I wish you all my best wishes with this unedited image representing the revelation of the One Ring by Frodo and Gandalf.

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Care lettrici, cari lettori,
quest’oggi l’articolo mi è stato ispirato dal bellissimo pezzo scritto in questa settimana da Federico Aviano sul Signore degli Anelli (potrete leggerlo o rileggerlo qui: https://imlestar.com/2020/11/16/tolkien-il-piu-grande-scrittore-di-tutti-i-tempi/), nel quale l’autore osserva come Tolkien non abbia goduto di particolare fortuna fino ad anni recenti. Rileggendolo mi sono ritornati in mente alcuni ricordi della mia adolescenza, quando ero giovane, come riporta il titolo di questo articolo, che è lo stesso di una bellissima canzone dei Lighthouse Family che mi ha più volte ispirato nella stesura dei miei racconti (ebbene, finalmente sono riuscito a tornare anche su questa rubrica del mio blog! Grazie ad Almerighi per la sua pazienza!)
Dunque, questa storia inizia nel 199…ehm ok, diciamo nell’ultimo decennio del vecchio millennio! Non si chiede l’età a un autore…
Scherzi a parte, come dicevo, questa vicenda iniziò in un Liceo classico di provincia: frequentavo la quarta ginnasiale e la professoressa di italiano ci affidò, come prova di valutazione iniziale, un tema con la seguente traccia: «Descrivi un romanzo che ti è piaciuto particolarmente». Insomma, non ricordo esattamente le parole, però più o meno questo era l’intento: capire quali fossero i nostri gusti letterari.
Inutile a dirlo, come credo avrete capito, scrissi 12 colonne…sul Signore degli Anelli. Cosa c’è di strano, mi chiederete? Ebbene, all’epoca, prima dell’uscita della trilogia cinematografica di Jackson, Tolkien non era esattamente un autore popolare. Oggi sono pochi gli adulti che non sappiano – almeno vagamente – associare il suo nome al romanzo del Signore degli Anelli; probabilmente, inoltre, non avranno difficoltà a snocciolare almeno qualche nome tolkieniano. Frodo, Sauron, Aragorn sono personaggi, fra gli altri, ormai entrati di diritto nella cultura popolare mondiale. Per avere un’idea della loro popolarità attuale, basta sfogliare Facebook per notare quanti meme sono stati ispirati a scene divenute ormai iconiche della trilogia di Jackson: tanto per citarne un paio, quella in cui Gandalf blocca il Balrog sul ponte di Khazad-Dum (ricordate il celebre: «Tu non puoi passare!»?), oppure quella in cui Boromir osserva che «non è facile entrare a Mordor». E ce ne sono moltissime altre, naturalmente. (Se desideri approfondire l’argomento, ti suggerisco la lettura di questo mio articolo: Sedici anni dopo: cosa resta della trilogia di P. Jackson. Analisi di un fenomeno culturale controverso).
All’epoca, invece, Tolkien era un autore ancora poco conosciuto nella realtà provinciale: nella mia classe, composta allora da 28 alunni, eravamo solo in due a conoscerlo, io e (ovviamente) il mio migliore amico, al quale, nell’estate fra terza media e quarta ginnasiale, avevo fatto divorare l’intera mia biblioteca tolkieniana…oltre, naturalmente, a prestargli la mia VHS del film d’animazione del Signore degli Anelli diretto da Ralph Bakshi, al quale Lettrice ha dedicato un bellissimo articolo (potrete leggerlo qui: https://wordpress.com/read/feeds/78861705/posts/2422640572) e dal quale è tratta la copertina di questo articolo.
Qualche giorno dopo, la professoressa ci riconsegnò i compiti. Arrivata al mio turno, mi guardò con un’aria di stupore e disprezzo allo stesso tempo e definì il mio elaborato mediocre: 5. Al di là della votazione non proprio esaltante, la cosa che più mi fa sorridere, a distanza di tanti anni (ahia! ci risiamo sull’età…) è che il suo primo commento fu questo: «Non ho mai sentito parlare di questo Tolkien. Ho dovuto chiedere alla collega di inglese per avere un’idea più precisa di questo autore. Chi sarebbero poi questi Hobbit? E questo Erodo (sì, non ho sbagliato a scrivere, era convinta che questo fosse il nome di Frodo!) chi sarebbe? E così via…
Naturalmente, come potete immaginare, ci rimasi molto male, anche perché questi commenti mi erano stati mossi davanti a tutta la classe. La tiritera andò avanti ancora un po’, insistendo sul fatto che si aspettava da me un elaborato su Calvino…che prima degli autori stranieri, avremmo dovuto conoscere quelli nostrani e così via…Potete immaginarvi la scena, non sto a dilungarmi ulteriormente su questa immagine penosa.
Io, però, non mi arresi e qualche mese più tardi ebbi ancora modo di tornare sul mio autore preferito, ancora una volta entrando in conflitto con la stessa professoressa. La lezione di quel giorno era incentrata sull’epica e, più precisamente, sui miti fondatori dell’universo. Si parlava del potere fondante della parola, della Bibbia, dei miti greci, ecc…quand’ecco che la suddetta professoressa domandò alla classe se conosceva strumenti altrettanto potenti nel dare vita all’universo. Ovviamente io alzai la mano e risposi: «Il potere della musica nei miti tolkieniani!»…
Gelo in classe…
…e, naturalmente, altra lunga tiritera sul fatto che i miti classici non possono essere paragonati alle fantasie di uno sconosciuto autore straniero (e dagli!) e che avevo evidentemente troppo fantasia per elaborare simili teorie senza alcun senso. A distanza di anni, mi vien da sorridere perché mi rendo conto molto bene di quanto lei fosse in difficoltà di fronte a tutta la classe…anche perché – credetemi sulla parola – io replicavo punto per punto, sperando, nella mia ingenuità, di farle cambiare idea. Piccola precisazione che forse può aiutarvi a comprendere meglio il clima che si respirava in quegli anni: in un’antologia in uso presso un’altra sezione, Tolkien era citato nel capitolo dedicato alla…«paraletteratura», insieme ai fumetti e a libri-games! Ecco, l’idea stessa che esista una paraletteratura mi fa rabbrividire ancora oggi…
Alla lunga, comunque, capii che con il dialogo non avrei ottenuto nulla: d’altra parte si trattava della stessa professoressa che, pur messa dinanzi a una serie di enciclopedie che il sottoscritto le aveva gentilmente mostrato, restò convinta che i mammiferi fossero comparsi solamente dopo l’estinzione dei dinosauri…ma di questo, magari, parlerò in una prossima occasione…
Dicevo, ero ormai arrivato a un punto morto e mi sentivo – come potrete immaginare – anche piuttosto scoraggiato: fu allora che decisi che – se non potevo convincerla a parole – l’avrei «obbligata», per così dire, a riconoscere la bontà dell’epica tolkieniana con un piccolo stratagemma.
L’occasione mi si presentò a fine maggio: ultimo compito in classe di italiano, fra le varie tracce che erano state approntate, compariva anche questa: «Scrivi un componimento ispirato ai miti che hai studiato quest’anno». Anche in questo caso, naturalmente, le parole non sono precisissime, comunque il senso è quello che vi ho descritto.
