L’Infame Giuramento_IX Parte e ultima (Il trionfo di Pharazon)

Cari lettrici e lettori, siamo ormai giunti all’ultima parte del «Racconto dell’Infame Giuramento e del Marinaio». Il finale si annuncia amaro e triste, né, come spiegavo nel precedente articolo, avrebbe potuto essere diverso.
Per comodità di chi leggerà questo epilogo, riassumo brevemente le vicende fin qui intercorse.

Palantir, ormai anziano e reso sconfortato da un popolo che non mostra, nel suo insieme, segni di ravvedimento dalla sua scelta di allontanarsi dagli Elfi e dai Valar, decide di abdicare al trono di Numenor, lasciando la corona e lo scettro alla sua unica figlia, la bellissima principessa Miriel, e chiedendo ad Erfea, uno dei principi numenoreani a lui fedeli, di aiutarla nella sua missione governativa. Pharazon, cugino della nuova sovrana, sostenuto da un numeroso gruppo di principi e capitani, si ribella alla scelta di Palantir e decide di intraprendere una guerra civile per prendersi il trono. Consapevole che la sua forza militare e le sue ricchezze da sole non saranno sufficienti per impadronirsi dello scettro di Numenor, Pharazon si rivolge ad alcuni potenti alleati della Terra di Mezzo, Er-Murazor, Adunaphel e Akhorail, senza sospettare che in realtà essi, sotto le loro spoglie mortali, sono gli Spettri dell’Anello, i Nazgul, che agiscono per conto di Sauron, intenzionato a distruggere Numenor. Nelle grotte dell’isola, in un luogo deputato al culto di antiche divinità senza nome, ha luogo una drammatica riunione del partito sostenitore di Pharazon che si conclude con la sconfitta e la morte dei capi della fazione più moderata di questo schieramento e la scelta di sostenere Pharazon nell’ascesa al trono di Numenor. Le linee programmatiche sono quindi fissate: Miriel e i Paladini, tra i quali Amandil, suo figlio Elendil e il nipote Isildur, Erfea e Brethil, non dovranno essere toccati, per evitare la reazione del popolo. Pharazon, dunque, dovrà muoversi su un duplice piano: vincere la guerra civile, ma senza uccidere i capi della fazione avversa. Tra i Numenoreani seguaci di Pharazon si segnala un giovane ammiraglio, Eargon, figlio del tesoriere Morlok, che diventa l’amante di Adunaphel, sperando con il suo aiuto in una rapida ascesa nella sua carriera politica e militare. Una volta scoppiata la Guerra Civile, i Paladini di Numenor, impegnati a contrastare le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, scoprono di essere stati traditi dalla loro regina, che li invita ad abbandonare le armi e a riappacificarsi con il loro nemico; dopo aver votato per continuare la guerra agli ordini di Amandil, essi fanno ritorno a Numenor, dove sono invitati a prendere parte a una riunione del Senato che si rivelerà determinante per il futuro dell’Isola del Dono. Nel corso di un drammatico consesso, si scopre che Miriel era stata tenuta in ostaggio dai numenoreani fedeli a Eargon: questi, tramite un sotterfugio, scatena un Colpo di Stato, trovandosi ben presto faccia a faccia con Erfea, ferito da una freccia, con il quale inizia un feroce duello…

Non so quale potrà essere la vostra reazione dinanzi alle righe che vi apprestate a leggere. Può essere che vi piacciano, vi sconfortino o, più semplicemente, non incontrino il vostro gusto. Ci sta, fa parte del «gioco» che si instaura, inevitabilmente, tra autore e lettore. Mi permetto, ad ogni modo, di suggerirvi una chiave di lettura per approcciarvi all’epilogo di questo racconto: il fattore temporale. Nella vita reale così come in quella cartacea, i personaggi devono sempre fare i conti con il tempo dato loro a disposizione. Nella maggior parte dei casi si tratta di un tempo breve, che costringe i personaggi a fare i conti con la propria mortalità, nel tentativo di riuscire a soddisfare i propri obiettivi nel minor tempo possibile. In altri casi (e questo accade principalmente nei racconti fantasy), i personaggi possono disporre di un tempo maggiore e, in alcuni casi, anche di una salute e di una giovinezza che perdurano più a lungo di quanto non accada nel mondo reale. Ragion per cui tenete conto del fattore temporale nel leggere questo epilogo…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Non so dire quanto tempo trascorse; infine, a causa della spossatezza che la ferita procurava alle mie carni, Eargon riuscì, con un abile colpo a disarmarmi; allora la rabbia si impadronì della sua mente ed egli perse totalmente ogni barlume di ragione, gridando oscure parole, incomprensibili ai più; alta levò la lama e funesto sarebbe stato il mio destino se Tar-Miriel, pallida nel volto, ma ferma nella sua volontà, non gli si fosse parata dinanzi, pronunciando parole di sfida:
“Tocca quest’Uomo e la tua lama dovrà macchiarsi di un doppio crimine!”; sì bella appariva la sovrana di Numenor, nonostante la ferita sul capo ottenebrasse la calda luce dei suoi capelli, che finanche il Numenoreano Nero arrestò la sua lama, colto dal dubbio e dal rimorso; allora, impugnata Sulring – la quale, fortunatemente, giaceva non lungi da me – vibrai con disperazione un unico colpo verso l’alto, mentre con l’arto ferito spingevo Tar-Miriel lontano dal Numenoreano Nero. Eargon arretrò, stupefatto, e si toccò il petto ferito; allora mirò la grande carneficina che era in corso nella sala in basso e il suo sguardo espresse sconforto misto a pentimento.
Levatomi, mi approssimai allora alla sua figura che giaceva non lungi dalla balaustra; egli, respirando a fatica, ché la morte era prossima a sottrargli il soffio vitale, rantolò tali parole: “Hai combattuto valorosamente, figlio di Gilnar; sebbene sia l’artefice delle mia morte, non nutro verso di te alcun sentimento di rancore. A lungo ho errato e forse mai alcuna parola o gesto potrà cancellare le colpe di cui si è macchiato il mio onore; lascia, tuttavia, che io ti sveli chi è l’artefice di questo inganno, ché, se io fui l’esecutore, egli ne fu lo spietato artefice”. Prossimo era a rivelarmi il nome del mandante di quella vile strage, quando il suo volto mutò espressione e fu preda dell’angoscia; con orrore, mi avvidi allora che anche gli altri Numenoreani erano impauriti e molti striscivano via, occultandosi dietro i massicci scranni in quercia: una piccola schiera aveva fatto il suo ingresso nella sala e alla loro testa erano quattro guerrieri imponenti.
Colui che marciava innanzi ai suoi commilitoni era Pharazon, la cui armatura sontuosa recava impressi numerosi ornamenti; non fu però il suo sembiante a riempire di terrore l’animo di tutti, ché erano con lui tre guerrieri il cui volto era occultato da ampie cappe nere; ovunque essi volgessero il capo, i Numenoreani posavano le armi e non osavano rivolgere loro alcuna parola. Giunti che furono dinanzi allo scalone che conduceva alla terrazza ove ero, uno fra essi avanzò e fui finalmente conscio della sua identità, ché egli era uno degli Ulairi, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore; il Nazgul levò in alto il suo lungo braccio pronunciando parole che non mi arrischierò a pronunziare in questi giorni sì tristi e parve ai miei attoniti occhi che i labbri della ferita di Eargon si aprissero sempre più; costui, allora, non potendo tollerare oltre modo un sì grande dolore, raccolte le ultime forze che ancora gli restavano, si scagliò contro il suo aguzzino, pronunciando un’unica parola: “Adunaphel!” Il Nazgul, tuttavia, fu più svelto e la sua lama tranciò il misero corpo del Numenoreano, con una forza tale che i suoi resti si sparsero per tutta la sala. Infine, fu il silenzio a regnare sovrano.

I compagni di Erfea, che avevano ascoltato tutto senza proferire parola alcuna, rabbrividirono allorché udirono della orrenda morte del figlio di Morlok; infine Elrond parlò: “Credi che il Numenoreano avesse così voluto fornirti il nome che era sul punto di rivelarti prima che gli Ulairi facessero il loro ingresso nella sala? E se tale fosse il tuo parere, ritieni che egli conoscesse quali informazioni possedessi sui Nazgul?”
Lenta echeggiò la voce del principe di Elenna, che in tali termini si espresse: “Non vi è risposta certa alle tue domande, Signore dei Noldor; forse, in qualche modo che io ignoro, Eargon era giunto a conoscenza del mio viaggio sino alla fortezza degli Ulairi nell’estremo Harad e sapeva che avrei dunque compreso un nome che risuonava oscuro ai più; o forse, egli voleva solo imprecare contro colei che l’aveva privato di quanto un Uomo non dovrebbe mai perdere”.
Tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Allorché il Nazgul ebbe rinfoderato la sua lama, e si fu allontanato dallo scalone, io ne discesi a fatica gli alti gradini, aiutato in questo da Tar-Miriel che si ergeva accanto a me. Triste fu lo spettacolo che si stendeva sotto i nostri occhi: decine di corpi giacevano riversi sul pavimento o chini sugli scranni presso i quali inutilmente avevano tentato di trovare la salvezza; una aria greve sembrava esalare dal basso e i nostri sguardi erano penosi. La schiera di Pharazon, giunta per sedare la ribellione, si era ormai ritirata, lasciando solo alcune guardie nella sala; esse ci rivolsero deferenti inchini, esortandoci a riunirci con quanti ancora dei Fedeli sopravvivevano: mio padre e mia madre, seppure feriti e spossati, erano con i Signori della Casa di Andunie, anch’essi salvi. Brethil comparve alle mie spalle ed io mi avvidi che era incolume; tuttavia, prima che potessi parlargli, apparve Pharazon ed egli chinò il suo capo, rivolgendomi queste parole: “Mi duole, principe dello Hyarrostor, vedervi sì provato da una simile disgrazia; forse ora comprenderete quanto le mie parole fossero nel giusto, allorché esortai il Consiglio dello Scettro a cedere il comando ad un Uomo di maggior ingegno e prudenza dotato”.
“Avete condotto in questo luogo, un tempo sacro, gli schiavi immortali dell’Oscuro Signore! La follia si è impadronita della vostra mente!” Con rabbia aveva pronunziato tali parole, ma la mia voce era ormai ridotta ad un rantolo confuso; Pharazon non mostrò di averla udita, oppure, se intese le mie parole, pure le ignorò: fummo condotti via, ché il cugino della sovrana addusse quale scusa per allontanarci esservi ancora presenti implacabili nemici. Tar-Miriel, tuttavia, fu trattenuta ed io non potetti far nulla, ché molto sangue avevo perso e dei Fedeli erano pochi quelli ancora in grado di impugnare un’arma.

Lacrime di rimorso scivolarono allora via dalle gote di Erfea, e il suo tono si incrinò, tuttavia egli proseguì nella narrazione: “Nei giorni successivi, le ferite che ci erano state inferte furono sapientemente guarite dagli Erboristi della nostra dimora; eppure, la vita pareva aver abbandonato i corpi di mio padre e mia madre ed essi, sebbene riacquistassero coscienza, pure si spensero lentamente e, alla fine dell’anno, io rimasi l’unico Signore dello Hyarrostar e fui anche l’ultimo a onorare un simile titolo.
Nei mesi successivi, Pharazon intensificò il suo potere a corte e condannò a morte gli ultimi sostenitori di Eargon che ancora gli resistevano; infine, una calda sera di luglio, egli inviò messaggeri presso tutti i nobili del Regno, invitandoli a prendere parte ad un evento quale mai prima i loro occhi avevano mirato.
Giunti che fummo ad Armenelos, ci avvedemmo quanto fossero rimasti in pochi ad innalzare gli antichi vessilli di Numenor, ché la maggioranza dei soldati recava le insegne nere e dorate di Pharazon; allorché egli si avvide che i suoi ospiti avevano preso posto, si levò dal suo scranno e due oscure figure avanzarono ai suoi fianchi; infine, giunto dinanzi alla balaustra che si affacciava sul grande piazzale che occupavamo, levò il braccio destro e chiese la parola.
“Numenoreani! Gli eventi di recente accaduti mi hanno dimostrato che solo un Uomo dotato di possente volontà e sorretto da amici valorosi ed equi, può condurre i nostri destini verso un avvenire glorioso; non crediate, tuttavia, che questo sia un incarico al quale mi approssimo inconsapevole: alcuni anni fa, come molti fra voi ricorderanno – e qui il suo sguardo cadde ironico su di noi – certuni sostennero che la regina Tar-Miriel avrebbe agito saggiamente, sconfiggendo i nostri nemici; eppure, una serie di ribellioni sono state provocate, le une causate dalla sua incompetenza nella difficile arte di governare, le altre da ingenui comandanti privi di ogni lungimiranza e prudenza.
Non vi sembra, dunque, che tale corso infausto degli eventi molte sofferenze abbia arrecato al nostro popolo? Mirate, o Numenoreani, le tristi sembianze di coloro che subirono le orribili cicatrici della guerra e le sventure della miseria! Mirate le oscure carceri ove furono racchiusi pericolosi ladri e biechi assassini, le cui azioni l’imbelle sovrana non seppe frenare! Mirate i lussuriosi postriboli, ove giace, oziando, la nostra gioventù! Mirate tutto questo, o Numenoreani, e domandate ai vostri animi chi è il responsabile del degrado che fino ad oggi ha imperato sulla nostra isola!”
“Tar-Miriel, Tar-Miriel!” prese ad urlare la folla, accompagnando il suo nome con osceni epiteti che non riferirò qui dinanzi a voi; allora, Pharazon levò nuovamente il braccio e chiese la parola:
“Se io fossi, Amici, un Uomo quale questi tempi oscuri hanno generato, tosto avrei chiesto la testa della sovrana ed essa sarebbe stata esposta qui, innanzi a voi; tuttavia, poiché la mia stirpe affonda le sue origini nella notte dei tempi, ecco che vengo a voi come salvatore della patria e della sua sventurata regina; dal momento che il risanamento dell’isola passerà attraverso quello dei suoi abitanti, ecco che io prendo, dinanzi a voi tutti, Tar-Miriel come mia sposa ed ella regnerà al mio fianco”.
Un grande mormorio di stupore si levò dal popolo; ma esso fu presto sommerso da frenetici applausi che si levarono da ogni dove; una quarta figura comparve allora sul palco reale ed ella era colei che un tempo avevo amato. Invano tentai di scorgere meglio il sembiante della figlia di Tar-Palantir, ché mi parve il cielo essere oscurato da una fuligginosa caligine; ratto, allora, mi voltai e scorsi Brethil che singhiozzava, versando amare lacrime accanto a me; fu solo allora che, stupito, mi accorsi anche io di piangere: molto morì in me in quel momento.
A lungo piansi, né ero il solo; distante pochi passi da me, il volto contorto da una smorfia di rabbia, era anche Isildur; tuttavia, se le sue lacrime erano dettate dall’impotenza e dall’ardore giovanile represso e tosto sarebbero state sostituite dal cieco desiderio di vendetta, le mie avevano un sapore più amaro, ché sancivano il definitivo addio agli anni della mia verde Primavera.
Infine, la figura più alta posta accanto al sovrano, calò la sua cappa ed io la riconobbi: Er-Murazon, il Signore dei Nazgul, era giunto a Numenor per celebrare la vittoria del suo padrone. L’oscuro servo di Mordor levò in alto la corona forgiata per l’occasione, ché mai prima di allora vi era stato un sovrano che avesse posto sul proprio capo un simile cimelio, e la collocò su quello di Pharazon, pronunciando simile parole: “Egli sarà sovrano con il nome di Ar-Pharazon il Dorato e la sua sposa sarà nota come Ar-Zimraphel. Lunga vita ai sovrani di Elenna!”

