma anche sapienti ed eruditi, e le loro arti molto alleviarono le miserie degli Uomini infermi e le lacrime delle vedove; meno di mille erano, eppure, quando l’ora del confronto giunse, mostrarono al Nemico una tal ferocia, che essi parevano diecimila, e mai le loro frecce mancarono il bersaglio.

Altri aiuti giunsero a Gondor nell’ora del bisogno, gli uni inaspettati, gli altri attesi; alcuni giorni dopo l’arrivo della schiera di Edhellond, giunse alla città dei re una grande molti- tudine di gente; leste, le guardie della città accorsero al cancello, temendo che le armate degli Uomini del Rhun avessero sopraffatto le guarnigioni di Gondor e del popolo degli Eothraim; grande fu invece la loro sorpresa allorché compresero essere costoro le schiere dell’Alto Theng del Rhovanion, Aldor Roch-Thalion, Signore dei Cavalli; tuttavia, sebbene essi venissero accolti in città con grandi acclamazioni e squilli di tromba, pure coloro che erano al comando si resero conto che il fronte Nord-orientale aveva definitivamente ceduto e tosto sarebbero giunti a Osgiliath le medesime schiere che avevano sconfitto gli Eothraim. Nuova inquietudine sorse nel cuore di Erfea ed egli a lungo discorse con Aldor, assicurandogli che Gondor avrebbe posto sotto la sua bandiera gli anziani e gli infanti del suo popolo; presso codesta stirpe, infatti, le donne sono addestrate nell’arte della lancia e della spada fin da tenera età e non temono alcun nemico, eccetto il disonore, e benché tale costume fosse noto agli esuli Numenoreani, pure a loro parve bizzarro e curioso.

Quindicimila lance aveva con sé Aldor allorché varcò il cancello di Osgiliath e numerosi erano le donne e i bambini; quarantamila erano in tutto, eppure costoro non erano che i supersiti di una grande confederazione di popoli che pascolavano il loro bestiame nelle vaste e silenziose piane del Rhovanion, dai confini della grande foresta fino al fiume Celudin a oriente: molto avevano in onore il popolo dei Dunedain, che essi chiamavano i figli del mare, reputandoli simili agli Elfi nelle arti e nelle tradizioni. Fieri e impetuosi, pronti alla collera e all’amicizia sincera, codesti Secondogeniti, discendenti di coloro che della stirpe di Hador Chioma d’oro non erano mai giunti a occidente, resero grandi servigi alla Città delle Stelle, sostenendo impavidi l’urto delle armate di Mordor. Aldor Roch-Thalion era il loro comandante supremo e re della confederazione; suo avo era Imracar Folcwine, colui che aveva stretto amicizia con Erfea allorché aveva partecipato, in qualità di ambasciatore della sua terra, ai festeggiamenti in onore della principessa Miriel. Grato, così Aldor parlò al Sovrintendente di Gondor: “Note mi sono le tue imprese contro colui che noi non nominiamo ed è stata fonte di immensa letizia per me sapere che non cadesti durante l’assedio alla Città della Luna; sei invero un possente guerriero, Erfea, figlio di Gilnar, e il mio popolo ti seguirà, cavalcando con te verso la vittoria o la morte, allorché giungerà l’ora del confronto. Noi non siamo avvezzi alle belle arti degli Uomini del mare, né siamo soliti dimorare in simili palazzi intessuti di sogni e luce, tuttavia sappi che la nostra parola é la nostra vita e che mai verremo meno alla nostra alleanza: già in passato udisti la mia voce fiera e possente pronunciare un solenne giuramento; lascia che ora io, secondo l’usanza del mio popolo, tramuti le parole in fatti, ché essi possano condurci alla vittoria sulle schiere del Nemico”.

Invero Erfea fu commosso dalla semplicità con cui Aldor offriva la sua spada alla loro causa e un forte abbraccio tra i due Uomini suggellò tale patto; nei giorni successivi la stima e l’affetto del Sovrintendente per questo rude Uomo, la cui risata era pronta a tuonare a ogni ora del giorno si accrebbero ed egli spesso discorreva con lui, aprendogli il suo cuore; molto apprese l’Alto Theng degli Eotrahim dal Numenoreano e il suo animo fu ricolmo di meraviglia, ché la maestà dei Dunedain non era ancora scemata e nei loro grigi occhi brillava vivida la fiamma dell’Occidente perduto.

Il giorno seguente, altre schiere risposero all’accorato appello del Sovrintendente di Gondor ed egli fu chiamato innanzi al Cancello di Osgiliath da una voce possente: stupiti furono gli eredi di Numenor, ché mai avevano veduto simili genti dacché avevano fatto ritorno alla Terra di Mezzo sulle ali dei fortunali che spiravano da ponente: disposti su tre schiere, cinquemila cavalieri avanzavano verso la capitale di Gondor, intonando canti sconosciuti alle genti di quella città.