Sorrisi: finalmente la mia occasione di vendicarmi era a portata di mano (anzi di penna)…
…e così scrissi, di getto, altre 9 colonne (lo so, ero uno scrittore prolifico già allora!) nelle quali riportai – fedelmente, per quanto la mia memoria lo permettesse – una parte decisiva del Signore degli Anelli, ossia la Battaglia dei Campi del Pelennor!!! Ebbi però l’accortezza – e qui risiedette la mia astuzia – di cambiare i nomi dei personaggi: niente nomi tolkieniani – o vagamente nordici – ma solamente nomi ispirati alla mitologia greca e romana. Ricordo, ancora, con soddisfazione, come descrissi il duello tra la mia Eowyn greco-romana (della quale, perdonatemi, ma non ricordo più con certezza lo pseudonimo che le affidai per quell’occasione…credo che fosse Diana) e il malvagio Signore dei Morti…alias, naturalmente il Capitano dei Nazgul!
Risultato?
9 e mezzo, lettura del componimento davanti alla classe e, come avrebbe detto Fantozzi, «92 minuti di applausi!»
(e tenete anche conto che, a differenza di quanto avviene oggi, all’epoca un nove e mezzo era un risultato assolutamente fuori dalla norma)
Ritornai a casa triofante, non tanto (o comunque, non solo) per il voto in sé, ma perché avevo dimostrato come, solo cambiando i nomi dei suoi personaggi, avevo reso giustizia a Tolkien e alle sue opere.
Il re, invece, era nudo.
Car* lett* grazie per aver letto questo ricordo di adolescenza, spero di averti fatto divertire (e perché no? anche riflettere)!
The Sailor’s cycle, inspired by the events narrated in the Unfinished Tales and in the Silmarillion by J.R.R. Tolkien, delves into the history of the great island of Numenor, from its rise to glory until its fall; witness and at the same time architect of the events of his time is Prince Erfea, of whom the book presents the heroic and often painful events.
From birth until death, during her long existence, Erfea will have the opportunity to interact with characters already known to the public who loves the Tolkien epic: Sauron, the Dark Lord of Mordor; his cruel servants, the Ringwraiths and their evil captain, the Witch King; the wise elves, among which Elrond and Galadriel stand out; the valiant dwarves of Moria and others.
Homage to the voluminous work of the English writer, The Sailor’s Cycle is also a reinterpretation of the chivalrous and classic epos, deepening the psychology of the protagonists and not failing to underline their contradictions and deep concerns, using an ancient language to deal with the universal themes of our civilization and of our age.
Some useful advice for reading: if you are interested in discovering the genesis of my novel, “The Sailor’s Cycle”, I suggest you read these two articles: In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio (In the beginning it was … Othello, or how the Sailor’s Cycle was born) and …e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea (… and the Sailor arrived! Corto Maltese, Aldarion and Erfea).
If, on the other hand, you prefer to read the various stories straight away, you can browse the categories that refer to the various stories, starting with the topmost article in the chronology and ending with the most recent one. To help you in reading these tales and to facilitate the understanding of notable names and events, I suggest you read these articles: Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio (Chronology of the life of Erfea and the tales of the Sailor’s Cycle) and Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio» (Dictionary of the characters of «Sailor’s Cycle»).
Finally, if you want to appreciate other images like the one highlighted in this article, I invite you to take a look at the “Illustrations” category.
To learn more about aspects related to Tolkien’s thought and works, you can read the articles in the category «Characters, places and stories of Tolkien’s works»; if you enjoyed the film versions of “The Hobbit” and “Lord of the Rings”, I suggest you read the articles included in the “Seventh Art” section.
I remain at your disposal for any information and I wish you good reading!
Image «Varda the Star-Queen» by Janka Lateckova
I open this blog to write, discuss and learn stories, songs and tales inspired by the Second Age of Middle-earth, as it was conceived and described by the English writer J.R.R. Tolkien. Some useful advice for reading: if you are interested in discovering the genesis of my novel, «Il Ciclo del Marinaio», I suggest you read these two articles: In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio and …e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea.
If, on the other hand, you prefer to read the various stories straight away, you can browse the categories that refer to the various stories, starting from the topmost article in the chronology and ending with the most recent one. To help you in reading these tales and to facilitate the understanding of notable names and events, I suggest you read these articles: Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio and Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio».
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Twenty-fifth Prince of the Hyarrostar, one of the five historical regions of the kingdom of Numenor, son of Gilnar and Nimrilien. In the dwarven language he was also known as Khevialath, which means “the far-sighted”. A distant descendant of Atanalcar, the fourth and last son of Elros Tar-Minyatur, he is the male protagonist of «Il Ciclo del Marinaio». Paladin of great value, over the years he will forge a relationship with Miriel, princess and later queen of Numenor, which ended abruptly in the aftermath of the coup that led to the accession to the throne of Pharazon. Subsequently, exiled from Numenor because he disliked the new ruler, he settled in Middle-earth, in Edhellond, where he formed a relationship with Elwen, which ended when she married Morwin, the Lord of that City. Following the destruction of Numenor and the death of Miriel he settled in Osgiliath, as superintendent of the kingdom of Gondor. Although extremely old, he took part in the defense of the city from the assault of Sauron’s troops and in the subsequent counterattack that ended with the destruction of Mordor and the loss, by the Dark Lord, of the One Ring. Erfea died in the eighth year of the Third Era. It appears in all the stories.
Readings tips:
Una delle creature più spaventose del legendarium tolkieniano e, allo stesso tempo, maggiormente «fraintesa» nelle due trilogie dirette da Jackson è il warg. Già, ma cos’è esattamente un warg?
Tracce di questa creatura si possono riscontrare già nella Prima Era, allorché esse furono tra i servitori più potenti di Sauron: non si tratta di lupi «semplicemente» mostruosi, come sembrerebbero quelli presenti in entrambe le trilogie cinematografiche di Jackson (nell’immagine in copertina potete visualizzare un fotogramma tratto da «Lo Hobbit – un viaggio inaspettato» che mostra un piccolo branco di queste creature), ma di veri e propri demoni che avevano preso l’aspetto di lupi, risultando, tuttavia, più intelligenti e crudeli di quanto non lo fossero gli esemplari «naturali» di questa specie animale.
A complicare le cose, il termine «warg» indica una serie di creature che possono essere genericamente indicate come «lupi», ma che in realtà sono fra loro molto diverse.
In questo articolo cercherò di fare chiarezza sulle tre principali tipologie di lupi nella Terra di Mezzo.
Lupo comune: Normalmente questi animali sono grigi, o più raramente neri, e di solito si riuniscono in mute composte da una dozzina di esemplari adulti. Sono cacciatori intelligenti e crudeli (di una crudeltà dettata unicamente dal bisogno di trovare cibo in un territorio aspro e ostile), nonché instancabili inseguitori. Molti lupi sono caduti sotto il controllo, anche se non sempre diretto, del Re-Stregone di Angmar e in loro si è sviluppato un malvagio e perverso istinto che li porta a uccidere per puro divertimento. Le loro prede principali sono le pecore, ma i lupi non temono gli uomini e sono sempre pronti ad attaccare un viaggiatore solitario o piccoli gruppi. Temono comunque i cani da pastore
Warg: I warg, lupi intelligenti di enormi dimensioni, rappresentano i più feroci predatori della regioni nord-occidentali della Terra di Mezzo. La leggenda narra che fu lo stesso Morgoth a crearli, basandosi su comuni lupi del Nord, per servirsene nella sue guerre contro gli Eldar e Edain nella Prima Era. I maschi sono lunghi fino a 3 metri, compresa la coda, mentre le femmine sono leggermente più piccole. I Warg si uniscono spesso agli Orchi durante le loro scorribande, talvolta lasciandosi cavalcare dai Goblin più piccoli, pensando così di procurarsi facilmente del cibo. I Warg, a differenza delle altre specie di lupi, non temono in alcun modo l’uomo: lo dimostrano negli attacchi sferrati alla cavalleria, quando si avventano ringhiosi sui fianchi dei cavalli, e nella spietata caccia ai nemici in fuga. A questa tipologia, dunque, appartenevano i lupi che dettero la caccia a Bilbo e agli altri nani ne «Lo Hobbit» e che presero parte alla battaglia dei Cinque eserciti alle pendici della Montagna Solitaria. Anche i lupi presenti nelle trilogie cinematografiche appartengono a questa specie. Un warg, infine, fu il primo nemico che Erfea affrontò ancora giovanissimo (leggi qui).