Il popolo accolse il nuovo re con gran tripudio ed infinite esclamazioni di giubilo; quanto a me, avevo preferito abbandonare quel triste luogo per fare ritorno alla mia contrada, tosto imitato dagli altri Signori dei Fedeli: giunto dinanzi alla città di Minas Laure, invitai presso la mia dimora Brethil ed egli accettò con gioia e gratitudine, ché le sue genti erano state completamente annientate ed egli era l’ultimo della sua casata.
Alcuni mesi dopo Ar-Pharazon inviò i suoi araldi presso i Signori dei Dunedain, chiedendo loro di sottomettersi alla sua maestà: nessuno fra noi firmò la sua richiesta e grande invero fu la sua ira, sicché fece giuramento sul padre che avrebbe condotto alla rovina coloro che gli si erano ribellati; dei trentatré Signori che erano sopravvissuti alla guerra e che non erano ancora fuggiti alle colonie della Terra di Mezzo, ben ventidue furono accusati di alto tradimento e condannati al patibolo; sette subirono la pena dell’esilio e quattro furono privati di qualunque carica avessero posseduto fino a quel momento; quanto a Brethil, accolse il dono di Iluvatar prima che fosse emanato il decreto di colpevolezza nei suoi confronti ed egli fu sepolto accanto ai corpi dei miei avi.

Lungo era stato il racconto di Erfea ed era ormai giunta l’alba quando la sua voce si spense fra il frinire delle prime cicale; profondamente commossi, i compagni allora gli si inchinarono ed egli condusse i loro passi ad una radura poco distante dal luogo ove avevano udito il resoconto di quei lontani anni: al suo interno, accanto a una gaia fonte, era posta una grande roccia, che mani abili avevano scolpito simile ad una pergamena aperta. Vi erano dei nomi incisi sulla sua superficie ed i compagni vi lessero, fra gli altri, quello di Erfea Morluin, di Amandil, di Elendil e dei suoi due figli, Isildur e Anarion.
Ancora oggi tale pietra è visibile ad Orthanc e si narra che neppure le corrotte arti di Saruman il Bianco, le oscene grinfie degli Orchi o ancora la furia dell’Isen allorché la valle fu allagata, riuscirono a spezzarla o ad insudiciarla: grandi onori le tributò Re Elessar allorché la scorse e ne decifrò le iscrizioni, ché essa era ivi posta a testimonianza imperitura del coraggio e della lealtà dei Numenoreani Fedeli al loro popolo e agli antichi vincoli di alleanza con le altre liberi genti».

Fine del racconto.

L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Scrivere sulle orme di un grande autore del genere epico e fantastico come lo è stato J.R.R. Tolkien non è semplice. Non si tratta solo di una questione di stile, o di conoscenza delle lingue della Terra di Mezzo o, ancora, della Storia dei popoli che l’abitarono. La difficoltà più grande da superare è costituita dal rispetto che al suo legendarium chiunque dovrebbe portare; indubbiamente possono esservi passaggi o scelte che non condividiamo (quanti di noi avrebbero voluto che Thorin o Theoden non morissero? E che dire della sorte di Frodo, incapace di riacquistare la pace al termine delle sue sventure, che pure avevano salvato la Terra di Mezzo?), ma ritengo sia giusto accettarli così come sono stati descritti dal loro autore. Non lo sostengo solo per una questione di rispetto: si tratta, invece, di una questione di coerenza, più facile da distruggere di quanto superficiamente si possa credere. Ogni evento, se trasformato, può produrre una serie di conseguenze che rischiano di mettere a repentaglio tutta la materia tolkieniana, alla quale l’autore – non bisogna mai dimenticarlo – ho dedicato tutta la sua esistenza.
Questa lunga premessa mi serve per introdurvi alla conclusione de «Il Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», nella quale, come avrà intuito chi ha letto le parti precedenti, il destino di Erfea, Miriel e dello stesso Pharazon, naturalmente, conoscerà una svolta drammatica.
Non si può nascondere che non ci sarà un lieto fine. Avrei voluto, certamente, che Miriel non cedesse alle lusinghe e alle minacce di suo cugino Pharazon; tuttavia, così facendo, avrei cambiato l’intero corso della Storia e non era questa la mia intenzione.
Che l’ascesa di Pharazon abbia inizio, dunque…non prima, tuttavia, che avvenga un vero e proprio colpo di scena…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Giunti che fummo innanzi ai cancelli del palazzo reale, il Maggiordomo del Palazzo venne da noi, ordinando di deporre le armi che recavamo seco: “Signori dello Hyarrostar, nessuno meglio di voi dovrebbe conoscere le leggi di questa contrada; certamente, rimembrerete che mai alcun Senatore o Membro del Consiglio dello Scettro abbia fatto il suo ingresso alla sala del trono adorno di simili cimeli!”
Fredda fu la mia risposta: “Né, tuttavia, si era mai visto che un membro della famiglia reale osasse usurpare il trono al legittimo sovrano; se grande è la nostra colpa, piccola essa sembrerà dinanzi a simili crimini. Perché dunque non rivolgesti le medesime ammonizioni ai Neri, che osarono fare il loro ingresso in questo palazzo, sprezzanti di qualunque autorità?”
Il Maggiordomo, allora, chinò il capo e più non parlò, ché grande era in lui la vergogna; i pesanti battenti furono aperti e facemmo il nostro ingresso nella Sala Circolare, ove si tenevano le riunioni del Senato e del Consiglio dello Scettro nei rigidi mesi invernali: due ordini di scranni correvano lungo tutto il muro, aprendosi solo dinanzi all’ingresso. Al centro, vi era un alto trono in marmo, posto su di un’ampia predella che si levava dal basso verso gli scranni della seconda fila; sappiate, amici, che codesti erano i posti assegnati a coloro che appartenevano alla fazione sostenitrice del Sovrano; grande perciò fu la nostra inquietudine, allorché l’Araldo del Sovrano diede disposizione affinché occupassimo la prima fila di scranni.
Nessuna parola fu pronunciata, né inchino mostrato; silenti e scuri in volto, prendemmo posto accanto ai nostri congiunti; ivi eran anche Amandil, Elendil ed Isildur, seguiti da Brethil l’Orbo: allorché si avvide che i Principi dello Hyarrostar erano con lui, Elendil prese a sussurrare al mio orecchio parole intrise di timori e rancori: “Erfea, questa è una trappola! Mai avremmo dovuto seguire i consigli di chi, per ingenuità o per follia, esortò i nostri voleri a prendere una decisione che arrecherà infinite disgrazie alla fazione dei Fedeli!” Isildur, tuttavia, mostrando infinito sprezzo del pericolo, accarezzò cupo l’elsa della sua nobile lama e parlò: “Fosse anche come tu dici, padre, pure vi sono qui campioni che i seguaci di Pharazon si pentiranno di aver convocato dinanzi a loro!”

Il primo oratore, dopo aver atteso che il brusio dei presenti fosse scemato, si inchinò dinanzi ai senatori e ai principi del Consiglio dello Scettro, dichiarando che la seduta era aperta; fu allora che mi accorsi quanto ciascun Uomo presente in quella sala, sia che egli sostenesse la causa di Numenor, sia che ambisse esercitare il potere su di essa, nutriva nel suo cuore le medesime paure ed ambizioni; non vi era nessuno, infatti, che non mostrasse apertamente le proprie armi. Alcuni senatori giunsero a pronunciare i propri discorsi impugnando con la sinistra le preziose pergamene sulle quali erano trascritti e posando la destra sull’elsa della lama che recavano seco.
Infine, allorché gli oratori appartenenti agli ordini più bassi ebbero terminato di parlare, un minuscolo uscio sulla sinistra fu aperto e Tar-Miriel fece il suo ingresso nella sala.

Erfea tacque per qualche attimo, rimembrando lo sconforto che l’aveva preso allorché i suoi occhi l’avevano veduta dopo lungo tempo; infine, proseguì la sua narrazione e la sua voce mutò, divenendo remota agli orecchi dei Signori dei PopoliLiberi:
“Ridotta a poco più di un pallido fantasma anelante alla vita, la figlia di Tar-Palantir sedette sul trono marmoreo al centro della sala; così esile era divenuta, che i massicci monili dorati, mai indossati prima di quel momento, parevano ceppi ai quali era ancorata, anziché tesori di inestimabile valore; gelido ed impassibile fu il mio animo in quell’ora, eppure non potetti distogliere lo sguardo dal suo sembiante ed ella fu consapevole della mia presenza; allora uno spento sorriso le illuminò il volto e in esso erano visibili tutti gli anni della nostra giovinezza, quando non ancora il nome di Pharazon era stato udito a Numenor e si ascoltavano canti lieti echeggiare in quelle medesime volte ove adesso regnava il Terrore.
La regina ascoltò con estrema attenzione le richieste dei suoi sudditi ed essi parevano indifferenti a quanto era accaduto di recente; si discusse della cattiva stagione del grano e del farro, e si stabilì un calmiere per i generi di prima necessità; tuttavia, non una voce si levò dagli scranni ove sedevano i membri del partito dei Fedeli, avvedendosi che codesta era solo una farsa; eppure, le sventure più gravi dovevano ancora giungere.

A metà mattinata, prima che le campane suonassero la quarta ora dopo il sorgere del sole, Eargon, che parimenti si era astenuto dall’intervenire sino a quel momento, chiese udienza presso la sovrana, domandandole che un suo capitano potesse far ritorno dall’esilio ove era stato confinato alcuni anni prima; nonostante il diniego che Tar-Miriel oppose a tale richiesta, egli insistette e si approssimò al trono; giunto dinanzi alla sovrana, continuando a scongiurarla di mutare parere, ecco che afferrò l’argentato scettro e lo inclinò verso il basso: come ci avvedemmo in seguito, quello era il segnale della rivolta.
Con una forza che sorprese tutti, Tar-Miriel afferrò l’Uomo, mentre la sua voce si levava alta nella sala, pronunciando queste parole in Quenya: “Dannatissimo Eargon, cosa fai?” Quello, allora, per tutta risposta, sguainò la sua lama e, rivolto ai Neri che erano sovra di lui, così parlò in Adunaico: “Fratelli, aiutatemi!”
Un gran numero di arcieri apparve allora sugli spalti interni e presero a colpire i senatori della nostra fazione; ancor prima che essi, però, facessero il loro ingresso nella sala, Isildur comprese quanto era in procinto di accadere: con un urlo, egli impugnò la spada e balzò in avanti, consapevole che i Neri avrebbero impiegato alcuni istanti per discendere dagli scranni superiori, appesantiti com’erano dalle armature che indossavano; giunto che fu dinanzi al figlio di Morlok, tentò di trucidarlo con un colpo ben assestato. Eargon, tuttavia, essendo più esperto ed accorto, scansò abilmente il fendente del suo avversario e lo abbatté con lo scettro che aveva sottratto alla regina, colpendo allo stesso tempo il capo di Tar-Miriel con l’elsa della spada; tutt’intorno, intanto, le spade mulinavano e le frecce fischiavano. La Sala Circolare, che mai aveva conosciuto la follia degli Uomini, divenne teatro di una grande carneficina; io combattevo al fianco di mio padre Gilnar e molti dei Neri giacevano caduti ai nostri piedi; infine, mi avvidi che Eargon si apprestava a trascinare il corpo esamine della sovrana in alto, lì ove occhi indiscreti non avrebbero potuto scorgere le nefandezze che il suo animo oscuro avrebbe desiderato soddisfare con la sua prigioniera: con un balzo imperioso, gli fui accanto, sbarrandogli la strada. Una freccia fischiò nell’aria, conficcandosi nella mia spalla destra; ferita non letale, ma profonda, sicché fu con immenso dolore che mi apprestai a duellare con il figlio di Morlok; egli sorrise compiaciuto allorché si avvide della mia ferita e levò in alto l’elsa della sua spada, i cui rubini rischiarati dalla tremula luce delle torce, parvero illuminare la lama di una sinistra aura rossastra; Sulring rispose allora con il suo azzurro baluginare ed il duello ebbe inizio».

L’Infame Giuramento_VII Parte (Il coraggio dei Paladini)

Bentrovati! In questo articolo proseguo la storia del colpo di Stato di Pharazon che portò alla fine del regno di Miriel: nel brano che vi apprestate a leggere c’è un «racconto nel racconto», narrato da Erfea ai suoi compagni. Si tratta, a mio parere, di uno dei più commoventi passaggi del «Ciclo del Marinaio», ispirato all’eccidio dei Fratelli Cervi nel 1943: spero possa piacervi leggerlo, così come a me è piaciuto scriverlo.