Poderosi erano i neri stalloni di codesta armata e molti cavalieri galoppavano in sella a bizzarre creature che attrassero la curiosità dei gondoriani: più piccole dei cavalli della Terra di Mezzo, erano tuttavia più massicce e lente; chiaro come la sabbia dei deserti che si estendono nel lontano Harad era il loro pelame ed essi lasciavano nella soffice terra dell’Anduin profonde impronte. Coloro che tra i Numenoreani erano accorsi per primi al cancello, si avvidero che le selle poste su codesti animali erano situate sopra una grande gobba che si ergeva sul dorso dell’animale; muggiti mai uditi prima si levarono da tali cavalcature e non pochi fra i Dunedain furono colti da inquietudine e timore, credendo che costoro fossero l’avanguardia della cavalleria del Nemico; eppure, i savi e gli eruditi di Gondor non avevano obliato molte delle storie che gli Eldar avevano insegnato loro ai primordi della Seconda Era, e nella loro memoria erano ancora impressi i dolorosi ricordi della Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, allorché vi fu il tradimento di numerose schiere degli Uomini venuti dal levante e il nemico ottenne una vittoria che in caso contrario mai sarebbe giunta.

Tale episodio, tuttavia, era ben noto e molti fra i Dunedain sapevano che tra le schiere che avevano in principio servito l’Oscuro Nemico del Mondo e in seguito il suo luogotenente Sauron molte erano quelle costituite dai Secondogeniti reietti, discendenti di quella laida schiatta che tradì l’alleanza con i figli di Feanor, venendo meno alla parola data; tuttavia, poiché spesso la mente degli Uomini è debole e oblia molto di quello che è stato, pochi, finanche tra i Saggi del regno, ricordavano che vi era stata un’altra stirpe di Uomini venuta dell’oriente che mai aveva tradito l’alleanza con gli Eldar: costoro erano i figli di Bor l’orientale e in seguito alla distruzione del Beleriand erano fuggiti lontano, recandosi nelle contrade meridionali di Endor ove erano cresciuti in numero e gloria, sempre rimembrando l’alleanza con gli Eldar; sovente i loro prodi cavalieri avevano sfidato gli Haradrim e i Variag, servi dell’Oscuro Signore, difendendo strenuamente le contrade a Sud di Gondor dalla perfidia dei servi dell’Occhio. Imponenti e maestosi, codesti Uomini procedevano ritti sulle loro cavalcature, non temendo alcunché; giunti che furono innanzi al cancello di Gondor essi si arrestarono e colui che ne conduceva le schiere, scese da cavallo e si inchinò al Sovrintendente, porgendoli l’elsa di una scimitarra finemente intarsiata e parlò, fra lo stupore di quanti lo ascoltarono, nella favella degli Elfi Grigi:

“Giungiamo nell’ora del bisogno, accomunati dal medesimo destino e della medesima necessità per prestare servizio nelle fila degli Uomini del mare”.

“Chi sei tu dunque e da quale contrada provieni?” gli rispose Erfea, inchinandosi a sua volta.

“Io sono Herim l’Impavido, erede di Bor l’Orientale che mai obliò l’alleanza con gli Eldar e gli Edain stretta molti secoli fa. A lungo la mia gente ha difeso le contrade a Sud del reame degli Uomini dell’occidente e a Nord della città di Umbar dalla ferocia dei servi di Sauron l’Impostore, colui che già i miei avi combatterono. Lo scorso Inverno, tuttavia, fummo battuti, ché il Nemico ha reclutato mercenari provenienti da levante e gli eserciti dei signori della guerra del Khand e del Nuriag, superandoci così in numero; non furono tuttavia tali spregevoli esseri a determinare la nostra cattiva sorte, ché vi erano due creature quali mai i nostri occhi avevano scorto e dinanzi alle quali il coraggio dei nostri migliori cavalieri fu vano; terrore pareva sprigionarsi dalle loro nere armature e oscure risuonavano ai nostri orecchi le parole che esse declamavano a gran voce. Lesto, il panico si impadronì dei cuori dei nostri guerrieri più valorosi ed essi, gettate le armi, perirono tra le paludi e i pantani che si estendono alla foce del Grande Fiume; allorché si avvidero della disfatta delle nostre schiere, i servi del Nemico si lanciarono alla carica: molto sangue quel giorno bevve la Madre Terra – e così dicendo accarezzò la lama della sua scimitarra – eppure ogni difesa fu vana, ché la stridula voce dei servi del nemico sembrava atterrire gli animi di tutti. Non più tardi di quattro giorni fa guadammo il fiume a Nord della città di Pelargir per raggiungere la possente capitale degli Uomini del mare, ché un messaggero del cielo ci aveva avvertito del pericolo che correte”.