I warg di Sauron I “veri warg”, conosciuti anche come “Lupi Demone” o “Lupi di Sauron”, appaiono come grossi Warg, ma sono in realtà esseri non-morti creati con una potente magia malvagia. Agiscono esclusivamente durante le notti più buie, quando per gli uomini è più difficile rendersi conto che essi svaniscono quando vengono colpiti a morte.
Una delle scene più emozionanti de «La Compagnia dell’Anello», secondo me, è proprio quella in cui Frodo & Co. devono affrontare un branco dei Warg. Mi rammarico che questo punto focale della narrazione non sia stato ripreso nell’omonima pellicola cinematografica: mostra infatti come i segugi di Sauron avessero ormai raggiunto la Compagnia alle pendici delle Montagne Nebbiose. Il combattimento che ne segue è a dir poco spettacolare: la Compagnia si difende strenuamente e in quell’occasione abbiamo modo di ammirare uno dei rari incantesimi che Gandalf adopera durante il viaggio dei nove viandanti. «Nella luce vacillante del fuoco, Gandalf parve improvvisamente ingigantirsi: si eresse, una grande figura minacciosa pari al momumento di qualche antico re di pietra innalzato in cima ad un colle. Chinandosi come una nube, colse un ramo incandescente e andò incontro ai lupi. Essi retrocedettero innanzi a lui. Allora Gandalf lanciò in aria il tizzone fiammeggiante; una vampa si levò da esso, improvvisa e bianca come un lampo; la sua voce rombò come tuono. “Naur an edralth ammen! Naur dan i ngauroth” gridò. Con un mugghio ed un crepitio, dall’albero sulla sua testa fiorirono e verdeggiarono fiamme accecanti. Il fuoco volò da una chioma all’altra; l’intera collina fu incoronata da una luce abbagliante. Spade e pugnali dei difensori scintillavano e vibravano. L’ultima freccia di Legolas prese fuoco in volo, e si tuffò incandescente nel cuore di un grosso capo-tribù. Tutti gli altri fuggirono».
È solo allo spuntare dell’alba, tuttavia, che la verità viene svelata: esplorando i dintorni del colle sul quale la Compagnia si è ritirata durante la notte per meglio difendersi, i suoi membri si rendono conto che i cadaveri dei lupi sono scomparsi e – elemento forse ancora più agghiacciante – tutte le frecce che Legolas aveva scagliato (eccetto una che aveva preso fuoco) sono rimaste conficcate qua e là sui pendii della collina. Tolkien – che è un maestro della narrazione – a quel punto lascia intendere la verità pur senza svelarla apertamente: «È come temevo […] Questi non erano comuni lupi in caccia di prede nelle zone selvagge» si limita ad osservare Gandalf.
Gli warg delle due trilogie cinematografiche, invece, assomigliano curiosamente a un grande mammifero della preistoria che abitava milioni di anni nello Stato oggi noto come Mongolia e che da questo prende il nome di «Andrewsarchus mongoliensis». La somiglianza tra le due creature, come potete osservare nella seguente foto, mi sembra piuttosto palese.
Spero che questo articolo vi sia piaciuto…aspetto i vostri commenti, alla prossima!
P.S. Per quanto riguarda il «Ciclo del Marinaio», continuo ad aggiornare periodicamente la pagina su wattpad e a scrivere il racconto dedicato alla fanciullezza di Miriel e di Pharazon…lavoro permettendo spero di potervi presto presentare novità in proposito!
Care lettrici, cari lettori,
troverete il primo racconto integrale «Il racconto del marinaio e del messere di Endore» de «Il Ciclo del Marinaio» al seguente link https://www.wattpad.com/story/218582196-il-ciclo-del-marinaio
Aggiungerò che è stato estremamente piacevole rileggere la prima avventura per intero, avendo cura, inoltre, di correggere alcuni errori che erano rimasti nella precedente stesura…il brano che racconta del primo ballo tra Erfea e Miriel, in particolare, mi ha emozionato ancora a distanza di tanti anni.
Buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate!
Scrivo questo articolo perché intendo affrontare un argomento che trovo particolarmente stimolante: le fan-fiction di ambito tolkieniano.
Sarò piuttosto schietto: non amo particolarmente questo termine, forse perché, quando ho iniziato a scrivere i miei racconti, tanti anni fa, le fan-fiction non esistevano così come sono intese adesso. O meglio – per essere più precisi – non esistevano quei circuiti di comunicazione, spesso on-line, attraverso i quali possono oggi essere lette centinaia di fan-fiction ambientati negli universi letterari più disparati: da Harry Potter alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, a Star Wars.
E anche Tolkien, certo. Già. E qui iniziano le noti dolenti.
L’appassionato tolkieniano manifesta generalmente un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’universo creato dal professore di Oxford: per un verso lamenta la mancanza di approfondimenti di personaggi e di eventi che vengono solo accennati all’interno delle sue storie, per un altro si dimostra, in molti casi, ostile nei confronti di chiunque osi mettere mano all’impressionante mole di racconti che compongono il legendarium tolkieniano. Non ho potuto fare a meno di notare, inoltre, come questo atteggiamento di ostilità sia diretto soprattutto nei confronti di coloro che intendono allargare l’orizzonte dal punto di visto contenutistico, mentre, in generale, ho osservato una maggiore benevolenza nei confronti di quanti si occupano dell’aspetto linguistico delle sue opere. Intendiamoci: non ho alcuna intenzione di sminuire questo carattere basilare del legendarium tolkieniano; anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che la creazione dei vari linguaggi abbia proceduto l’elemento storico e descrittivo della Terra di Mezzo. Nessuna meraviglia, sotto questo aspetto: la formazione accademica di Tolkien era quella di un filologo, ragion per cui non c’è da stupirsi che fosse molto attratto dalla componente linguistica.
Ciò che mi lascia perplesso, invece, è il grado di «sospensione della realtà» che molti cultori tolkieniani esercitano nei confronti di quanti ne hanno sviluppato e arricchito l’apparato linguistico, pur sapendo perfettamente che, in molti casi, si tratta di rielaborazioni che partono, senza dubbio, dagli scritti di Tolkien, per poi cercare, tuttavia, inevitabilmente, di arricchirne le forme e i contenuti lessicali. Personalmente non sono contrario a questi studi: ammetto di non essere particolarmente attratto dai linguaggi (probabilmente anche per via dei miei studi), ma ritengo che sia un’azione lodevole quella di approfondire le basi portanti del legendarium tolkieniano. Il quesito che vorrei porre a questi appassionati tolkieniani è semmai il seguente: perché accettate che questo o quello studioso contemporaneo «vada oltre» le indicazioni di Tolkien stesso quando si tratta di un approccio linguistico e invece siete meno interessati (e in qualche caso vorrei dire meno tolleranti) nei confronti degli scritti che intendo approfondire il suo legendarium? (Per carità di patria, taccio su quanti accettano tutte le modifiche apportate da Jackson alla trama del Signore degli Anelli, e poi disprezzano qualsiasi tipo di fan-fiction perché non «è come nel libro» [cit.]).