Buona lettura!

«Il figlio di Numendil diede ordini affinché l’intero esercito si mettesse in marcia alla volta del porto alle foci del Gwathlò; non vi erano, tuttavia, navi a sufficienza per tale scopo, sicché il Signore di Andunie pregò i nostri alleati di difendere le contrade che erano loro familiari, piuttosto che una terra quale mai avevano mirato; essi, seppur riluttanti, prostrarono il capo, dichiarando, tuttavia, che mai avrebbero abbandonato la causa degli Uomini del Mare e che, piuttosto, si sarebbero nascosti tra i monti e le selve, continuando la guerra con gli scarsi mezzi a loro disposizione, nell’attesa che i Numenoreani facessero nuovamente vela alla Terra di Mezzo, ché, come ebbe a dire uno di loro, appartenente al popolo di Haleth, non sarebbero trascorsi molti anni che tale evento si sarebbe verificato.

Pur non sapendo a cosa alludessero queste parole, Amandil ebbe parole di elogio per codesti soldati e pregò loro di condurre quanti erano della medesima schiatta nei forti e nelle cittadelle dei Fedeli, affinché ricevessero adeguata protezione; in tal modo, dunque, si accrebbe l’amicizia tra le stirpi dei popoli mortali della Terra di Mezzo ed i Numenoreani ed i primi presero a popolare le contrade che sarebbero in seguito appartenute ai regni di Gondor e Arnor: dopo alcune settimane di viaggio, giungemmo al Grande Mare e ivi c’imbarcammo alla volta di Elenna.

“Erfea, poca o punta conoscenza ho delle arti marinare, eppure, ben m’avvedo quanto la vostra fosse una piccola, seppur valorosa schiera, se paragonata alle imponenti armate che servivano la causa di Pharazon; non temevate, dunque, che la vostra flotta sarebbe caduta vittima di un agguato teso dalle navi di uno fra i capitani dei Neri?” domandò allora Aldor Roc-Thalion, e sul suo viso era impresso il dubbio.

“Signore degli Eothraim, quanto tu dici non è lungi dall’essere vero, ché Amandil temeva sovra ogni altro pericolo che una simile eventualità potesse realizzarsi; allora Elendil, anch’egli un grande capitano di mare, suggerì al padre una manovra diversiva, che avrebbe tratto in inganno i nostri nemici; il loro capitano, infatti, attendeva un attracco delle schiere dei Fedeli al porto di Romenna, credendo – non a torto – che codesta sarebbe stata la strada più breve per giungere ad Armenelos; la nostra flotta, invece, fu divisa e le navi giunsero ai porti della mia contrada, che Pharazon reputava troppo piccoli per accogliere una flotta come era la nostra prima che fosse scissa.

Vi erano solo due porti nello Hyarrostar; il più grande, situato a nord est, aveva nome Laure Londe; il secondo, Lond Rhynin, si trovava invece a sud est; dopo alcuni giorni, dunque, secondo i piani previsti, le nostre schiere presero contatto con gli araldi della mia casata ed esse percorsero il cammino che conduceva a Minas Laure, ove mio padre ancora resisteva ai Numenoreani Neri; le schiere di Pharazon, che mai si sarebbero attese che i rinforzi a Gilnar giungessero da sud, si diedero alla fuga non appena intravidero i nostri stendardi; per qualche tempo, allora, la pace regnò nella mia contrada ed io fui riunito alla mia famiglia.

Erfea interruppe il suo racconto, la mente ed il cuore immersi in antichi ricordi; affascinati, i suoi compagni gli si strinsero attorno, pregandolo di continuare la sua narrazione, ché molto erano ansiosi di ascoltarne il triste epilogo.

In quei giorni – proseguì allora il principe di Elenna – la guerra si estese anche alle città e alle fortezze dell’isola, sicché ogni Numenoreano vi prese parte; molte imprese furono compiute, le une nobili, le altre spregevoli, né vi è tempo per narrarle tutte; tuttavia, una mi preme ricordare quest’oggi, ché essa è fonte per me di indicibile commozione. C’era un Uomo, il cui nome era Arras, che aveva sette figli, i quali militavano nelle nostre file ed erano soldati valorosi e leali; una notte, essi caddero vittima di un agguato e furono condotti in catene al cospetto di uno dei Signori dei Neri; allorché furono innanzi a lui, egli intimò loro di confessare i nomi dei compagni onde catturarli tutti; essi, tuttavia, non rivelarono nulla, né dinanzi alle sue insistenti richieste, né dinanzi alle torture più bieche. Stupefatto dalla resistenza che i fratelli avevano mostrato, il Capitano di Pharazon propose loro di unirsi alle armate del suo generale, con la promessa che avrebbero ricevuto grandi benefici, senza più badare a quanti erano con i suoi nemici e dei quali desiderava ardentemente ottenere i nomi, ché, come ebbe a riferire ai suoi prigionieri: “Sette uomini come voi valgono più di mille soldati!”

Essi, tuttavia, rifiutarono la proposta del loro aguzzino e furono condotti al patibolo; giunti innanzi al boia, uno di loro, che le storie narrano fosse il minore per età, ma il maggiore per valore, pronunziò queste parole, accarezzando il suntuoso mantello di cui era coperto: “Sarebbe un peccato se la furia del mio carnefice ne oltraggiasse la superficie; orsù, fratelli miei, leviamoci i manti e lasciamo che le vedove e gli orfani possano riscaldarsi con questi; a noi, infatti, non saranno più necessari.” I fratelli, allora, udite le sue parole, all’unisono levarono in alto i manti ed essi, tanta era la forza con la quale erano stati scagliati verso il cielo, ricaddero al di fuori delle mura della prigione nella quale erano rinchiusi, nei vicoli ove sovente si adunavano coloro che la guerra aveva condotto alla miseria, svettando come orgogliosi vessilli della dignità e della libertà dell’uomo che nessuna morte è in grado di uccidere”.

Commossi, i Signori delle libere genti chinarono il capo, quasi avessero voluto tributare omaggio al coraggio dei figli minori di Iluvatar e più di uno fra loro non seppe trattenere le lacrime; infine, Erfea riprese a parlare ed essi lo ascoltarono.

Troppo presto, tuttavia, giunse il momento in cui non fummo più in grado di opporci alle schiere di Pharazon ed egli era prossimo ad ottenere la vittoria; grande, allora, fu la nostra sorpresa allorché ci avvedemmo che i Numenoreani Neri non solo si ritiravano nelle loro magioni, abbandonando l’assedio alle nostre fortezze, ma domandavano finanche un incontro con i signori della fazione avversa; allorché l’ambasciata dei Neri giunse alle nostre corti, incerti, ci domandammo l’un l’altro quale oscuro significato si celasse sotto le belle spoglie con le quali gli ambasciatori del nemico si erano presentati dinanzi ai nostri occhi.

Alcuni fra noi erano per prestare ascolto agli ambasciatori, seppur con la cautela del caso, ché molta incertezza era sul destino di Tar-Miriel ed essi forse l’avrebbero mostrata ai nostri occhi; altri, e fra questi erano anche mio padre e Isildur, il giovane figlio di Elendil, che infinito valore aveva mostrato durante la guerra civile, guadagnandosi tosto l’ammirazione dei comandanti più anziani, erano per non concedere loro alcuno incontro, perseguendo nella guerra intrapresa; infine, si giunse ad un compromesso e decidemmo di recarci armati nelle aule di Armenelos, pronti a difendere la libertà dello Stato ed in nostri vessilli qualora fossimo stati ignominiosamente attaccati; in tale occasione, non vi fu un solo signore di Elenna che non prese parte alla seduta del Senato, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. Finanche mio padre e mia madre, che pure erano molto anziani, presero parte a tale consesso, l’uno recando seco le gloriose armi che un tempo aveva adoperato contro le schiere di Mordor e di Gimilkhad, la seconda un corto pugnale che nascose fra le pieghe del suo lungo abito».

L’Infame Giuramento_VI Parte (La scelta di Erfea)

Bentrovati. Continuo in questo articolo la narrazione del «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», giunto ad un punto cruciale e drammatico: Armenelos, la capitale di Numenor, è caduta nelle mani dei seguaci di Pharazon, e ad Amandil e agli altri paladini si prospetta una difficile scelta, alla quale non potranno sottrarsi…
Buona lettura! Al termine del racconto troverete una spiegazione alla base degli eventi presentati in questo brano.

«Erfea tacque per un istante, rimembrando gli eventi di quegli anni perigliosi; allora Elrond parlò e gli pose un simile quesito: “Amico mio, tale fu il processo che la regina parve appagata dal suo esito; nel tuo sguardo, tuttavia, vi è solo silenzio. Ho forse torto a ritenere che non fosse tale il tuo parere in quell’occasione e che ritenesti, ancora una volta, ingiusta la sua sentenza?”
Il principe di Numenor osservò il Signore di Imladris e sorrise: “Nessun pensiero può essere tenuto nascosta dinanzi al figlio di Earendil, ché, ancora una volta, lungimirante si è mostrata la sua mente; mai ho ritenuto che un semplice ladro avrebbe avuto interesse a macchiarsi di un crimine tanto orrendo quanto quello che fu commesso: la sovrana, tuttavia, fu insensibile alle mie esortazioni alla cautela e alla prudenza ed io non potetti fornirle nessun nome che potesse placare la sua sete di vendetta; solo al termine di numerose vicissitudini scoprii chi avesse ucciso Morlok, ma la verità era stata compresa troppo tardi per arrestare il corso degli eventi così come si era configurato.
Al termine dell’estate, giunse a Tharbad un’armata proveniente da Sud e recante le insegne nere e dorate di Pharazon; lo scontro fu crudele, ma breve, ed essa fu tosto messa in rotta e fuggì ad oriente; ai comandanti che esultavano per la vittoria raggiunta, così però ribattei: “Questa vittoria esigerà un tributo di sangue superiore a quello di molte battaglie perdute nell’antichità”.
Amandil, che mai si era spinto così lontano nel Meridione e conosceva poco o punto i popoli chi ivi avevano preso dimora, così ribatté: “Perché affermi questo? Checché codesti guerrieri non appartengano alla nostra stirpe, sono pur seguaci di Pharazon”.
Brethil, tuttavia, avendo compreso il mio pensiero, parlò a sua volta: “Dove è dunque Pharazon? Si nasconde forse ove le nostre spie non riescono a scorgerlo? Egli è informato sul movimento delle nostre truppe; perché non è giunto qui, dunque, onde spezzare il nerbo dei Paladini di Elenna?”
Allora Amandil comprese quali timori si celassero dietro i nostri interrogativi senza risposta e riunì un nuovo consiglio nella sua tenda; gli altri comandanti, che nulla avevano sentito dei nostri colloqui, attendevano novelle di buono auspicio, ma le loro aspettative, come dimostrarono gli eventi successivi, andarono presto deluse.
Si parlò a lungo della vittoria e molti crederono che il Capitano dei Numenoreani Neri attendesse a sud delle sorgenti dell’Isen, nel medesimo luogo ove discorriamo adesso, forse credendo in tal modo di celarsi ai nostri sguardi indagatori; altri, invece, temettero che egli fosse in cammino e che sarebbe giunto presto ai nostri accampamenti: “È noto, infatti – sostenevano costoro – che i governanti di Umbar sono soliti mandare avanti le loro avanguardie prima di contrarre battaglia ed esse sono sovente costituite da Haradrim ed altri mercenari arruolati nell’estremo sud”.
Qualunque fosse il pensiero di Amandil in quell’ora, egli non lo volle rivelare ad altri che non fosse il figlio; lo sguardo di costui, tuttavia, mostrava infinita pena, come se temesse di ascoltare una condanna pronunciata da lungi ma non ancora udita; quanto a me, credevo che Pharazon, lungi dal percorrere la strada che conduceva a nord, attendesse nella sua fortezza di Umbar, lì ove il suo potere era maggiore, nell’attesa che fosse pronto per l’assalto finale.