“Grati e inaspettati sono i vostri aiuti, ché non credevamo fosse sopravvissuta all’inabissamento del Beleriand la stirpe di Bor l’Orientale e gravi erano i cuori dei Saggi questa mattina; eppure, non fu forse detto che il destino di Arda è stato occultato ai Figli di Iluvatar e che finanche il più savio ed erudito fra noi non potrebbe conoscerlo e interpretarlo? Se tale si prefigura il corso degli avvenimenti, allora la speme ha trovato una nuova ancora alla quale aggrapparsi, nel fragore della battaglie che lesto inizierà. Vi porgo dunque il benvenuto a nome del re Anarion che ora giace nelle Case di Guarigione; possano le vostre lame vendicare coloro che ora più non sono fra voi, quando sarà giunta l’ora”.

Piacquero a Herim l’Impavido le parole che Erfea, Sovrintendente di Gondor aveva pronunziato: profonda stima egli nutrì nel suo cuore per il Dunadan e, allorché Osgiliath parve soccombere alle orde degli schiavi di Sauron, mai lo si vide indietreggiare, ché era invero un possente guerriero e nessuno lo superava in maestria nell’arte della guerra; esperto dell’antica scienza della guarigione e dell’osservazione delle stelle, Herim prestò valido servizio nel Consiglio degli Uomini durante tutta la durata della guerra e mai le sue parole furono pronunziate per invidia o arroganza.

Codeste stirpi di Uomini accorsero dunque in aiuto dei Dunedain nell’ora del bisogno e i loro nomi furono scritti su bianche pergamene che ora giacciono dimenticate, ché molta è cresciuta nel cuore degli Uomini l’incuria ed essi poco si curano di apprendere la storia dei loro padri; tuttavia, poiché i Savi non sono venuti meno finanche in tale giovane epoca, coloro che combatterono per la libertà e la salvezza delle stirpi degli Uomini liberi sono ancora ricordati con stupore e meraviglia, ché grandi furono invero le loro imprese e nessuno ne ha mai compilato un elenco preciso.

Molto si è detto dunque degli Uomini e dei loro condottieri, eppure non furono i soli a soccorrere Osgiliath nell’ora più buia che la città avesse conosciuto fin dalla sua fondazione, ché Eldar e Naugrim non mancarono di rispondere all’accorato appello lanciato dal Sovrintendente di Gondor e recarono alla Città delle Stelle schiere di indubbio valore; degli Elfi di Edhellond e della loro devozione a Erfea molto è stato scritto e non solo in tale sede; pure, vi furono altri tra i Primogeniti che soccorsero i Dunedain, ché quattro giorni dopo l’arrivo delle schiere di Herim l’Impavido, giunse la cavalleria dei Noldor e dei Sindar proveniente dal regno del Lindon e dalla dimora di Elrond il Perelda nel remoto Nord; luminosi erano i guerrieri Eldar e i loro destrieri elfici, abbigliati di bianco e argento, risplendevano nella oscurità della sera: imponente si ergeva alla loro testa Glorfindel il Valoroso, colui che aveva a lungo combattuto contro le schiere di Morgoth nel corso della Prima Era e ora giungeva, simile a un messaggero di Manwe, quale immagine della maestà dei Valar e degli Eldar che ancora dimorano al di là del mare a ponente.

Lieto lo accolse Erfea, ché, sebbene avesse discusso con lui solo alcune settimane prime, pure sapeva che nessun altro guerriero fra coloro che erano giunti a Gondor era più valoroso del Principe di Rivendell.

“Alto risuona l’olifante dei cavalieri di Gil-Galad ed ecco, essi accorrono in aiuto di coloro che ne abbisognano; il mio signore ti invia parole di conforto, perché il tuo animo non debba cedere all’oscurità di questi giorni, e spade, perché la Città degli Uomini non sia distrutta dalle armate dell’Oscuro Sire”.

“Giungi sulle ali di un vento tempestoso, amico mio – gli rispose Erfea, stringendogli la mano – ché la bufera si scatenerà lesta a Est e la furia dei fortunali temo si abbatterà su di noi quanto prima; nessuna speme abbiamo perduta, ché ora, innanzi a me, vi è colui che le schiere del nemico temeranno sovra ogni altro condottiero che difenderà la nostra causa”.