Immagino già la prima risposta (o almeno una delle più plausibili): chi indaga sulle lingue si preoccupa (giustamente) di studiare approfonditamente le basi delle favelle elfiche prima di avanzare nuove ipotesi relative alla sintassi, al lessico ecc. delle lingue tolkieniane. Chi scrive fan-fiction, invece, (in molti casi) lo fa per dare spazio ai suoi sogni reconditi, alla capacità di calarsi nella Terra di Mezzo dall’alto «per vedere – come recitava una vecchia canzone – l’effetto che fa». In linea teorica, non sono contrario a queste scritture: l’unica cosa che non comprendo è come gestire un percorso narrativo che rischia di stravolgere tutto quello che ha scritto Tolkien stesso. Mi spiego meglio: anni fa, iniziai la lettura di una di queste storie nella quale Boromir, anziché essere ucciso dagli Orchi di Saruman, finiva coll’essere salvato da suo fratello Faramir e dai suoi soldati…e confesso di non aver voluto proseguire. Non sono riuscito a capire il senso di questa storia (non entro nella questione dello stile, perché, ad essere sinceri, non lo ricordo più): che senso ha cambiare un passaggio chiave di una narrazione per poi inventare un percorso che finisce collo stravolgere del tutto la narrazione stessa? Mi si risponderà: perché ho sempre desiderato che Boromir non morisse, oppure che Eowyn sposasse Aragorn o ancora che gli Elfi non abbandonassero la Terra di Mezzo…e potrei continuare a lungo. Forse, al di là dei gusti personali, queste storie potrebbero essere intese – con un significato diverso da quello tradizionalmente attribuito – come vere fan-fiction, nel senso che raccontano dei legami intercorsi fra lettori e i loro personaggi preferiti, senza però badare al grado di realizzabilità dei loro progetti rispetto alla cornice generale.
Questo sviluppare (e diffondere) racconti che non si preoccupano minimamente di salvaguardare la coerenza del legendarium tolkieniano mi avvilisce, perché, nella loro ingenuità, finiscono col trascinare verso il basso tutti quelli che cercano di apportare contributi nuovi alla Terra di Mezzo, senza tuttavia rimetterla in discussione.
Negli anni scorsi, tuttavia, ho anche avuto modo, per fortuna, di leggere racconti molto originali ambientati nella Terra di Mezzo: uno narrava di una fanciulla del popolo Haradrim che, dopo una serie di traversie, si recava nel regno di Gondor e apprendeva l’arte della Guarigione nelle Case che da essa prendono il loro nome. Un altro racconto, invece, era costruito come una sorta di dialogo fra un figlio e un padre, numenoreani, che discutevano intorno alla follia di Pharazon. Spiace dover constatare che, purtroppo, a causa dei vari trasferimenti che ho vissuto, non sono riuscito più a recuperare questi scritti.
Non credo, beninteso, che esista una «formula magica» obbligatoria per scrivere questo genere di racconti: mi limiterò a offrire una serie di suggerimenti di buon senso, che potrebbero essere utili a chi volesse provarci.
1) Scegliete con attenzione quali personaggi/eventi volete approfondire. Sconsiglio di dedicarvi alla parte finale della Terza Era, perché costituisce il nocciolo del «Signore degli Anelli» e di altri scritti collaterali: ammetto, naturalmente, che esistano degli spazi ancora «bianchi», come per esempio il destino della Bocca di Sauron o quello di Radagast, tuttavia sono inferiori rispetto a quelli offerti da altri contesti; a meno che, ovviamente, non desideriate approfondire soggetti ed eventi non particolarmente legati alla Guerra dell’Anello (e alle regioni nelle quali si combatté), come, ad esempio, Umbar a sud oppure il Forochel a Nord. La Seconda Era, da questo punto di vista, si caratterizza per poter essere indagata con una maggiore «libertà» d’azione narrativa rispetto alla Prima e alla Terza.
2) Scegliete con attenzione lo stile da utilizzare. Nessuno pretende (o può pretendere da voi) di essere un emulo di Tolkien, ci mancherebbe, però una certa coerenza di stile renderebbe il vostro racconto più fedele allo stile del professore di Oxford e maggiormente riconoscibile come «tolkieniano». Sarebbe stimolante – lo ammetto – anche utilizzare, di contrasto, uno stile totalmente diverso, però ritengo che sia più difficile farlo: bisognerebbe padroneggiare a tal punto la materia tolkieniana per poterla, in qualche modo, ribaltare…un po’ come faceva Picasso con la sua arte rispetto a quella tradizionale (e, ammettiamolo, di Picasso in giro per il mondo non ce ne sono tanti!)
3) Dosate con equilibrio la miscela esistente fra personaggi «tolkieniani» e personaggi «non tolkieniani», cioè inventati da voi. Per esperienza personale, trovo sia meglio avere un/a protagonista «non tolkieniano/a» per godere di migliore libertà d’azione. Al limite, vi suggerisco di «adottare» un personaggio poco trattato da Tolkien in modo da avere una cerniera ideale tra i suoi scritti e i vostri. Non abusate, invece, di personaggi come Frodo, Aragorn, Gandalf, Sauron etc.; non perché non siano interessanti – ci mancherebbe! – ma perché la loro trattazione richiederebbe la conoscenza di tutte le fonti disponibili (anche di quelle eventualmente inedite in Italia). Un compito, questo, che potrebbe atterrire chiunque. Se volete concedere loro un cameo, fatelo pure – renderà certamente il vostro racconto più famigliare agli occhi di chi legge – ma senza fare di questi personaggi…i vostri personaggi.
4) Ultimo consiglio: non siate mai – e sottolineo il termine mai – ostili a priori nei confronti di qualsiasi racconto o fan-fiction: se ne avete voglia e modo, provate a leggerli…e mal che vada, lasciate perdere. Nessuno ve ne farà una colpa, anzi: un vostro commento (ben motivato, s’intende!) potrebbe aiutare chi scrive a migliorarsi. L’indifferenza, anche in questo settore, è sempre una gran brutta bestia.
Mi piace concludere questo articolo con un invito e un auspicio: si può scrivere di Tolkien, con Tolkien e per Tolkien stesso avendo però a mente le parole che pronuncia Gimli a Legolas in merito ai suoi progetti di trasferire una parte dei Nani nelle Caverne Scintillanti:
«Abbatti tu, forse, boschetti di alberi in fiore per raccoglier legna in primavera? Noi cureremmo queste radure di pietra fiorita, non le trasformeremmo in miniere. Con cautela e destrezza, un colpetto dopo l’altro, un’unica piccola scheggia di roccia e nient’altro, forse, in tutta una giornata ansiosa: tale sarebbe il nostro lavoro, e col passar degli anni apriremmo nuovi sentieri, scopriremmo nuove stanze lontane e ancor buie che s’intravedono ora come un vuoto dietro fessure nelle roccia. E le luci, Legolas! Creeremmo luci, lampade come quelle che risplendevano un tempo a Khazad-dum; e secondo il nostro desiderio potremmo allontanare la notte che sommerge le caverne da quando furono innalzati i colli, o lasciarla rientrare per cullare il nostro riposo».