Lungi dall’aver raggiunto un accordo su tale questione, giunse trafelato un messaggero recante il vessillo di Numenor; stremato, si inchinò ai piedi di Amandil e pronunciò parole che mai più oblierò nel corso della mia vita: “Sire, Armenelos è caduta; i seguaci di Pharazon hanno levato il loro stendardo sul palazzo reale e si stanno abbandonando a vendette e a soprusi sulle donne; la regina è tenuta prigioniera nella sua dimora e nulla sappiamo della sorte di coloro che sono con lei”.
Mille voci si levarono nel medesimo istante e presero a parlare in maniera confusa; a fatica Elendil raggiunse l’araldo, domandando chi gli avesse dato l’ordine di raggiungere Endor e questa fu la risposta che ricevette: “Mio signore, l’ordine giunge direttamente dalla sovrana; ella desidera che la guerra cessi e che i suoi comandanti facciano appello alla lealtà verso la casa reale, di cui anche Pharazon è discendente, per imporre la loro volontà sui soldati e condurli a Numenor disarmati”.
Il viso di Elendil esprimeva un’angoscia indicibile a narrarsi: «Cos’è accaduto ai miei figli? Quali notizie hai su di loro?”; tuttavia il messaggero, affranto, così rispose: “Nessuna nuova ho di loro dacché ho abbandonato i lidi di Numenor.”
“Deve essere stato invero un momento di grande sconforto per tutti voi – interloquì allora Groin – ché il nemico era giunto ove mai avrebbe potuto dirigersi se la fiducia di Tar-Miriel fosse stata maggiore nei confronti di quanti tutelavano il suo reame.”
Invero, Groin, nessun racconto potrebbe testimoniare lo sgomento che si impadronì del Consiglio dello Scettro in quel momento; fu allora, tuttavia, che Amandil mostrò grande saggezza e si guadagnò molta stima presso i principi del Regno: egli, infatti, pose all’araldo la medesima scelta che avrebbe domandato a ciascuno di noi. “Araldo di Numenor, non è più tempo di indugi; quale lealtà osserverai? Quella dei nuovi signori assurti dalle Tenebre e dall’inganno o quella dei Paladini di Elenna? Scegli dunque!”
L’araldo osservò il volto del Sovrintendente di Numenor e sul suo viso si lesse coraggio e determinazione; egli allora si inginocchiò e, sguainata la sua lama, ne offrì l’elsa al figlio di Numendil, giurando di servire la causa di Elenna. Commossi da tale gesto, molti fra noi pronunciarono le medesime parole ed il suono di molte spade sguainate riecheggiò nella fresca ora del vespro; Amandil, tuttavia, mostrando grande umiltà, si schernì innanzi a loro e dichiarò che se vi era un uomo che meritava tali omaggi, quello era il figlio di Gilnar. Stupefatto, lo osservai mentre si genufletteva innanzi a me e chiedeva perdono per non aver accolto in precedenza i miei pareri presso di sé e aver ignorato a lungo la minaccia di Pharazon e la follia di Tar-Miriel, senza opporre ad esse valida resistenza; io però non avrei gradito che la designazione giungesse per altro mezzo che non fosse la scelta del popolo; e, poiché i soldati del regno attendevano trepidanti un verdetto, dichiarai che avrei accettato tale investitura solo se essi si fossero dichiarati in tal senso.
“Una strana scelta, la tua, Dunadan – osservò Glorfindel mirando il sembiante di Erfea rischiarato dalla pallida luna – ché, se avessi invero trionfato, avresti riportato l’ordine a Numenor ed il destino del Mondo sarebbe stato forse mutato”.
Erfea ristette per lunghi attimi in silenzio, infine gli rispose in questi termini: “Vi erano diversi motivi per i quali caldeggiavo una simile soluzione; da un lato, infatti, la mia stirpe era prossima alla scomparsa ed io ero privo di discendenti, sicché, se anche avessi ottenuto il trono di Numenor, pure sarebbero sorte altre contestazioni alla mia morte e non desideravo che la mia patria piombasse nel disordine di un’altra guerra civile; dall’altro, era forte in me l’amore per la casa di Andunie ed essi erano i parenti più prossimi al sovrano; se vi era dunque una che avrebbe meritato un simile onore quella era senza dubbio la casata di Amandil e dei suoi discendenti. Mi appellai al popolo perché conoscevo quanto fosse forte la sua stima e la sua lealtà nei confronti della stirpe di Numendil ed esso avrebbe condiviso la mia scelta; inoltre, se anche quanto avevo sperato non si fosse realizzato, avrei desiderato che coloro i quali avevano sostenuto la lealtà a Numenor a costo della loro vita potessero scegliere un sovrano che paresse loro il migliore.
“Eppure, figlio di Gilnar, riconoscerai tu stesso che superiori ad Amandil erano la tua esperienza ed il tuo coraggio e la tua sapienza non era inferiore alla tua forza – interloquì allora Aldor Roc-Thalion – Perché, quando giunse l’ora, rifiutasti dunque tale incarico?”
Principe degli Eothraim, il tuo giudizio è lungi dall’essere nel vero, ché Amandil era un Uomo quale la nostra gente abbisognava in quel momento di grave sconforto; quanto a me – concluse ridendo – ho sempre privilegiato il ruolo del consigliere rispetto a quello del sovrano!”
“Erfea, hai dunque narrato della volontà di Amandil di conferire a te la maestà dei Sovrani di Elenna e di quanto la tua scelta fosse stata di appellarti al popolo; quali erano, tuttavia, i pareri degli altri nobili del regno su tale designazione?” domandò allora Bòr.

Il principe di Numenor rifletté per qualche istante, quasi che la sua mente stesse andando a quei giorni ormai lontani nello spazio e nel tempo; infine così rispose: “Brethil condivideva la medesima scelta di Amandil e mi esortava ad accettare un simile incarico; i suoi soldati, grati per i servigi che avevo reso alla casata del loro capitano, sostenevano la volontà del Principe del Mittalmar ed intonavano canti allorché mi scorgevano; quanti erano, invece, della casa di Morlok e non erano venuti meno alla lealtà nei confronti di Elenna, scelsero la stirpe di Andunie; nulla di certo potevo affermare riguardo i vassalli di Tar-Miriel, ed anzi temevo che essi sarebbero venuti meno alla parola data, preferendo non levare le armi contro i commilitoni che avrebbero scelto di difendere la regina, a costo di essere considerati traditori.
Allorché, dunque, si delegò al popolo la scelta su chi avrebbe ottenuto la maestà sui Numenoreani, un grave problema si pose dinanzi ai nostri occhi; vi erano più di cinquantamila soldati che attendevano ed essi, pur mostrandosi entusiasti di prendere parte ad una simile scelta, levarono al cielo un gran numero di opinioni discordanti, sicché nessuno parve comprendere alcunché di quanto accadeva; fu allora che Elkano, che un tempo era stato mio scudiero ed in seguito era assurto alla carica di capitano della cavalleria di Numenor, elaborò un’idea che consentì ai soldati di esprimere la propria volontà in tempi minori a quelli che avevamo previsto, impedendo che la confusione regnasse sovrana.

Vi erano, all’epoca, numerosi orci vuoti, che i servi accumulavano dinanzi alle porte dell’accampamento, non essendoci di alcuna utilità; Elkano ordinò che essi fossero trasportati all’interno del grande piazzale e frantumati; infine, pregò di distribuire ai soldati, incuriositi da tali gesti, i cocci costì ricavati e mostrò loro come usarli. Estratto il lungo pugnale dal fodero, Elkano tracciò sul coccio che aveva disteso sul palmo della mano sinistra due rune Anghertas, una “A” ed una “E”: i soldati avrebbero dovuto incidere la creta con l’iniziale del comandante che avevano scelto; in questo modo, dunque, nel volgere di poche ore, tutti i soldati espressero la loro volontà.
Non solo i figli di Numenor, ma anche i nostri alleati del Nord e del Sud si prodigarono per esprimere la loro preferenza, ché essi avevano a cuore le sorti dei loro signori e, pur non reputando Elenna la loro patria, soffrivano molto per la stato di guerra continua che affliggeva le loro contrade e desideravano che la maestà dei Signori degli Edain andasse ad un capitano di alto valore e provato coraggio; al termine della notte, infine, risultò essere vincitore Amandil e tutti i comandanti fedeli a Numenor giurarono che l’avrebbero seguito ovunque egli si fosse diretto».

P.S. Questo racconto nasce da un episodio storico che mi impressionò particolarmente e del quale, tra pochi giorni, ricorre l’anniversario: il giorno 13 settembre 1943, a Cefalonia, un’isola greca allora occupata dall’esercito regio italiano, si sarebbe svolto, secondo alcune fonti, una sorta di referendum tra le truppe italiane per sondare la loro disponibilità o meno a combattere l’esercito tedesco che richiedeva la loro resa. All’ispirazione fornitami da questo episodio, inoltre, ho unito il ricordo di una pratica adottata nell’Atene democratica, vale a dire l’ostracismo: essa veniva adoperata per sancire l’esilio di uomini politici ritenuti pericolosi per la sopravvivenza dell’istituzione democratica. Ciascun cittadino ateniese poteva esprimere il proprio voto, incidendo il nome del cittadino da ostracizzare su un coccio di vaso di terracotta, chiamato in greco, per l’appunto, ostrakon.

L’Infame Giuramento_V Parte (Paladino di Numenor e dei suoi compagni)

Bentrovati! Proseguo in questo nuovo articolo la narrazione degli eventi che condussero alla fine del regno di Miriel e all’ascesa di Pharazon come nuovo re di Numenor. Nel precedente articolo mi ero soffermato sulla figura di Morlok, una sorta di Ministro delle Finanze, al quale era affidata la gestione della parte economica del regno. In questo articolo, invece, scopriremo con quali modalità si verificò l’ascesa di suo figlio, il giovane ammiraglio Eargon, che diverrà ben presto uno dei protagonisti del colpo di Stato che porrà fine al regno di Miriel. Il titolo che ho scelto per questo articolo, tuttavia, non fa cenno alla figura di questo ambizioso individuo, ma a quella di Erfea, che qui possiamo ammirare non solo per il suo coraggio, ma anche per le raffinate doti di oratore, apprese durante gli anni della sua formazione giovanile.

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«Alcuni mesi dopo la nomina del figlio ad ammiraglio del regno, Morlok disparve e nessuno poté mai indovinare quale sorte avesse incontrato, ché egli era molto riservato e noi, al principio, non sospettavamo alcunché; infine, tuttavia, divenne palese a tutti che aveva dovuto soccombere dinanzi ad un nemico implacabile, sicché alcuni presero a mormorare che il suo crudele aguzzino non fosse altri che uno dei Consiglieri della Sovrana, ché il pugnale rinvenuto accanto al suo corpo orrendamente sfigurato recava incise rune intrise di grande potere.
Tar-Miriel prestò ascolto a queste voci sussurrate nell’ombra ed ordinò che le armi dei principi Numenoreani fossero consegnati ai capitani della sua guardia; grande fu il suo disagio allorché si avvide che fra le gloriose lame disposte innanzi ai suoi occhi vi era un fodero che ben conosceva; tuttavia, ancor prima che fosse pronunciata una condonna, lesta si sparse per tutta l’isola la voce secondo la quale il principe Brethil, mancando ai suoi doveri di vassallo della sovrana, aveva obliato di consegnare le sue armi secondo gli ordini ricevuti; la regina, la quale, invero, ben poco affetto nutriva nel cuore per l’Orbo, prese a sospettare della sua persona e ordinò che le si presentasse innanzi. Giunto che fu dinanzi alla sovrana, ella si levò furente dal suo scranno, rimembrandogli quanto infame fosse stata la sua condotta; levatomi a mia volta, presi le difese dell’anziano principe del Mittalmar, sostenendo la sua innocenza dinanzi alla colpa di cui era accusato, ché egli si era recato nell’estremo meridione della Terra di Mezzo ed era giunto alla sua patria solo al sorgere del sole di quel lontano giorno; allora Tar-Miriel parve acquietarsi, e sedette nuovamente sul suo trono, sempre tenendo lo sguardo fisso su di me. Il capitano della sua guardia, tuttavia, sussurrò all’orecchio della sovrana il suo pensiero ed ella, benché sul suo viso fosse ricomparsa la rabbia, pure manifestò un’amara soddisfazione, apostrofando con tali parole Brethil: “Non pago dell’accusa che grava sul vostro capo, attirate sventure ben peggiori di quelle che la vostra dimenticanza potrebbe procurarvi”.
“Dell’accusa ingiusta che avete mosso nei miei confronti, il nobile Erfea degli Hyarrostar ha testé dimostrata l’infondatezza. A cosa alludono, dunque, la vostra parole? Di quale nuovo misfatto si è macchiata la mia casata?” Sarcastico era stato il tono che Brethil aveva adoperato nel rispondere alla sua accusatrice, ché egli provava avversione nei confronti di Tar-Miriel ed era incapace di occultarla agli sguardi altrui; pure, alto risuonò il riso della sovrana ed ella pronunziò tali parole di sfida: «È consentito mostrare lealtà agli Uomini che riconoscono le proprie colpe e chiedono grazia per quanto hanno commesso; ma coloro che si macchiano di crimini infami nulla possono dichiarare che non sia un’ulteriore prova della loro colpevolezza. Ben m’avvedo quanto tempo abbia atteso, Brethil del Mittalmar, per ordire un complotto contro la mia autorità; ebbene, ogni tua speme si è rivelata falsa e l’ora del verdetto è giunta anche per te” – e così dicendo, levò in alto il pugnale che si era macchiato della morte di un uomo tanto probo quanto ingenuo e lo accostò al vuoto fodero di Brethil; le rune che erano incise sulla lama presero a risplendere di una luce rossa, sicché parve a tutti che egli fosse l’assassino di Morlok; pure, levata la mia voce affinché tutti potessero ascoltarla, così parlai:
“Numenoreani, come può un uomo, il cui destino sia stato segnato da una iniqua condanna ancora prima di ottenere la parola e tentare di discolparsi, ottenere giustizia? Privato del suo pugnale, Brethil è ora accusato di aver commissionato l’omicidio ad uno scaltro assassinio: sorte invero infausta per un uomo che subì un furto, quella di sentire proclamato un destino di morte, a causa di una colpa che non ha mai commesso!
Riconosco che egli avrebbe potuto prestare la sua lama ad un sicario ancor prima di salpare; tuttavia, non ritenete che un simile uomo si dimostrerebbe invero molto avventato o molto sciocco se agisse in siffatto modo? Chiunque avrebbe potuto agire come la nostra sovrana e scoprire che tale lama era proprietà del principe del Mittalmar; tuttavia, se mi è lecito avanzare un dubbio, in difesa non solo di un amico, ma di un uomo la cui lealtà nei confronti dello Stato mai è venuta meno in questi anni, non è stato forse possibile che l’assassinio abbia sottratto il prezioso cimelio per commettere un atto feroce, sperando che la colpa ricadesse su altri?
Fra voi sono alcuni, questo lo so, che ben ricorderanno, o perché erano giovinetti, come lo ero io, o perché ebbero sentore di queste storie dai loro padri e precettori, l’orrendo misfatto di cui si macchiò Arthol: ed egli è, come è noto, il parente più prossimo a Brethil; tuttavia, se il vostro giudizio privilegiasse tali parentele nell’attribuire le colpe, allora la nostra stessa sovrana dovrebbe essere accusata di alto tradimento, essendo ella nipote di Gimilzor il Crudele, del quale tutti, in questo consesso, ricorderanno gli scellerati crimini di cui si macchiò in vita”.
Così veemente era stata l’orazione che nessun Numenoreano osò contrastare la mia voce con la sua; finanche la regina, dopo avermi ascoltato si risiedette e restò in pensoso silenzio; infine, allorché l’eco della mia arringa si spense, così parlò: “Paladino di Elenna e paladino dei suoi compagni; un ruolo che ben ti si addice, Erfea Morluin. Dispongo che Brethil del Mittalmar sia privato dei suoi incarichi a corte finché non sarà accertata la sua colpa o la sua innocenza; egli, tuttavia, non sarà tratto in catene e potrà liberamente svolgere i propri affari, a patto che non abbandoni l’isola”.
Udita la condanna, Brethil chinò il capo, e furente abbandonò il Consiglio; la chiara voce della sovrana, tuttavia, lo arrestò che era ancora nella sala: “L’incarico che un tempo apparteneva al principe Brethil sarà d’ora in avanti e per tutto il tempo che riterrò necessario, di Eargon; possa egli dimostrarsi valido quanto lo fu il compianto padre”.
Il figlio di Morlok, allora, si levò dallo scranno e la sua soddisfazione era palese in volto; egli, tuttavia, non proferì parola e, baciata la mano della sovrana, lasciò il consesso, seguito dagli altri principi: quanto a me, rimasi seduto, avendo intenzione di discorrere con Tar-Miriel allorché fossimo rimasti soli, ma ella abbandonò la sala, accompagnata dalle sue guardie del corpo.
Quella sera, mentre ero intento a cenare, un servo venne da me e pronunciò queste parole: “Mio signore, il principe Brethil è giunto al cancello e chiede udienza”; lesto, allora, senza terminare il pasto, abbandonai il desco e giunsi di gran carriera al salone ove il mio ospite, nel frattempo, aveva trovato degna sistemazione. A lungo egli mi guardò, infine, un sorriso di gratitudine comparve sul suo sfigurato volto: “A te, amico mio, devo ben più della salvezza, ché, se non fosse stato per il tuo intervento agguerrito, ingiusta punizione sarebbe stata inflitta al mio capo”.
Sorrisi a mia volta e ci stringemmo in un caloroso abbraccio; infine, così gli parlai: “Brethil, è in atto un nuovo inganno a danno della sovrana di Elenna; se tu fossi stato condannato quest’oggi, non lei, ma il suo aguzzino avrebbe trionfato”.
“Credi dunque che vi sia Pharazon dietro a tutto questo? Io, però, pur condividendo i tuoi timori, non lo ritengo capace di atti sì astuti, ché egli ha sempre mostrato scarsa intelligenza nelle sue decisioni e se fosse responsabile di tali trame, pure ne sarei molto sorpreso. Bada piuttosto che Tar-Miriel non dimentichi la sua lealtà presso coloro che la servono, ché se questo avvenisse molto ne avrebbero a soffrire i paladini di Elenna”.
Vi erano rancore ed amarezza nella sua voce ed io, sebbene fosse lungi da me l’astio che in quel momento si agitava nel suo spirito, non potevo fare a meno di pensare a quanto veritiere fossero le sue parole; nulla però mostrai di quanto provavo e così risposi: “Eppure, se anche Pharazon risultasse estraneo a questi complotti, pure vi sarebbero altri a tramare nell’ombra; credo, amico mio, che finanche dei membri del Consiglio dello Scettro dovremmo prendere a diffidare”.
Nessuna risposta diede Brethil alle mie parole, né io aggiunsi nulla a quanto avevo detto; pure, i nostri pensieri corsero all’unisono a Eargon ed egli era sovente al centro delle mie preoccupazioni.
Tutto quanto ho narrato, avvenne alcune settimane innanzi che la guerra civile avesse inizio; prima di imbarcarci diretti ai lidi di Endor, Tar-Miriel revocò la sua condanna nei confronti di Brethil ed egli ottenne nuovamente quanto gli era appartenuto un tempo; nulla però, poteva ormai essere mutato nel suo cuore ed egli sempre diffidò della figlia di Tar-Palantir; un giovane ladro fu tosto accusato dell’assassinio di Morlok e condotto al patibolo, ché Tar-Miriel non intendeva portare avanti un processo che aveva desiderio di concludere quanto prima, essendo il suo cuore voglioso di ottenere giustizia sul suo anziano mentore».