Quattromila Elfi attraversarono al crepuscolo il cancello occidentale di Osgiliath, accompagnati da molti canti e benedizioni, ché la gente era scesa in strada e acclamava il nome del loro capitano: “Glorfindel! Glorfindel Chiomadoro è con noi” e per una notte l’angoscia abbandonò i cuori degli uomini e delle donne della città.

Il mattino successivo, un suono che mai prima di quel momento era stato udito dacché gli esuli Numenoreani avevano costruito le loro dimore su entrambe le rive dell’Anduin, fu udito riecheggiare nella valle e gli sguardi di tutti furono rivolti a ponente; a lungo regnò il silenzio nella città, ché il popolo si domandava quale stirpe giungesse in suo soccorso.

Erfea, silente sul ponte che conduceva al cancello, scrutava le piane che si estendevano a ponente; non dovette attendere tuttavia a lungo, ché lesta apparve all’orizzonte una schiera di soldati, il cui stendardo era però occultato dalla bruma del mattino: infine, a meno di cinquecento passi dal cancello, esso apparve in tutto il suo splendore e il popolo di Gondor riconobbe il vessillo della stirpe di Durin il Senza Morte, ché vi erano ricamate sette stelle e un’incudine.

Senza attendere che la schiera giungesse al cancello, Erfea si fece loro incontro e lieto era il suo volto, ché egli non aveva dubbi sull’identità del capitano di tale armata e il suo cuore gioiva, ché egli era molto caro al Sovrintendente; Bor era il suo nome, ma la sua gente lo chiamava Naug Thalion in onore del suo valore e della forte amicizia che lo legava agli Eldar; accanto a lui, si ergeva un Nano che molta fama aveva acquisito ad Amon-Lanc, ché egli era Groin Hroa Sarna, Nano della stirpe di Durin e impavido combattente.

Commossi i tre amici si strinsero in un caloroso abbraccio, ché mai Naug Thalion aveva obliato l’aiuto che il Khevialath, come i Nani chiamavano Erfea, aveva offerto loro durante i numerosi viaggi che costui aveva intrapreso; lesto era stato egli a mettersi in viaggio con quanti della sua gente desideravano seguirlo, ed erano giunti solo poche ore dopo i guerrieri di Glorfindel che pure erano a cavallo; stupefatti gli Uomini e le donne della Città delle Stelle osservarono i figli di Durin, ché, sebbene costoro sovente si fossero recati nei domini dei Numenoreani per offrire la loro maestria di tagliatori di pietre e vendere i preziosi manufatti forgiati nelle fucine di Khazad-Dum e altri mirabili artefatti destinati finanche ai bambini, pure non erano mai giunti in veste di soldati, essendo i reami di Gondor e Khazad-Dum alleati e non temendo alcunché i suoi figli, fuorché la fatica e le intemperie dei lunghi viaggi.

Ogni Nano indossava una cotta di maglia in mithril, ché codesta schiera era costituita prevalentemente dalla Guardia dell’Abisso e in essa servivano solo i più possenti fra i Figli di Aule; possenti asce e larghe spade dalla doppia lama essi recavano con sé e nei loro spietati occhi si poteva leggere il fuoco della fiamma di Mahal dalla quale erano sorti.

“Settecento Nani sono riuscito a condurre con me in questa buia ora, Erfea, figlio di Gilnar: essi sono prodi guerrieri e hanno combattuto in più di una occasione contro le schiere dell’avversario e nessun Orco è mai sopravvissuto per testimoniare la loro furia in battaglia”.

“Sono giunti aiuti superiori in numero alle mie previsioni, Bor – rispose Erfea inchinandosi – tuttavia, se le notizie che giungono in città corrispondo solo alla metà del vero, le schiere del Re Stregone sono superiori a noi del valore di dieci a uno”.

Annuì Bor, scuro in volto: “Sarà dunque innanzi alle mura della capitale di Gondor che verrà deciso il destino di questa era e di quanti verranno dopo di noi”. Tacque un attimo, infine riprese a parlare: “Le fondamenta della città, tuttavia, sembrano solide e potrebbero resistere a un assedio quale mai nessun Uomo o Elfo o Nano ha ancora mai visto”.

“Il tuo coraggio e la tua saggezza mi confortano, figlio di Durin – disse Glorfindel, sopraggiunto in quel momento – ché non giungeranno altri aiuti alla città e dovremo fare affidamento su codeste schiere”.

Herim, che era con il Signore dei Noldor, tuttavia replicò: “Può essere che i nostri occhi non debbano scorgere alcun vessillo amico per mesi, o forse per anni in tale pianura; tale è il mio pensiero, però, che mi spinge a credere che altri soccorsi inaspettati giungeranno; il vento dell’Ovest si è infatti levato possente e il domani porterà novità”».

 

Il Ciclo del Marinaio, pp. 263-273