Se c’è un episodio del «Signore degli Anelli» che è rimasto particolarmente impresso nell’immaginario del lettore tolkieniano è certamente quello rappresentato dall’ingresso alle Miniere di Moria, l’antica Khazad-Dum ormai abbandondata dai Nani centinaia di anni prima che la Compagnia dell’Anello prendesse la decisione – ardita e rischiosa allo stesso tempo – di passare attraverso i suoi sentieri sotterranei per sfuggire alle spie del Nemico che erano sulle tracce dell’Unico. Questo episodio, tra l’altro, è stato reso visibile sul grande schermo, dapprima nel lungometraggio animato di Bakshi (1978) e, in seguito, nel primo capitolo della saga cinematografica di Jackson (2001).
In entrambe le pellicole la Compagnia, giunta alle porte di Moria, è attesa dalla difficile risoluzione di un enigma rivolto all’incauto forestiero: la sua risoluzione permetterà a Frodo & Co. di entrare nell’antica dimora nanica. La natura dell’enigma è ben nota, tanto da diventare materia di meme e altre parodie rintracciabili sulla Rete: sulle porte di Moria, infatti, campeggia la seguente scritta in caratteri elfici: «Le porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io, Narvi, le feci. Celebrimbor dell’Agrifogliere tracciò questi segni». Sia nel romanzo che nelle due opere cinematografiche questo enigma mette a dura prova la Compagnia: nel romanzo, come nella pellicola di Bakshi, è Gandalf a risolverlo, dopo aver riflettuto profondamente (questa è una scena che mi ha spesso rammentato quei giochi di ruolo nei quali il mago o lo stregone si prende un turno di riposo per concentrare le proprie energie mentali per lanciare un incantesimo o decifrare una pergamena magica, a conferma di quanto l’immaginario tolkieniano abbia influenzato l’universo ludico fantasy). Nel film di Jackson, invece, è Frodo a mettere sulla giusta strada lo Stregone Grigio, immaginando (correttamente) che la frase nasconda un doppio senso basato sull’uso delle virgole che sottolineano, in qualche modo, la parola d’ingresso, ossia «Amici» (mellon in elfico). Ad ogni modo, la Compagnia, una volta pronunciata la parola «magica» può dunque proseguire nel suo percorso, non prima di aver evitato l’ira dell’Osservatore dell’Acqua, una gigantesca e mostruosa creatura che vive nello stagno del Sirannon, situato ai piedi delle porte di Moria. Anche in questo caso non posso che apprezzare la sceneggiatura di Bakshi rispetto a quella di Jackson: coerentemente con quanto è narrato nel romanzo, i suoi membri non hanno una chiara e immediata percezione di quanto accaduto; in altre parole, non è subito chiaro se i tentacoli verdi e luminescenti che li hanno aggrediti appartengano a una o a più creature acquatiche; questo «enigma zoologico», infatti, sarà risolto solo alcuni giorni più tardi, quando Gandalf avrà occasione di leggere il Diario di Mazarbul, rendendosi conto in questo modo che si tratta di un mostro solitario al quale i nani della colonia di Balin avevano attribuito il nome di «Osservatore dell’acqua». Jackson, invece, ha preferito puntare decisamente – come in altre occasioni – sulla spettacolarizzazione dell’attacco portato dalla mostruosa creatura nei confronti della Compagnia, mostrando fin dal principio la natura dell’Osservatore, molto simile a quella del Kraken delle leggende norrene.
Ad ogni modo, sia il lettore che lo spettatore si convince facilmente che la difficoltà nella quale si sia imbattuta la Compagnia riguarda principalmente la soluzione dell’enigma linguistico: la presenza della frase incisa sulle porte di Moria è spiegata grazie all’azione dei raggi lunari che rendono visibili i caratteri elfici. Si ha dunque l’impressione – fallace, come cercherò di spiegare in seguito – che ogni notte (o, più correttamente, ogni qual volta la luna o le stelle non siano coperte da nubi) questa scritta di benvenuto brilli nell’oscurità e che all’occasionale visitatore non rimanga altro che risolvere il noto enigma.
Verrebbe da chiedersi, se così fosse, come mai Sauron, che pure attaccò Khazad-Dum nel corso della sua prima guerra contro gli Elfi dell’Eregion sul finire del XVII secolo della Seconda Era, non sia riuscito a sciogliere l’enigma, pur disponendo dei poteri dell’Unico e pur essendo uno stregone di grande potenza e intelligenza. Più in generale, non è possibile restare impassibili dinanzi alla constatazione che qualunque nemico avrebbe potuto risolvere quell’enigma, dal momento che richiedeva essenzialmente una sola competenza linguistica (ossia la conoscenza del Quenya, una lingua elfica la cui importanza per gli Elfi potrebbe essere paragonata a quella del latino nella società odierna).
Come mai, dunque, Sauron non era riuscito a penetrare nelle sale di Khazad-Dum per depredarle delle sue notevoli ricchezze?
La risposta risiede in un passaggio che, purtroppo, è stato eliminato sia nell’opera di Bakshi che in quella di Jackson: «Sono d’intarsi d’ithildin, che riflette solo i raggi di luna e di stelle, e dorme sin quando non sente il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo. Io le udii molti anni addietro, e dovetti riflettere profondamente prima di riuscire a rammentarle». Queste sono le parole che Gandalf pronuncia dinanzi alle porte di Moria, rivelando, dunque, come il vero ostacolo per penetrare all’interno della città dei Nani non fosse pronunciare la parola «mellon», quanto apprendere le parole (rimaste sconosciute anche al lettore) che permettevano di leggere, per così dire, «le istruzioni» apposte sulle porte di Khazad-Dum. Questo dettaglio, niente affatto trascurabile, spiegherebbe il segreto dell’invulnerabilità della roccaforte nanica nelle epoche precedenti; neppure Sauron, evidentemente, era riuscito a carpire il segreto delle «parole di comando» che rendevano «sensibili» gli intarsi di ithildin, un metallo la cui formula era noto solo ai Nani e agli Elfi. Allo stesso modo, è interessante notare come Gandalf lasci intendere di essere stato apprezzato ospite, in un passato remoto, dei nani di Moria, al punto da ispirare così grande fiducia da apprendere le parole segrete.
Interrompo momentaneamente la narrazione degli eventi che condussero alla cattura di Minas Ithil da parte delle armate di Sauron per affrontare un tema sul quale sono stato sollecitato, sia pure indirettamente, dal moltiplicarsi, in questi giorni, di una serie di meme e ricordi condivisi da molti utenti su Facebook in merito all’uscita, nel gennaio del 2004 per il mercato cinematografico italiano, dell’ultima parte della trilogia de “Il Signore degli Anelli”, prodotta dalla New Line, con la regia di P. Jackson.
Cosa rimane, sedici anni dopo, del capitolo conclusivo di una saga capace di registrare incassi altissimi e di ottenere, nel complesso, ben 17 statuette degli Oscar, piazzandosi così come la trilogia più premiata (fino ad ora) nella storia del cinema?
Non è semplice dare una risposta che non risenta, inevitabilmente, dei gusti personali di ciascuno, per cui ritengo doveroso avvertire il lettore che questo articolo sarà influenzato da considerazioni a carattere personale. Non me ne vogliate, insomma, se quello che scriverò non dovesse incontrare il vostro favore.