L’Infame Giuramento_IV Parte (La storia di Morlok l’Occultatore)

Bentrovati! Proseguo la narrazione de «Il Racconto dell’Infame Giuramento», presentando una nuova figura, alla quale fin ora ho rivolto solo qualche cenno nel corso della trattazione: Morlok, una sorta di Ministro delle Finanze di Numenor, padre dell’ammiraglio Eargon, che avete avuto modo di conoscere leggendo «Il Racconto dell’Ombra e della Spada». In questa parte del racconto mi soffermerò su un aspetto che, di solito, nei racconti epici o fantasy viene trascurato, ossia il risvolto economico di queste vicende: intraprendere una guerra, una rivolta e, più in generale, tenere il governo di uno Stato potente come Numenor, infatti, richiedeva una certa disponibilità di denaro liquido: questa è la ragione per cui uomini apparentemente insignificanti come Morlok, in realtà, possono rivelarsi ancora più determinanti di un Paladino…

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«Coloro che erano con lui si levarono allora dai propri scranni e si apprestarono a raggiungere il desco; non era però con loro Erfea, ché egli rimase nella radura, contemplando le stelle di Varda sbocciare, come fiori argentati nella notte, ad occidente; allorché i suoi compagni furono di ritorno, lo trovarono che pareva addormentato: pure, così non era ed egli, al contrario, era immerso in profonda meditazione. Uditi i passi di coloro che gli si facevano incontro, il figlio di Gilnar si levò dal suo scranno e invitò i compagni a disporsi accanto a lui; con loro era adesso Glorfindel, ché molto ambiva conoscere eventi di cui gli erano giunti solo pallidi echi.
Erfea attese che il silenzio regnasse fra loro, infine levò nuovamente la sua voce ed essi lo stettero ad ascoltare.
“Vi fu, in seno al Consiglio dello Scettro, molta confusione in seguito alla mia proposta e non poche furono le voci di coloro che discussero al suo interno; alcuni erano per obbligare Tar-Miriel a rinunciare al trono e a nominare un nuovo sovrano fra loro che non avesse tema di arrestare Pharazon, stante l’accusa di alto tradimento; altri, e fra questi vi era anche Amandil, esortavano i presenti affinché ogni decisione fosse rimandata all’indomani della successiva seduta del Consiglio dello Scettro, che si sarebbe tenuta alcune settimane più tardi; comune a tutti, però, era la volontà di proseguire la guerra contro Pharazon: inviammo, allora, messaggeri ai nostri alleati, pregandoli di inviarci rinforzi prima che le armate del governatore ribelle piombassero su di noi, ma la nostra speme andò quasi del tutto delusa, ché alcuni araldi, infatti, furono trucidati dal Nemico prima di giungere a destinazione, mentre altri si smarrirono nelle selve e nelle paludi di Endor.
Di quei pochi che pervennero ai reami dei popoli liberi, avemmo notizie dopo una lunga attesa, ché le strade erano occupate dalle armate dei Neri e dalle loro spie; tuttavia, allorché essi furono di ritorno, confermarono le nostre peggiori paure, ché asserirono non sarebbero giunti aiuti da Khazad-Dum, mentre gli Uomini del Rhovanion avevano edificato i loro accampamenti al di là del mare di Rhun ed erano per noi irrangiugibili: solo gli Elfi risposero al nostro appello ed inviarono viveri ed armi.
Reso perplesso ed inquieto da tali notizie, compresi poco o punto le ragioni che avevano spinto i signori di Khazad-Dum a venire meno alla nostra alleanza, tanto più che erano state scorte spie di Pharazon aggirarsi lungo i tortuosi sentieri che conducevano alla rocca dei figli di Aule; grande fu la paura che mi colse, perché temetti che presto sarebbe stata instaurata un’alleanza fra i Naugrim ed i Numenoreani Neri; tuttavia, come vi spiegherà Naug-Thalion, i miei timori non trovarono conferma.
“A quell’epoca – interloquì il principe del popolo dei Naugrim – vi erano discordie anche all’interno del nostro Consiglio Supremo, ché alcuni premevano affinché i Fedeli di Elenna fossero sostenuti, mentre altri, infidi e pavidi, ritenevano sarebbe stato più saggio per il nostro reame se nessuna alleanza fosse stata stretta con quelle genti, temendo che le ricchezze di Khazad-Dum sarebbero state concupite dai Dunedain e che la gloria del nostro popolo sarebbe stata oltraggiata se avesse preso parte alle guerre fra i Numenoreani.
Per lungo tempo, quanti erano della mia schiatta riuscirono a contrastare la perniciosa influenza che consiglieri pavidi detenevano all’interno della corte, finché essa non trionfò e il sovrano non prestò ascolto alle subdole parole dell’opposta fazione; alcuni fra noi, allora, presero a inviare aiuti ai paladini di Elenna clandestinamente, contravvenendo agli ordini del re.
Ahimé, mai Durin IV avrebbe dovuto ascoltare tali infidi consiglieri, ché essi agivano spinti dalle medesime debolezze che attanagliavano sovente i cuori dei Naugrim, timorosi come erano di perdere i tesori che il nostro popolo aveva accumulato nel corso di lunghi secoli; fu fatto divieto a ciascuno dei principi del regno di soccorrere entrambi i contendenti e se questo fu, indubbiamente, di grande impedimento e danno per i capitani di Erfea, tuttavia provocò le medesime conseguenze anche per i loro nemici ed essi, ancora per qualche tempo, furono respinti”.
“Allorché mi giunsero tali notizie – riprese a parlare Erfea – sebbene non provassi nel cuore letizia alcuna, pure mi avvidi che finanche i miei avversari non avrebbero potuto godere di alcun aiuto; resistemmo, dunque, ancora per qualche mese, finché un nuovo evento, ancor più grave di quanti ho finora narrato innanzi a voi, colpì il mio partito e segnò le sorti di Numenor”.
“Se le tue parole non mi ingannano, Erfea Morluin, devo dunque dedurre che ancora non era stata presa una decisione in seno al Consiglio dello Scettro che privilegiasse la lealtà alla Corona o al popolo Numenoreano” osservò Glorfindel, campione fra gli Elfi.
“In verità, figlio di Gondolin, la decisione, nel cuore di ciascuno di noi, era stata già presa; tuttavia, poiché i Numenoreani di Pharazon risalivano da Sud rapidamente, pure si era detto che, fino al giorno in cui la pace non avesse trionfato nelle contrade abituate dai Dunedain, essa sarebbe stata taciuta”.
Erfea s’interruppe per qualche istante, indì proseguì: “All’epoca, tuttavia, non ci avvedemmmo della nostra ingenuità e in questo errammo a lungo, ché ignoravamo quali alleati sostenessero Pharazon nella sua lotta per impugnare lo scettro di Elenna; poche o punte certezze vi erano, sebbene io credessi che fra essi si occultasse almeno uno degli immortali servi dell’Oscuro Signore; questi, tuttavia, erano abili nell’occultarsi e si tenevano lontani dalla mia lama, sicché io scoprii le loro identità quando era ormai troppo tardi.
Scarsi erano, come vi ho testé narrato, i fondi di cui disponevamo per proseguire nella lotta contro i Numenoreani Neri, sicché in quei giorni la nostra unica fonte era costituita dal Tesoro Reale di Numenor, di cui era stato nominato Sovrintendente Morlok, il cui lignaggio era affine al mio, condividendo i medesimi padri; inusuale era stata la scelta della sovrana, ché mai, nella millenaria storia della nostra isola, un simile incarico era stato affidato alla sua stirpe, essendo stato, un tale compito, da sempre prerogativa dei principi del Mittalmar; pure, Tar-Miriel non aveva fiducia alcuna dell’unico superstite di tale casato, Brethil l’Orbo, così chiamato perché aveva perduto un occhio durante una delle battaglie contro gli Uomini del Re, dal momento che egli era cugino di Arthol il Rinnegato, condannato a morte per altro tradimento molti anni prima.
Non mi soffermerò ulteriorarmente su queste vicende, ché esse non riguardano tale narrazione; mi è sufficiente dire che Brethil, al contrario del corrotto cugino, era invece uno spirito lungimirante e privo di malizia, sicché egli, pur non alzando lamento alcuno durante le sessioni del Consiglio dello Scettro, pure soffriva per la sua mancata nomina a Sovrintendente del Tesoro, ché la riteneva, e a ragione, umiliante e priva di ragione alcuna: inutilmente tentai di persuadere Tar-Miriel affinché ella si ravvedesse sulla sua scelta e compisse atto di umiltà e giustizia, restituendo a Brethil la carica che apparteneva alla sua casata fin dai tempi di Elros Tar-Minyatur.
Poco o punto era stato possibile apprendere da Morlok, ché era riluttante nel parlare e conduceva vita solitaria; l’Occultatore presero a chiamarlo, ché si diceva fosse in grado di nascondere qualunque suo pensiero ai Saggi del Regno e finanche alle aquile di Manwe; non so quanta verità vi fosse in una simile diceria, ché lo sguardo di uno solo fra gli araldi del Signore dei Valar è arduo da sostenere ed essi leggono molto delle nostre intenzioni; ad ogni modo, egli si mostrò abile nella gestione delle finanze dello Stato ed il popolo benediceva sovente il suo nome, allorché lo scorgeva aggirarsi nei vicoli di Armenelos.
Per lunghi anni, dunque, Morlok ottenne l’amicizia dei membri del Consiglio dello Scettro e della Regina, la quale, tosto, prese a benevolere la sua casata, onorandola con ricchi doni, di cui il Sovrintendente, tuttavia, non amava fare sfoggio. Morlok prese moglie in tarda età, finanche secondo il metro dei Numenoreani, e la sua consorte aveva nome Linwen, una dama cara a Tar-Miriel come fosse una sorella; tale unione rafforzò il legame tra Morlok e la Regina di Numenor ed ella prese a confidarsi con lui, mostrandogli tesori quali mai occhi mortali che non fossero appartenuti alla stirpe dei sovrani avevano ammirato; un figlio allietò la dimora del Sovrintendente ed il suo nome era Eargon. Allorché furono trascorsi dieci anni, l’erede di Morlok si imbarcò su di una nave e nel volgere di un trentennio divenne un esperto capitano, sicché fu promosso Vice-Ammiraglio del Regno; quando questa notizia si diffuse a Numenor, non pochi ebbero a sussurrare che Eargon sarebbe presto divenuto un condottiero la cui fama avrebbe oscurato quella di qualunque altro paladino di Elenna; essi, tuttavia, non si avvidero che il giovane comandante era divenuto seguace di Pharazon ed ambiva ottenere conoscenze arcane, quali mai gli Uomini della sua stirpe avevano domandato e che sarebbe stato saggio non concupire mai; egli fu dunque corrotto e sedotto da Adunaphel e ne divenne lo schiavo preferito, nonché quello di gran lunga più potente”.
“In nome di Bema – proruppe allora la voce colma di orrore di Aldor Roc-Thalion – cosa accadde dunque a quel giovane, allorché la sua volontà fu annientata ed egli cadde vittima dell’Ombra? Non è ancora trascorso un giorno dacché ho udito la tua spaventosa storia sul maniero dei Nazgul e il mio cuore trema al pensiero di quale infausto destino possa aver conosiuto un siffatto Uomo!”
“Invero, il suo fu un destino di morte, ché egli aveva appreso le Arti Oscure ed era divenuto un capitano di mare quale pochi potevano vantare di eguagliare, né gli erano sconosciuti i segreti del Regno che il padre, per sua e nostra sventura, aveva osato narrargli, non sospettando alcunché. Eargon, allora, divenne una formidabile spia al servizio di Pharazon; eppure, le disgrazie maggiori dovevano ancora accadere».