Per scrivere questo articolo, quindi, devo partire da una premessa personale, ma che credo sia ampiamente condivisibile: il rapporto con la trilogia cinematografia risente – almeno a sentire tanti appassionati di Tolkien – da una precisa circostanza, ossia dal ruolo che questa ha avuto nel far conoscere (o meno) allo spettatore il legendarium tolkieniano. Pur senza voler eccessivamente generalizzare, è possibile azzardare una grande suddivisione: da un lato, infatti, ci sono coloro che non avevano mai letto nulla delle opere del professore di Oxford sino a quel momento, ai quali la visione delle pellicole (e non poteva essere diversamente, del resto) ha spalancato le porte di un vero e proprio mondo fantastico e che tendono, dunque, ad apprezzare particolarmente la versione cinematografica del Signore degli Anelli. Dall’altro, invece, ci sono quanti, all’epoca dell’uscita de «La Compagnia dell’Anello» (2002), avevano avuto già modo di conoscere gli scritti di Tolkien e che, in linea di massima (ma anche qui non mancano eccezioni, naturalmente) tendono a sottolineare i limiti dell’impresa di trasposizione cinematografica. Si tratta, spesso, anche di una questione anagrafica: i più anziani, di solito appartengono al secondo gruppo, mentre i più giovani al primo. Esiste poi un gruppo di dimensioni minori che si è avvicinato al Signore degli Anelli grazie alla visione del lungometraggio di animazione di Ralph Bakshi del 1978 (per saperne di più, vi suggerisco di leggere l’esaustiva analisi di Lettrice a questo link: https://wordpress.com/read/blogs/141936457/posts/4473).
Personalmente appartengo a questo gruppo. Non sono così «anziano» da aver avuto la possibilità di vedere l’opera di Bakshi al cinema (anzi, non ero ancora nato nel 1978), ma sono stato «svezzato», per così dire, dalla visione di questo lungometraggio. Non mi dilungherò eccessivamente su questa opera (magari prima o poi, sulla scorta di quanto ha scritto Lettrice, vi dedicherò un articolo anche io), se non per sottolineare un elemento che può apparire forse secondario, ma sul quale, invece, vorrei che i miei lettori potessero riflettere. Se dovessi trovare un aggettivo per definire la sceneggiatura di Bakshi, infatti, al di là delle scelte condivisibili o meno in fatto di resa dei personaggi, direi che un termine molto calzante per caratterizzarla sarebbe quello di «malinconico». Non ci sono momenti particolarmente ilari nella trasposizione di Bakhsi: perfino le parole «Ma io non ce la faccio a correre fino a Isengard!» che pronuncia uno sfinito Gimli, mentre è intento a dare la caccia agli Orchi che hanno catturato Pipino e Merry, possano strappare tutt’al più un sorriso, ma non certo provocare grasse risate. La stessa scena ripresa ne «Le Due Torri» di Jackson, al contrario, sortisce un effetto opposto: si ride di gusto di Gimli che sostiene che «i Nani siano scattisti, pericolosissimi sulle brevi distanze», mentre arranca e sbuffa per tenere il passo dei ben più agili Legolas e Aragorn.
Che «Il Signore degli Anelli» sia un’opera distante anni luce da facili battute e risate, d’altra parte, lo conferma un personaggio del tutto estraneo alle dinamiche tolkieniane e in un contesto del tutto diverso rispetto a quello della Terra della Mezzo. Mi riferisco al romanzo «Matilde», scritto dallo scrittore inglese (ma norvegese di nascita) Roald Dahl, il quale pone in bocca alla bambina protagonista della sua opera queste parole: «Anche i libri di Tolkien non fanno per niente ridere» (p. 75 dell’edizione Salani). Pur non condividendo questa analisi in toto (vedi sotto per quel che concerne lo Hobbit) non si può nascondere che il Signore degli Anelli possa far sorridere in alcune scene – per esempio nella diatriba fra Gollum e Sam intorno alle patate, oppure nel dialogo fra Ioreth e la sua cugina di campagna dopo il ritorno degli eserciti dell’Ovest a Minas Tirith – ma riuscire a far sbellicare di risate il suo lettore, direi proprio di no.
Mi si risponderà: un film (anzi una trilogia) – peraltro di consideravole lunghezza – non può non avere momenti comici. E io sono d’accordo con questa affermazione, ci mancherebbe. Il problema è chiedersi se queste scene, queste battute, possano essere «sovrascritte» nella trasposizione cinematografica di qualunque romanzo, racconto o componimento letterario che si possa immaginare, senza avere lo sgradevole effetto acustico di un gatto che graffi il vetro di uno specchio.
Provare per credere: immaginate Dante che, nel suo viaggio all’Inferno, si fermi a guardare le anime dei trapassati per esclamare: «Questo vale comunque uno!» (Gimli dixit).
Allo scopo di essere più chiaro nella mia analisi prenderò a esempio una scena molto bella che è visibile (o leggibile) sia nel romanzo che nelle due trasposizioni cinematografiche (quella di Bakshi e quella di Jackson, per intendersi). La scena in questione riguarda la tentazione nella quale cade Bilbo dopo aver rivisto, a distanza di anni, l’Unico Anello nelle mani di suo cugino Frodo.
Ecco come è descritta nel Signore degli Anelli: «Bilbo tese la mano; immediatamente Frodo ritrasse l’Anello. Con angoscia e sommo stupore si accorse che non stava più vedendo Bilbo; un’ombra sembrava essere scesa tra di loro, ed egli scorgeva dall’altro lato un piccolo essere avvizzito dal viso avido e dalle ossute mani ingorde. Sentì il desiderio di colpirlo. La musica e i canti intorno a loro parvero svanire, e vi fu un profondo silenzio. Bilbo lanciò un rapido sguardo a Frodo e poi si passò la mano sugli occhi. «Ora capisco», disse. «Mettilo via! Mi dispiace: mi dispiace che tocchi a te sopportare questo peso, mi dispiace tanto. Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia. Ebbene, non vi è altro da fare. Chissà se vale la pena cercare di terminare il mio libro…ma per il momento non pensiamoci, voglio sentire delle vere notizie! Parlami della Contea!» Frodo nascose l’Anello, e l’ombra scomparve lasciando soltanto un vago ricordo. La luce e la musica di Gran Burrone lo circondavano nuovamente».
Nella pellicola de «La Compagnia dell’Anello», invece, la scena non avviene all’interno del banchetto offerto da Elrond per la vittoria al guado del Bruinen; al contrario, è stata spostata in un momento successivo, poca prima che la Compagnia si metta in viaggio verso Mordor. Nulla di male in questa «posticipazione», per carità, tuttavia cerchiamo di capire come procedono le cose nella pellicola di Jackson: Frodo, dopo aver ricevuto Pungolo e la cotta di maglia di mithril dall’anziano parente, indossa quest’ultima su suggerimento di Bilbo, lasciando intravedere, per un attimo, l’Anello al suo collo. Di fronte alla richiesta di Bilbo di tenerlo in mano per un’ultima volta, Frodo si richiude la camicia (plausibilmente per non indurlo maggiormente in tentazione) e Bilbo per un secondo si trasforma in una creatura non molto dissimile da Gollum, salvo poi pentirsi immediatamente del suo gesto. A quel punto, dopo essersi scusato per quello che è avvenuto e per il peso dell’Anello che ha lasciato a Frodo (in modo abbastanza simile rispetto a quanto avviene nel libro), scoppia in lacrime, consolato da Frodo che gli pone affettuosamente una mano sulla spalla. La terza «versione», se così si può definire, è quella di Bakshi: in questo caso l’incidente fra i due Hobbit avviene, come nel romanzo, alla festa tenuta in onore di Frodo, e si mantiene abbastanza fedele al romanzo, salvo per la conclusione; in questo caso, infatti, Bilbo scoppia a piangere (come sopra), ma non riceve nessun conforto da Frodo. Anzi, a interrompere il suo pianto è Gandalf che richiama – in modo forse un po’ brusco – i due Hobbit a prendere parte al Consiglio di Elrond.
Come si può vedere, si tratta di tre scene simili ma diverse allo stesso tempo: la vera questione, tuttavia, non è rappresentata da quale sia quella più fedele al romanzo, ma, invece, quale sia quella che ne interpreta meglio lo spirito. Possono sembrare due concetti analoghi, ma non lo sono affatto. Il senso profondo di questa scena, secondo me, è il seguente: Frodo non può mostrarsi troppo accondiscendente verso Bilbo, non perché non gli voglia bene – tutt’altro – ma perché, qualche istante prima, questi aveva tentato di sottrargli l’Unico. Nella casa di Elrond la possessione esercitata dall’Anello nei confronti del suo Portatore non era ancora giunta a quei livelli percepibili al termine del lungo viaggio che avrebbe condotto Frodo a Mordor, tuttavia, è senza dubbio molto forte; lo era già, del resto, quando Frodo si dimostrò riluttante a lanciare l’Anello nel fuoco di Casa Baggins per poter leggere l’iscrizione incisa sulla sua superficie. Può essere dispiaciuto, certo, ma non può perdonare Bilbo di aver provato a toglierli l’Anello. Questa scena, quasi mai trattata negli articoli degli appassionati del mondo tolkieniano, è secondo me invece importante per comprendere gli effetti dell’Unico sugli esseri viventi. Tornando alla questione iniziale, quale scenografia riprende meglio lo spirito del romanzo? Opto per quella di Bakshi, perché pur avendo inserito la figura di Gandalf al termine dell’alterco fra i due Hobbit (assente nel libro in quel frangente) si dimostra, tuttavia, valida nel richiamare alla realtà Bilbo, quasi scuotendolo dai suoi rimorsi per esortarlo, forse anche con una certa durezza, a riprendere il possesso della propria coscienza per combattere il potere dell’Unico.
Da questo primo passaggio, capirete bene perché apprezzi più la trasposizione cinematografica de «Lo Hobbit» all’interno del quale, invece, i momenti comici non mancano: basti pensare a Dori e Nori che si accapigliano intorno al fuoco, oppure alle battute divertenti che si lanciano Bilbo e Dori quando questi è costretto a prendere lo Hobbit sulle sue spalle nelle caverne dei goblin, o ancora alla descrizione che Tolkien dedica ai nani e a Gandalf appesi sui rami del pino delle Montagne Nebbiose, da lui paragonata a una scena natalizia…per tacere, poi, degli Elfi di Rivendell, che sono molto più ilari di quanto non appaiano nel Signore degli Anelli. E potrei continuare a lungo. La scelta di Jackson di calcare in qualche scena questo lato «comico» (i Nani che si lanciano il cibo addosso, mentre sono ospiti di Elrond, per esempio) può essere certamente criticabile (alla fine anche le scene divertenti devono essere dosate con sapienza, a meno che non si tratti di un Cinepanettone, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), ma ciò non toglie che, personalmente, trovi queste scene in grado di rispecchiare più fedelmente lo spirito dell’Hobbit. Gli stessi Nani della Compagnia di Thorin, per esempio, per quanto possano apparire eccentrici (basti pensare a Bifur con l’ascia impiantata nel cranio) in fondo sono rappresentazioni visive di personaggi che, nel romanzo di Tolkien, hanno barbe di colori diversi, anche molto accesi (un dettaglio, quest’ultimo, che si perde del tutto nel Signore degli Anelli). Forse Tolkien desiderava ottenere un effetto comico con quelle barbe colorate? Non lo sapremo mai con certezza, però non si può nascondere che contribuiscano a rendere i Nani molto più comici rispetto a Gimli, uno dei personaggi più malinconici e forse sottovalutati del Signore degli Anelli (basti pensare al dialogo struggente fra lui e Legolas intorno alle sorti degli Uomini per capire come si tratti di un personaggio totalmente diverso da quello rappresentato nella trilogia cinematografica, impegnato in gare di rutti e in battute «facili» come quella sopra riportata).
E veniamo ora a un altro punto ampiamente controverso e criticabile dei film di Jackson: l’Amore. Prima ancora che qualcuno possa solo pensare che io sia ostile alla presenza di relazioni amorose nella Terra di Mezzo, lo invito a leggere (o a rileggersi) la storia fra Erfea e Miriel per dissipare qualunque dubbio: le vicende sentimentali, se ben strutturate, rappresentano una delle colonne portanti della letteratura di ogni tempo, anche di quella fantastica o epica che dir si voglia. Gli esempi sono pressoché infiniti, dal triangolo amoroso Artù-Ginevra-Lancillotto agli struggimenti di Didone per Enea, agli amori extraconiugali di Zeus…e davvero, si potrebbe continuare per pagine e pagine.
Ciò non toglie, tuttavia, che anche questo tema debba essere calibrato per bene rispetto alle vicende interne di un’opera letteraria. Nel romanzo del Signore degli Anelli, per esempio, appare una sola storia d’amore classicamente intesa, vale a dire quella in cui due personaggi si conoscono, si piacciono e magari convolano a giuste nozze e non è certo quella di Aragorn e Arwen attorno alla quale, invece, ruota buona parte di un’importante sottotrama della trilogia cinematografica. Mi riferisco, invece, alla storia fra Eowyn e Faramir, alla quale, forse, si sarebbe potuto attribuire un maggior spazio, ma tant’è.
Anticipo già una buona dose di critica a questa mia osservazione con la seguente auto-accusa: «Eh, ma Tolkien dedicò grande attenzione alla coppia Aragorn-Arwen nelle Appendici del Signore degli Anelli!»
Vero, eppure questa affermazione non fa altro che aprire una questione a mio parere ancora più importante rispetto al modo in cui è stata affrontata la storia d’amore fra i due e riguarda il carattere di entrambi i personaggi. Arwen non è una guerriera, né – cosa forse ancora più importante – deve impegnare particolarmente Aragorn ad accettare la sua scelta di diventare mortale: ricordiamo, infatti, che se fisicamente poteva essere scambiata per un giovane elfa, a un osservatore attento come Frodo non sfuggiva la sua reale età: Giovane era, eppur non tanto. La chioma corvina non era sfiorata dalla brina, le braccia bianche ed il viso limpido erano lisci e vellutati, e miriadi di stelle risplendevano negli occhi grigi come crepuscolo luminoso; ma il portamento era regale e lo sguardo rivelava riflessione e saggezza, apprese attraverso anni di esperienza.