L’Infame Giuramento_III parte (Una scelta difficile)

Bentrovati! Proseguo, in questo articolo, la narrazione degli eventi che condussero alla caduta di Numenor. Dopo aver avuto un alterco con Miriel in merito alla sua lealtà nello scorso articolo L’Infame Giuramento_Parte II (A chi va la mia lealtà?), Erfea prosegue la narrazione degli eventi passati ricordando la difficile scelta che si prospettò ai capitani lealisti di Numenor: deporre le armi per assoggettarsi a Pharazon e concludere così la guerra civile iniziata alcuni mesi prima, oppure resistere andando contro Pharazon e la loro stessa regina che richiedeva la pace tra le due parti. Del brano che ho trascritto mi piace rilevare l’umanità di Erfea, che si coglierà non solo nel confronto con Amandil ed Elendil, ma anche nel valutare i suoi sentimenti per Miriel, che dovevano essere oggetto di grande curiosità per i suoi contemporanei, attirandogli non poche critiche e perplessità.

Aspetto i vostri commenti, buona lettura!

«”Avventata fu invero la decisione di Tar-Miriel, Erfea – interloquì allora Aldor Roc-Thalion – eppure io non comprendo per quale motivo ella agì seguendo la via della stoltezza anziché della prudenza. Fu forse per follia o per qualche altra ragione che la regina di Numenor venne meno ai suoi doveri dinanzi al popolo?”
“Signore dei cavalli, all’epoca non compresi quale oscura trama si celasse dietro un’azione tanto avventata. Credevo, come molti altri, che la mente di Miriel fosse stata ingannata da qualche oscuro sortilegio e che ella fosse divenuta succube di uno dei servi di Pharazon, o, addirittura, del cugino stesso; ed in questo, come mostrarono gli eventi successivi, non mi ero sbagliato di molto, ché invero ella era caduta vittima della nequizia del figlio di Gimilkhad; eppure, vi erano altri motivi per i quali simili gesti venivano compiuti e, all’epoca, essi mi erano in gran parte ignoti; quanto accadde nei giorni seguenti mi dimostrò che, sovente, gli inganni orditi dagli uomini intrappolano, ancor prima delle loro vittime, quanti ne sono i folli artefici”.
Penosi mi apparvero i volti dei comandanti di Numenor allorché ritornai da loro latore di novelle di cattivo auspicio, e per lungo tempo essi non osarono parlare; dopo alcuni istanti che parvero non avere mai fine, si levò la voce di Amandil della casata di Andunie: “Miei signori, è stato ordito un oscuro inganno alla casa dei reggenti di Numenor; la nostra lealtà ci consiglierebbe di prestare fede al giuramento che stringemmo allorché fummo proclamati paladini del regno; non mi sbaglio, forse, affermando che fra noi vi sono tutti coloro che siedono al Consiglio dello Scettro e che detengono le sorti della nostra nazione? Se le mie parole non suonano false alle nostre orecchie, ebbene, perché noi dovremmo venire meno alla lealtà nei confronti di colei che ora siede sul marmoreo trono di Andor? Tale sarebbe il mio parere, se questi fossero giorni di pace, che io abbandonerei questi accampamenti e mi recherei ad Ovest, ove è la mia dimora ed attende impaziente la mia signora: eppure, così non è, ed i nostri voleri sono obbligati ad un’ardua scelta, ché essa potrebbe condurre Numenor alla caduta o alla vittoria.
La lealtà di coloro i quali siedono in seno al Consiglio dello Scettro non può essere messa in discussione, né verrà meno; mi chiedo, tuttavia, quali siano le reali intenzioni della nostra sovrana, ché la sua mi sembra una volontà vacillante; nondimeno, se questa mia ipotesi si dimostrasse veritiera, quale dovrà essere il comportamento che le nostre armate assumeranno? A chi andrà la nostra lealtà? A colei che è la figlia di Tar-Palantir o a colui che le sussurra gli ordini, occultato dall’oscurità di questi giorni?”
Silenzio si fece in tutta la tenda, ché ciascuno era immerso nelle proprie riflessioni; infine mi levai dallo scranno e presi la parola: “Membri del Consiglio dello Scettro e Comandanti degli eserciti di Numenor, avete testé udito la chiara voce di Amandil, il Sovrintendente, esporre il suo pensiero; permettete ad Erfea Morluin, della casa degli Hyarrostar, di parlarvi con la medesima chiarezza che caratterizzò il discorso del mio illustre parente. Invero, mai come in questo momento la volontà della nostra sovrana è stata sì vacillante da indurmi a chiedere se la nostra lealtà a Numenor non debba venire meno. Ebbene, mendace fu l’affermazione della nostra sovrana, ché la nostra obbedienza non già alla casa regnante, ma al popolo di Elenna è rivolta”.
Sguardi stupiti si levarono e più d’uno fu pronto a prendere la parola per replicare, sicché alzai la mano e chiesi di poter continuare a discorrere; allora essi parvero acquietarsi, ma i loro visi febbricitanti e colmi di timore covavano profonda inquietudine: “Miei signori, se è vero che la stirpe di Elros ha governato per lungo tempo la nostra patria, ciò è stato reso possibile per mezzo delle opere che il nostro popolo ha intrapreso; e se un dì il sangue dei sovrani di Elenna dovesse venire meno, pure non dovremo noi lealtà a coloro che giurammo di servire, affinché la follia e la sventura fossero tenute lontane dai loro giacigli? Quale lealtà dovremmo oggi perseguire se non quella che permetterebbe di salvare la nostra gente dalla furia distruttrice della guerra? Ché, se è vero la stirpe di Elros, di cui condividiamo il glorioso lignaggio, essere simile ad una rigogliosa pianta, pure essa è divenuta tale nel corso dei secoli, perché il colto e savio giardiniere ha avuto cura di lei; e se questo può sopravvivere privato di quella, è impensabile che il virgulto possa esistere senza colui il quale ne ha amorevole cura”.
Allorché l’eco della mia voce si spense, soffocato dai cinerei fumi che si levavano dai caldi bracieri, così parlò Amandil: “Gravi sono state le tue parole ed esse suonano sconosciute alle mie orecchie, figlio di Gilnar; tuttavia, poiché non sembri che quanto dirò sia troppo avventato, desidero domandanti perdono fin d’ora se le mie parole feriranno il tuo orgoglioso animo; coloro che rimembrano eventi accaduti anni or sono, infatti, non hanno obliato quale sentimento ti legasse un tempo a mia cugina, Tar-Miriel; vorresti tu smentire o confermare quanto le mie parole hanno rivelato dinanzi a questo consesso? Rispondimi, dunque!”
Freddo era stato il tono che aveva adoperato Amandil e non meno gelida fu la mia risposta: “Se io sapessi, o signore di Andunie, che la pace giungerebbe fra noi sulle ali dei medesimi venti che condussero fra noi questa missiva di sventura – e così parlando, levai in alto la pergamena scritta di pugno da Tar-Miriel, affinché tutti potessero scorgerla – avrei esortato i vostri voleri a rimettere le armate di cui siete comandanti nelle grinfie di Pharazon. Volete, dunque, che codesto sia il vostro ultimo gesto da uomini liberi, affinché la gente possa dire che preferiste una pace ignominiosa ad una resistenza valorosa? Quanto all’affetto che mi lega alla sovrana di Numenor e di cui, non dubito, molti hanno sussurrato nei giorni passati, non sarò certo io a disconoscerlo e, se questi non fossero tempi di dolore e follia ricolmi, mai avrei diretto i miei passi sì a levante; tuttavia, poiché non è per mezzo di questo sentimento che la libertà del popolo Numenoreano potrà essere preservata, è necessario che io debba prendere questa decisione.
Ho servito lealmente Numendil, tuo padre, e Tar-Palantir prima che la morte lo cogliesse; se la sua erede avesse mostrato maggior perizia nelle sue scelte, diverso sarebbe stato il mio parere in questa ora.”
Rabbia covavo nel mio cuore ed Amandil ne fu sgomento, ché di rado mi era accaduto di levare la voce nei suoi confronti, essendo egli come un fratello per me; Elendil, tuttavia, che molto era cresciuto in saggezza ed in lungimiranza dacché era iniziato il conflitto, parlò e acquietò i nostri animi feriti: “Padre mio, nobile cugino, perché adirarsi l’un contro l’altro? Quali che siano i sentimenti di Erfea per la nostra sovrana, è evidente che essi non sono d’impedimento al raggiungimento dello scopo per il quale siamo stati qui convocati. Se, infatti, Pharazon prevarrà e la guerra si estenderà anche a Numenor, abbandonando per qualche tempo queste coste, quale sarà la nostra scelta? Continueremo a prestare cieca obbedienza alla figlia di Tar-Palantir, oppure privilegeremo il bene del popolo? E se questa si rivelasse la migliore fra le decisioni possibili, quale destino si preparerà dinanzi ai nostri sguardi?”
Sagge erano state le parole di Elendil ed io così gli risposi: “Quale futuro incontreranno i nostri spiriti, è invero arduo indovinare; noi, tuttavia, non siamo aruspici, né affidiamo al capriccioso Fato le nostre vite. Chiedo scusa ad Amandil, ché non intendevo provocare fra noi discordia e astio; fu l’ira a parlare in me, non altro”.
“Erfea – così rispose il padre di Elendil – se la mia lingua ti è parsa infida, allora domando perdono per le parole che ho incautamente pronunziato; solo, desideravo comprendere quale sarebbe stata la tua scelta, se essa avrebbe preferito il cuore o la mente, ché sovente la volontà di Uomini savi e valorosi si perde in meandri tortuosi, difficili da comprendere”.
Silenzio si fece in tutta la sala, ché sebbene fosse scesa nuovamente la pace fra noi, pure vi erano ancora molte voci che tacevano e un accordo non era stato ancora raggiunto.
Erfea tacque, rimembrando lo stupore ed il silenzio che avevano regnato dopo la sua disputa con Amandil; allora Groin parlò e gli pose un simile quesito: “Figlio di Gilnar, hai testé affermato che il Sovrintendente di Numenor volle accertarsi che i tuoi intenti non fossero oscurati dall’amore che provavi per Miriel; credi, dunque, che egli tenesse in poco conto il destino di sua cugina e non si curasse del suo futuro, pur sapendo che ella non avrebbe più goduto della medesima benevolenza di un tempo, perfino presso di te?”
“Difficili sono da scrutare gli animi dei Numenoreani; questo solo posso rivelarti, figlio di Bòr: Amandil sempre diffidò della mia proposta, ché egli avrebbe preferito che fosse Tar-Miriel a detenere il trono e che io divenissi principe regnante accanto a lei; perfino quando fu designato sovrano dei Numenoreani Fedeli, egli accettò tale incarico a malincuore, non ritenendosi affatto all’altezza del suo ruolo; eppure, come dimostrarono gli eventi successivi, quella si dimostrò la scelta più saggia”.
“Tuttavia – interloquì allora Aldor Roc-Thalion – non sarebbe stato preferibile che tu regnassi accanto a Tar-Miriel, anziché permettere che la frattura fra i Numenoreani divenisse sempre più profonda? Molti eventi infausti avrebbero in tal modo essere potuti evitati, se Atalante non fosse mai accaduta e Sauron non avesse recato seco il germe della corruzione fra gli uomini dell’Ovesturia”.
Erfea ristette per qualche attimo in silenzio, infine così gli rispose: “È probabile che alcuni destini sarebbero stati mutati, se la mia scelta si fosse rivelata differente; eppure, Aldor del popolo degli Eothraim, sappi che se tale si fosse dimostrato il mio volere ed io avessi impugnato lo scettro di Numenor, trascorrendo le mie notti nel dolce talamo reale, pure la rovina non avrebbe tardato a cadere su di noi. Davvero credi che il seme di Sauron non fosse stato già sparso tra i Dunedain, all’epoca in cui io ed Amandil dibattevamo del destino di Elenna? No, ché esso era già fiorito ed aveva recato seco i suoi letali profumi; ancor prima che il nome di Pharazon echeggiasse a questo mondo, altri Numenoreani erano caduti sotto il giogo dell’Oscuro Signore; di Er-Murazor, Akhorahil e Adunaphel ho già parlato, sebbene la parte che essi ebbero nella Caduta non fu piccola; eppure, anche nei secoli successivi alla comparsa dei Nazgul, molti principi e guerrieri scelsero il vessillo di Mordor, pur credendo di essere liberi signori delle contrade che conquistarono con le armi. Gimilkhad, padre di Pharazon, fu uno di questi ed egli non fu né il più spietato, né il più crudele fra quanti si prostarono a Sauron ed ai suoi servi; Arthol, principe del Mittalmar, cadde vittima della medesima nequizia e con lui molti altri signori e dame. Quanto a me, sebbene provi profondo dolore per la morte di Tar-Miriel, pure comprendo che ella non avrebbe potuto essere salvata; vi provai, molti anni fa, ma fallii: fu allora che compresi quanto inutile sarebbe stata la mia unione con lei, vuoi perché ella era già vittima della disperazione e succube della volontà del cugino, vuoi perché, se anche i nostri corpi avessero conosciuto una serena vecchiaia l’uno accanto all’altro, quanti Numenoreani avrebbero seguito il mio ed il suo volere? Di questo resto convinto, ché mai il popolo di Andor sarebbe stato riunito, perché vi era infinita discordia tra i due partiti ed essi ambivano obiettivi differenti e contrastanti, come dimostrarono gli eventi degli anni successivi”. Tacque un attimo, infine così concluse: “Se non fosse esistito Pharazon, se Numenor fosse stata quella che i miei padri conobbero e onorarono, allora diverso sarebbe stato il mio destino; tuttavia, poiché queste condizioni vennero meno, codesta è stata la mia storia e, sebbene forte sia divenuto, con il trascorrere degli anni, il rimpianto per colei che persi allorché ero ancora giovane, pur comprendo che vi fu del bene nella sua infelice scelta, vuoi per una sua precisa volontà, vuoi per un disegno che i figli di Iluvatar scorgono di rado e di cui sono gli inconsapevoli artefici, sicché la stirpe degli Alti Uomini non è venuta meno ed essa prospera ancora oggi”.
“Ora comprendo quale volere ti mosse allorché abbandonasti Edhellond e, seppur conscio del bando che gravava su di te, prendesti la strada che conduceva a Numenor!” esclamò Elrond, il quale aveva preso posto accanto a Celebrian ed aveva ponderato ogni parola del Dunadan. “Fallisti, è vero, tuttavia non crucciarti, ché non imponesti la tua volontà sulla sua ed ella avrebbe potuto decidere diversamente se tale fosse stata la sua intenzione. È possibile, come hai testé affermato, che la sovrana abbia compiuto la missione per la quale era stata designata; eppure, labili sono i confini del mondo e al di là di essi vi è forse la speme che non tutto quello che gli Uomini hanno smarrito nel corso della loro breve esistenza vada definitivamente perduto, e alcuni legami siano destinati a sopravvivere alla morte stessa”.
“Diversi sono i destini degli Elfi ed in questo invidiano profondamente gli Uomini – interloquì allora Celebrian – eppure non è ancora giunta l’ora in cui i nostri fati debbano compiersi, ché molte volte ancora le rosse foglie dei faggi di Orthanc cadranno prima che il nostro destino sia compiuto e la gloriosa stirpe dei Noldor debba abbandonare questi lidi mortali.”
A lungo, coloro che erano con il Sovrintendente di Gondor rifletterono sulle parole che la figlia di Galadriel, di cui tenevano in gran conto il potere, aveva pronunziato, essendo ella saggia e lungimirante; infine, la profonda voce di Bòr si levò a sua volta: “Molti pareri sono stati espressi in questa ora e, sebbene il destino ultimo dei figli di Aule sia stato divulgato solo presso i loro eredi, pure dirò innanzi a voi che i nostri spiriti si reincarnano in altri corpi ed in questo credo che il nostro fato non sia dissimile da quello degli Elfi; tuttavia, poiché il sole è ormai calato ad occidente, inviterei Erfea a concludere il suo racconto, ché molto desidero apprendere gli eventi che condussero alla rovina Numenor ed egli non ha ancora fornito risposte esaustive alle mie domande”.
Rise il principe di Numenor e inchinatosi cortesemente all’anziano nano così gli rispose: “Errano coloro che credono l’abilità dei Nani essere solo nel forgiare forti armature e lame taglienti! Mio buono Bòr, vi sarà tempo per concludere il mio racconto, dopo che avremo desinato e coloro che sono affamati avranno soddisfatto i loro appetiti; qui vi attenderò, al calare della seconda ora dopo il tramonto, se vorrete ascoltare quanto la mia voce narrerà”».

L’Infame Giuramento_Parte II (A chi va la mia lealtà?)

Bentrovati. In questa seconda parte de «Il racconto dell’infame giuramento», Erfea, sollecitato dai suoi compagni a raccontare gli eventi che condussero alla fine del regno di Tar-Miriel (cfr. L’Infame Giuramento_Parte I (Il ritorno di Celebrian) ricorda il profondo dissidio che ebbe con la regina in merito alla lealtà che i Paladini di Numenor avrebbero dovuto tenere, se per la massima autorità del regno (ossia Tar-Miriel stessa), oppure per lo Stato, inteso come insieme di leggi e cittadini. Erfea, mostrando una sensibilità tipica di un uomo moderno, sceglie la lealtà verso lo Stato: nessun uomo o donna, neppure una regina, può essere ritenuto superiore alle leggi. Inutile aggiungere che un simile contrasto avrà inevitabili ripercussioni sulla vita privata del nostro Paladino…

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Nell’immagine in alto potete ammirare Tar-Miriel nei panni della moglie di Pharazon.

«Erfea tacque per qualche istante, ché la sua mente andava a quei giorni remoti, di cui pochi oggi serbano memoria, ché l’incuria degli Uomini è cresciuta ed essi non si curano più di quanto accadde nei Tempi Remoti; infine parlò e parve a tutti che la sua voce provenisse da quei lontani anni, allorché egli era principe di una contrada oggi feudo della maestà di Ulmo.
“In quei giorni, come alcuni di voi ricorderanno – e quivi il suo sguardo cadde su Celebrian ed Elrond, sicché essi parvero annuire – io ero il comandante della cavalleria di Numenor e conducevo, assieme a uomini minori nel numero rispetto ai nostri avversari, ma il cui valore era proporzionato alle gesta che compirono, una lunga ed estenuante guerra contro coloro che noi chiamammo Numenoreani Neri, ché essi erano invero crudeli nell’animo ed ambivano possedere ogni sorta di ricchezza e di privilegio: per anni, il mare e la terra furono oltreggiati dal sangue dei caduti e l’aria fu offesa dalle alte grida di agonia che si levavano dai campi di battaglia. Atti di valore furono compiuti da entrambi gli schieramenti, eppure quanti sostenevano la causa di Pharazon parevano crescere di numero, mentre sempre meno soldati seguivano il vessillo di Numenor, prestando ascolta, per paura o ambizione non saprei dire, alle seducenti menzogne che il nemico sussurrava agli orecchi degli stolti e di cui Pharazon si prestava volentieri ad essere araldo; egli ambiva ottenere il trono e la maestà dei Numenoreani e poco o punto si curava di quanti militavano nelle sue fila, fossero essi mercenari privi di scrupolo o rinnegati provenienti da remote contrade: mai vennero meno l’oro e l’argento nei suoi forzieri ed egli indossava suntuose armature e si baloccava con preziosi quali mai i miei occhi hanno mirato presso altre genti. Degli oscuri sortilegi che accompagnarono e guidarono l’ascesa al trono del cugino della sovrana preferisco non farne parola, ché essi arrecarono infiniti lutti alla mia gente ed erano spaventosi ad udirsi; pure, Phararzon non mostrava timore di adoperare le arcane parole che mai avrebbero dovuto essere pronunciate, né si dimandò donde provenissero. Fra noi, vi era chi sosteneva essere al fianco del principe un uomo esperto delle Arti Oscure che si praticano a Mordor, senza tuttavia conoscerne il nome; io, tuttavia, per quanto sospettassi l’identità di un simile signore di inganni e sortilegio esperto, pure non potetti confermare o smentire i miei sospetti fin quando Pharazon non fu incoronato ed io riconobbi il suo oscuro mentore; ma questo accadde in seguito ed io non avrei mai creduto che la follia sarebbe dilagata a Numenor in tale misura da divenire tosto inarrestabile”.
Tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Durante il primo anno di guerra, avevo ottenuto un’importante vittoria sugli eserciti di Numenoreani Neri presso la città fluviale di Tharbad, molte leghe a nord dal luogo presso il quale discorriamo: quella sera, mentre i soldati festeggiavano ed intonavano canti di vittoria, tenni un consiglio di guerra nella mia tenda ed erano con me i Signori di Elenna che sostenevano la causa di Tar-Miriel; cupi ed angosciati erano i loro volti, malgrado la vittoria ottenuta ed essi, ancorché fossero possenti guerrieri, erano riluttanti a parlare. Infine, allorché sembrò che il silenzio fosse divenuto sì grave da non poter essere più ignorato, Amandil, figlio di Numendil, si levò dallo scranno e pronunziò questo discorso: “Capitani di Numenor, godiamo di questa vittoria, eppure sappiate che essa non potrà rallegrare a lungo i nostri animi; molte, infatti, sono le notizie di cattivo auspicio pervenute dalla nostra dimora a questo accampamento, foriere di ventura per coloro che contrastano il volere di Pharazon”. Inquieti, attendemmo che egli srotolasse sotto i nostri febbricitanti occhi un rotolo imponente; sospirai, allorché lo scorsi, ché mi era noto il sigillo appostovi ed esso era caro al mio cuore; crebbe allora il disagio nel mio animo ed io ascoltai la voce del Sovrintendente di Numenor narrarci il contenuto della missiva: con orrore, mi accorsi che essa ordinava ai Comandanti del Regno di deporre le armi, ché non vi era più guerra fra i Numenoreani ed i rancori che in quei mesi avevano animato entrambi gli schieramenti dovevano essere obliati in nome della comune concordia.
Allorché Amandil ebbe terminato la lettura della pergamena, gli sguardi dei presenti si volsero, quasi all’unisono, verso il mio volto, sicché mi parve che essi attendessero una risposta che io solo avrei potuto offrire ai loro animi, tormentati dal dubbio; chi fra noi, infatti, avrebbe ceduto le armi, sapendo che, infine, il Nord era stato liberato dalla lordura dei servi di Pharazon e che ci dirigevamo trionfanti verso il Sud, lì ove il cugino della sovrana attendeva l’impeto delle nostre armate?
Pesante fu il mio cuore e grande fu lo sforzo che posi nel leggere quella pergamena, nutrendo la speranza che essa fosse stata vergata non già dalla regina di Numenor, nel cui nome combattevamo, ma da un’astuta spia; infine, emisi lentamente il mio verdetto su tale questione, ché ero, fra loro, colui che meglio conosceva la Signora di Armenelos e vi erano non pochi eventi che la riguardavano, ignoti a tutti gli altri, il cui ricordo custodivo nel mio cuore: “Questa pergamena è stata scritta dalla medesima mano che inviò i nostri eserciti, non più di trenta giorni fa, a Tharbad”.
Non ebbi bisogno di aggiungere alcuna parola, ché ogni cosa sembrava essere divenuta chiara a tutti e i miei compagni chinarono, prostati, il capo; infine, sforzandosi di parlare, Elendil si levò dal suo scranno e mi rivolse queste parole: “Principe dello Hyarrostar, non credo di ingannarmi sostenendo che molto hai appreso sulla sovrana di Numenor ed ella ha sempre rivolto benevolmente, in passato, il suo volere nei tuoi confronti; se quanto dico corrisponde al vero, allora ti chiedo di fare vela alla nostra patria, onde possa domandare alla regina in persona quale sia la sua volontà riguardo tale faccenda. Credo – e quivi parve che il suo sguardo si posassse su ognuno di noi – che altrimenti sarebbe molto penoso prendere una decisione inerente quanto abbiamo udito oggidì, ma che, in fondo, paventavamo all’interno dei nostri cuori dacché la guerra ebbe inizio alcuni mesi or sono”.
Mi levai dunque dallo scranno e abbandonai l’accampamento, dirigendomi verso la città di Tharbad; ivi, salpai a bordo di una piccola imbarcazione e mi diressi alla costa, ove sapevo era stato approntato un vascello per il lungo viaggio che mi avrebbe condotto a Numenor. Trascorse alcune settimane, approdai alle spiagge della mia patria e osservai con sgomento misto a sorpresa quanto i suoi abitanti fossero stati corrotti dalle bieche parole di Pharazon e dei suoi servi, sicché di rado mi rivolsero la parola e parvero aver obliato finanche il mio nome; chiesi udienza alla regina ed alla acconsentì a ricevermi: colmo di gioia fu il mio cuore nel rivederla, eppure il suo sembiante fu oscurato, come un fiore i cui petali fossero stati spezzati dal gelido Inverno.
A lungo le parlai e mi parve che ella non prestasse ascolto alle mie parole; infine, allorchè la mia pazienza sembrò esaurirsi, l’apostofrai con simili parole: “Mia Signora, giorno fa inviasti una missiva ai tuoi comandanti affinché deponessero le armi e si riconciliassero con i seguaci di Pharazon; eppure, ben m’avvedo come, perfino nella nostra patria, le cicatrici della guerra siano ancora visibili e fresche, sicché io ti domando per quale ragione volesti obbligare i nostri animi a compiere una simile volontà”.
Ella mi guardò, senza pronunciare parola alcuna; eppure, i suoi chiari occhi parvero domandarmi perdono e mi risposte con un antico detto, quali i Numenoreani adoperano in situazioni invero molto gravi: “Una speranza ho dato ai Duneadain, ma non ne ho conservato una per me”. Tacque per qualche istante, infine sospirò e presami la mano così mi parlò: “Vorreste, dunque, venire meno agli ordini della vostra sovrana? Non mentirmi, Erfea, ché io scorgo nel tuo sguardo il dubbio ed il timore che le mie parole hanno suscitato in te; eppure, se la lealtà dei miei comandanti dovesse venire meno, io perirei e altri avrebbero da patire sofferenze immani”.
Io la osservai, freddo, ché, sebbene il mio cuore sanguinasse copiosamente, pure non potevo ignorare quanto le sue parole avessero, inutilmente, tentato di occultare: “Vaneggi, Miriel, se credi che la nostra lealtà nei confronti di Numenor sia venuta meno; sappi, tuttavia, che ad essa solo risponderemo, quando sarà giunta l’ora, e a nessun’altra”. Ella, allora, lasciò cadere la mia mano ed il suo animo diventò gelido: “Va’, figlio di Gilnar e possa la tua lealtà non venire meno quando giungerà l’ora”.
Mi inchinai, senza risponderle alcunché, perché avevo compreso cosa celassero le sue parole ed ella era ormai perduta; pesante fu il mio cuore quella sera ed io abbandonai Romenna al calar della notte, dopo aver inviato messaggi a mio padre affinché radunasse quanti più uomini possibili e si preparasse a reggere un lungo assedio; vi erano pochi o punti dubbi, infatti, che Pharazon, qualora avesse sconfitto le nostre armate sul suolo della Terra di Mezzo, avrebbe concentrato le sue attenzioni su Numenor, invadendola con i suoi eserciti. Foschi furono i miei pensieri durante il viaggio di ritorno e, allorché giunsi a Tharbad un mese dopo, ebbi conferma dei miei peggiori timori: una grande schiera di Numenoreani Neri, infatti, aveva sconfitto i nostri eserciti del Sud ed ora giungeva nell’Eriador come lupo in cerca della preda ferita”.»

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Nell’immagine in alto, raffigurazione dell’incontro tra Erfea e Miriel narrato all’interno di questo articolo. Artista: Anna Francesca Schiraldi.

L’Infame Giuramento_Parte I (Il ritorno di Celebrian)

Care lettrici, cari lettori, bentrovati. Nel mese di agosto vi intratterrò con le vicende narrate nel «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento»: prima di leggere questo e gli articoli che seguiranno, tuttavia, vi consiglio la lettura del «Racconto dell’Ombra e della Spada», perché si tratta della continuazione ideale del filo narrativo iniziato in quel testo. Ad ogni modo, eccovi un breve riassunto delle vicende precedenti: al termine de «Il Racconto dell’Ombra e della Spada», Pharazon e i suoi consiglieri Nazgul avevano elaborato la loro strategia per prendere il potere a Numenor e rovesciare il regno della legittima sovrana, Tar-Miriel. In questo racconto, dunque, le premesse sinistre poste in quella riunione segreta tenuta dai Numenoreani ribelli diventeranno realtà; e toccherà ad Erfea, tornato nuovamente protagonista, essere la voce narrante di quanto accadde nell’ultimo anno di regno di Miriel, nel 3255 della Seconda Era.
Si tratta di un racconto molto drammatico e ricco di colpi di scena, al quale sono particolarmente affezionato. La vicenda si apre ad Orthanc (Isengard) nel mese di giugno dell’anno 3429 della Seconda Era: in quel luogo, infatti, si erano ritrovati i principali leader dei Popoli Liberi allo scopo di formare quella che sarebbe divenuta nota come «Ultima Alleanza», destinata a combattere il potere crescente di Sauron; ed è in questo frangente che Erfea ritrova una sua carissima amica…

Spero possa risultare piacevole la lettura di questo testo, così come per me è stato emozionante scriverlo. Aspetto i vostri commenti, buona lettura!

«Due figure si ergevano, l’una accanto all’altra, nel luminoso meriggio di giugno; deferenti inchini rivolgevano loro le alte guardie della poderosa fortezza che i Numenoreani avevano edificato alle sorgenti dell’Isen: Orthanc era il suo nome in lingua elfica e numerosi furono i principi ed i condottieri che quell’anno si recarono nelle sue profonde aule, affinché la minaccia di Sauron fosse allontanata dai reami delle libere genti ed esse non dovessero più patire la crudele schiavitù che i servi dell’Oscuro Signore imponevano a quanti avevano la sventura di cadere sotto i loro laidi artigli.

Lentamente, le due figure procedevano; l’una, ricolma di giovanile grazia e di sapienza vetusta, inspirava finanche nel più pavido figlio di Iluvatar amore per la sua bellezza senza tempo; neri come ala di corvo erano i lunghi capelli e nei vividi occhi brillava serena la luce di Earendil, colui che reca la speme fra coloro che sono in preda allo sconforto.

Vellutato era il passo della dama ed ella calzava morbidi stivali di bianca pelle; allorché, intimorati da tale bellezza, le alte guardie, eredi della maestà dei figli degli uomini, osavano levare lo sguardo, non pronunziavano parola alcuna, ancorché il nobile portamento della Signora ne consigliasse l’uso; ma quale suono poteva levarsi dalla bocca dei Secondogeniti dinanzi a cotanta bellezza, sicché non fosse parso impudico e sgradevole da udirsi? Gli Uomini che avessero avuto l’ardire di ammirare i suoi limpidi occhi, avrebbero scorto la maestà di Ulmo agitarsi in essi e lo stupore ne avrebbe invaso l’animo, ché non vi era dama mortale il cui sembiante fosse così vivido e splendente. Una Signora fra i Noldor ella era, giunta in codesta contrada per discutre dei grandi eventi che erano accaduti in quegli anni, sì lontani dai nostri giorni: grande era la sua lungimiranza ed i popoli abbisognavano del consiglio della figlia di Celeborn del Doriath e di Galadriel del Lorien; Celebrian era il suo dolce nome ed ella appariva simile a Varda, la sposa di Manwe.

Poco o punto l’Elfa si curava degli sguardi che le venivano rivolti, ché era intenta ad ascoltare quanto il suo compagno le narrava; una stinta ed ampia cappa occultava il capo di costui, eppure, le alte guardie mostravano nei suoi confronti la medesima dedizione che ponevano nel volgere il saluto alla dama dei Noldor: nulla era visibile del suo sembiante, eccetto un lungo fodero nero ed argentato che era al fianco ed un ampio mantello color del cielo; finanche i più anziani tra i soldati di Gondor cedevano il passo innanzi al suo e gli rivolgevano inchini profondi e sinceri, ché era noto il nome di tale comandante ai loro orecchi ed essi avevano imparato a rincuorarsi allorché udivano la sua voce, memori di quanto avevano compiuto dinanzi ai loro attoniti occhi durante gli assedi di Minas Ithil e di Osgiliath.
Cortesi cenni l’Uomo rivolgeva ai soldati ed essi erano colmi di ammirazione per il loro Signore e Comandante, ché era dello stesso lignaggio di costoro e proveniva dalla medesima patria ora scomparsa tra i flutti del Grande Mare.
A lungo camminarono, l’Elfa concedendo il proprio braccio all’Uomo che le era al fianco, secondo le usanze cortesi di quei popoli d’arte e di scienza esperti; infine, allorché ebbero percorso un’ampia scalinata e furono usciti all’aperto, Celebrian prese riposo su un alto scranno in pietra che mani savie avevano posto lungo il sentiero che dal pinnacolo di Orthanc conduceva al cancello meridionale delle mura esterne: l’uomo accanto a lei, dopo essersi leggermente inchinato, parlò ancora per qualche istante, infine tacque e l’unico suono che si udì fu quello dei gai e freschi zampilli d’acqua che dalle fontane sgorgavano verso il basso; infine, lieve come la neve in inverno, la dama si scostò una ciocca dai capelli e parlò: «Lungo è stato il tuo racconto, amico mio, ed ogni parola io ho ascoltato della narrazione; ora comprendo quanto dolore alberghi nel tuo animo ed il mio cuore piange perché non posso lenire simili ferite. Ahimé – concluse – questi giorni, di terrore ed oscurità intrisi, non pochi dolori arrecheranno alla prole di Iluvatar; infine mi è nota la sorte di Elwen la Mezzelfa, tuttavia sappi che le parole da te pronunciate in quest’ora nessun altro udirà».
L’Uomo la guardò e per un istante parve che brillasse, nella penombra all’interno della sua cappa, un remoto sorriso di gratitudine; infine ratto si voltò, ché gli era parso di ascoltare il suono di pesanti passi giungere alle sue spalle: due Nani erano intenti a percorrere il medesimo percorso per mezzo del quale egli e la dama degli Eldar erano giunti nel luogo ove riposavano le stanche membra. Nello stesso istante, un Uomo ed un Elfo, entrambi suntuosamente vestiti, comparvero dall’estremità opposta del sentiero; giunti che furono innanzi a Celebrian, il primo si inchinò profondamente, mentre l’Elfo, avvicinatosi, le prese dolcemente la mano; infine egli parlò e la sua voce riecheggiò limpida e profonda tra i maestosi alberi che occultavano quell’ameno luogo alla vista altrui.
«Grandi eventi sono accaduti in questi mesi ed altri ancora potrebbero verificarsi, ché la minaccia di Sauron non è stata ancora respinta ed egli, come una serpe nel suo oscuro anfratto, attende, paziente, che la vittima gli si mostri incauta». «Così è – replicò l’alto Uomo che era con lui – ché i crudeli Spettri dell’Anello hanno invaso le terre che un tempo furono del mio popolo ed esso è dovuto fuggire a sud e ad ovest, abbandonando i ricchi pascoli del Rhovanion alla mercé degli Orchi e degli Orientali asserviti a Sauron».
«Avevo udito, Signore degli Eothraim, narrare delle devastazioni che i Comandanti dell’Oscuro Signore hanno diffuso, simili ad un’empia pestilenza, nelle contrade orientali della Terra di Mezzo; a stento riuscimmo a sbarrare l’entrata dei Cancelli di Khazad-Dum, allorché il Nemico giunse alle porte della nostra dimora»; tali furono le parole che Groin, figlio di Bòr, aveva prounziato, sicché così gli rispose l’Elfo: «Invero non vi è stato regno o dimora dei figli di Iluvatar che non sia stato scosso, di recente, dal flagello delle armate di Mordor, ché l’Oscuro Signore di quella remota contrada ambisce impossessarsi degli antichi cimeli dei popoli liberi onde poterli pervertire a suo piacimento».
Sagge sono le tue parole, mio signore – interloquì allora il nano più anziano – eppure, mai la speme è scomparsa dal Mondo, ché vi sono, perfino in questa ora sì buia, Elfi, Uomini e Nani che ancora osano contrastare la minaccia delle schiere del Maia Caduto, gli uni conducendo alla vittoria armate gloriose, gli altri smascherando i subdoli inganni che costui perpetua a danno dei suoi nemici; non è fra noi, infatti, Erfea, colui che chiamano il Morluin, che molta gloria acquisì nelle sue lotte contro i corrotti Uomini di Numenor e gli eserciti del servo di Morgoth?»
L’Uomo che era accanto a Celebrian fece allora scivolare la cappa stinta ed i suoi compagni ammirarono il volto del figlio di Gilnar, reso saggio dai numerosi anni trascorsi nell’esilio; sorrise, infine parlò ed essi gli prestarono ascolto: «Mio buon Bòr, molti anni sono trascorsi dacché avvennero gli eventi che hai testé richiamato alla memoria di tutti; quali racconti vuoi che narri innanzi a voi, dunque?»
«Figlio di Gilnar, solo ieri udimmo la tua profonda voce narrare ai nostri sorpresi orecchi le vicende di coloro che si impadronirono degli Anelli del Potere e furono corrotti dalla malizia del loro artefice. Suvvia, raccontaci quanto accadde allorché Numenor non era ancora caduta e Tar-Miriel regnava su di una contrada dilaniata da una feroce guerra civile».

Fine I parte (continua)

 

Nei giardini di Armenelos – illustrazione definitiva

Finalmente è pronta! Dopo avervi mostrato i vari schizzi e bozzetti di Erfea e Miriel nelle scorse settimane (che potete ammirare in questi articoli: I giardini di Armenelos – bozzetto; Erfea & Miriel – bozze figurini; Studi per nuovi ritratti) sono molto emozionato nel presentarvi l’illustrazione completa, opera della bravissima Francesca Anna Schiraldi, avente come soggetti la regina Miriel e il principe Erfea, raffigurati al termine di un drammatico alterco avvenuto all’interno dei giardini di Armenelos. Il momento è doppiamente felice per me perché mi ha permesso di recuperare un voluminoso racconto del quale avevo perso le tracce in questi ultimi anni (eh sì, la memoria inizia a giocare brutti scherzi!) che si adatta perfettamente a descrivere la scena qui raffigurata. Per sapere ove sarà collocato questo «Racconto del Marinaio e dell’infame giuramento» nella linea cronologica biografica di Erfea, vi suggerisco di leggere l’articolo Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio, che ho provveduto ad aggiornare questo pomeriggio: permettetemi, tuttavia, di anticipare un piccolo brano da questo «racconto ritrovato» – per usare una terminologia famigliare per i lettori di Tolkien – che potrà aiutarvi a comprendere in pieno l’importanza dell’illustrazione che accompagna questo articolo, nonché la bravura dell’artista (per la quale rimando sempre alla sua pagina facebook https://www.facebook.com/HirviSketch/) nel saper descrivere con i pennelli un momento topico del «Ciclo del Marinaio» come quello che vi apprestate a leggere:

«Ella mi guardò, senza pronunciare parola alcuna; eppure, i suoi chiari occhi parvero domandarmi perdono e mi rispose con un antico detto, quali i Numenoreani adoperano in situazioni invero molto gravi: “Una speranza ho dato ai Dunedain, ma non ne ho conservato una per me”. Tacque per qualche istante, infine sospirò e presami la mano così parlò: “Vorreste, dunque, venire meno agli ordini della vostra sovrana? Non mentirmi, Erfea, ché io scorgo nel tuo sguardo il dubbio e il timore che le mie parole hanno suscitato in te; eppure, se la lealtà dei miei comandanti dovesse venire meno, io perirei e altri avrebbero da patire sofferenze immani”.
Io la osservai, freddo, ché, sebbene il mio cuore sanguinasse copiosamente, pure non potevo ignorare quanto le sue parole avessero, inutilmente, tentato di occultare: “Vaneggi, Miriel, se credi che la nostra lealtà nei confronti di Numenor sia venuta meno; sappi, tuttavia, che ad essa solo risponderemo, quando sarà giunta l’ora e a nessun’altra”. Ella, allora, lasciò cadere la mia mano ed il suo animo diventò gelido: “Va’, figlio di Gilnar e possa la tua lealtà non venire meno quando giungerà l’ora”.»