Da questa descrizione appare chiaro che difficilmente, nel momento in cui si svolge la vicenda della guerra contro Sauron, Arwen avrebbe potuto lasciarsi a un rapporto complicato sia con Aragorn che con suo padre: se scontri c’erano stati con Elrond in merito alla sua scelta di diventare mortale (e nel testo non ne troviamo traccia, possono essere solamente ipotizzati), dovevano risalire a molti anni addietro e certamente non sembrano aver intaccato la relazione fra i due innamorati. Dama Arwen, inoltre, non è assolutamente la guerriera impavida che sottrae Frodo alla caccia dei Nove e che addirittura si permette di rinfacciare ad Aragorn di essere più veloce nel cavalcare. Non perché le elfe non potessero gareggiare con i rappresentanti dell’altro sesso, al contrario: nel Silmarillion, per esempio, Tolkien scrisse che Galadriel era così forte ed agile da superare in competizioni sportive molti degli elfi Noldor. Sfortunatamente per la bella figlia di Elrond e Celebrian, tuttavia, l’autore non sembrava pensarla come gli sceneggiatori del film: quando il potere di Sauron sembra ormai rendere i viaggi rischiosi, Elrond la fa richiamare da Lorien, ove era solita recarsi per visitare i suoi nonni materni, perché le strade erano divenute pericolose. Una frase scarna, contenuta peraltro nell’appendice degli Annali della Terra di Mezzo ma sufficiente, secondo me, per far sgretolare l’immagine di Arwen che sfida addirittura il Re Stregone a farsi avanti per strapparle dal grembo un Frodo ormai morente…
Tornando alla storia d’amore fra il Ramingo e la mezzelfa, inoltre, non deve sfuggirci un punto importante: per quanto Aragorn amasse teneramente Arwen e potesse essere spinto nella sua missione di contrastare Sauron anche per effetto della promessa fatta al suo patrigno – nonché padre della sua amata – che l’avrebbe presa in sposa solo se fosse divenuto re di Arnor e Gondor, implicando questo risultato la sconfitta di Sauron, non c’è dubbio che Aragorn avesse ben chiaro che nella guerra contro l’Oscuro Signore c’era in ballo «il destino di tutta la Terra di Mezzo», tanto per usare una frase fatta. Non avrebbe mai smesso i panni del Ramingo per assumere quelli dell’erede di Isildur solo per amore di Arwen: da persona saggia e avveduta com’era, credo che avrebbe messo il massimo impegno in questa lotta anche se non fosse stato fidanzato con la mezzelfa. Inoltre Aragorn non vide mai una contrapposizione fra l’essere ramingo e l’erede di Isildur: raminghi erano semplicemente quegli eredi del popolo di Arnor che erano sopravvissuti alla sua caduta nell’anno 1974 della Terza Era e si erano dati a un’esistenza errabonda, perché troppo pochi per riportare il loro reame all’antico splendore. Tanto è vero che i discendenti di Arvedui, l’ultimo re di Arnor, presero il titolo dei Capitani del Nord, proprio a sottolineare, da un lato, il loro basso profilo assunto dopo la fine del Regno, e dall’altra la volontà di non spezzare un lignaggio che non aveva pari tra quelli umani nella Terra di Mezzo, in attesa che giungessero tempi migliori.
Personalmente trovo che l’amore tra i due, così come appare nelle pagine del Signore degli Anelli, sia struggente e romantico allo stesso tempo: Aragorn, pur nel vortice di eventi che accadono attorno a lui, non manca di prendersi un attimo per ricordarla, come avviene nel suo ingresso a Lorien (una scena che, confesso, avrei voluto tanto vedere anche nella pellicola cinematografica). È un amore profondo, che riesce a sopravvivere a tutto quello che accade intorno a loro, ma che trova poche attinenze con quello raccontato nei film; soprattutto, non riesco a capire perché Sauron dovesse mettere a rischio la vita di Arwen, suvvia! L’Oscuro Signore non sapeva neppure chi fosse l’erede di Isildur e quando lo scoprì era troppo tardi per pensare a eventuali rappresaglie «emotive».
Un film può preservare lo stesso spirito del romanzo anche – paradossalmente – con una sceneggiatura che, a prima vista, potrebbe non collegarsi in alcun modo alle pagine dell’opera in questione. Per rifarmi a un esempio concreto, prenderò in esame l’Anabasi, un’opera scritta nel IV secolo a.C. dallo storico ateniese Senofonte. Questi, nelle sue pagine, narrò le vicende dell’armata di 10.000 mercenari greci che, postisi al servizio del principio persiano Ciro il Giovane per usurpare il trono al fratello Artaserse, furono abbandonati a sé stessi dopo la morte del loro mecenate e l’eliminazione – a tradimento – della maggior parte dei loro comandanti. Attraverso un difficile viaggio in terre inesplorate e ostili, i superstiti di quell’armata riuscirono infine a raggiungere il Mar Nero. Questo romanzo è stato ripreso nell’opera letteraria «I Guerrieri della Notte» (1965), scritto da Sol Yurick, e poi nell’omonimo film del 1979. Ebbene, in questa pellicola, i membri di una gang di New York, ripercorrono le stesse gesta degli antichi greci pur in un contesto che non azzarderei a definire del tutto slegato al mondo classico antico: eppure, nonostante le ovvie diversità, il film mantiene intatto lo spirito non solo del romanzo cui si ispira, ma anche quello della sua fonte più antica, l’Anabasi di Senofonte.
La trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, invece, è andata oltre la trama stessa del libro, quasi riscrivendola per la prima volta: anzi, si può dire che sia stato proprio il grande successo di questi film a decretare una sorta di contrapposizione fra la resa cinematografica e l’originale letterario. Non è infrequente, infatti, imbattersi in rete in fan della saga di Jackson pronti a giurare che ogni azione, ogni scena e perfino ogni battuta del film corrispondano a quelle descritte nel libro. Alcune settimane fa ho cercato inutilmente di far comprendere a uno di questi fan che Tolkien non ha mai disegnato nessun Balrog, né tantomeno ha edito una versione illustrata del Signore degli Anelli e che doveva aver ritenuto che le immagini di John Howe fossero state disegnate da Tolkien stesso. Credetemi, non c’è stato verso di fargli cambiare idea: per lui, il Balrog del film doveva per forza essere stato disegnato da Tolkien stesso non per un semplice e banale errore di attribuzione – che avrei compreso perfettamente – quanto per la convinzione che fosse così ben riuscito da non aver mai potuto, lo scrittore inglese, immaginare un altro tipo di Demone. Al termine di un’estenuante quanto inutile discussione, mi sono ricordato di un episodio che mi aveva colpito molti anni fa e che riguardava la ricezione, negli Stati Uniti, del film «Troy» (2004, quindi coetaneo al «Ritorno del Re» di Jackson); ebbene, per aiutare la vendita di un’opera quale l’Iliade che, diciamolo pure, non è mai stata considerata un best-seller (non solo negli Stati Uniti, ma anche nella cara vecchia Europa) un editore statunitense aveva pensato bene di ricorrere a uno stratagemma che doveva aver certamente considerato molto ingegnoso. Sulla copertina della versione americana dell’opera omerica, infatti, aveva inserito questo logo: «Il libro tratto dal kolossal Troy». A quel punto il povero Omero si doveva essere disintegrato nella sua tomba (ovunque egli riposi). Intendiamoci: a me il film Troy è piaciuto e pure molto, ma lo ritengo una liberissima resa del capolavoro epico greco e, soprattutto, al di là dei gusti personali, non penserei mai di rileggere le vicende di Achei e Troiani basandomi sugli eventi trattati nel film!
Concludo questa lunga dissertazione esprimendo il mio giudizio finale su questa trilogia cinematografica: l’opera di P. Jackson, acclamata da critica e pubblico (anche se Cristopher Tolkien, figlio dello scrittore inglese e recentemente scomparso, non la pensava così e questo dovrebbe far riflettere, dal momento che chi meglio di lui poteva giudicare le rese cinematografiche del romanzo paterno, considerato l’impegno profuso nel valorizzare le opere di cotanto genitore?) ha finito col creare – difficile dire se l’abbia fatto esplicitamente o meno – un «Signore degli Anelli» alternativo all’opera prima. Si è trattato, come accennato nel titolo di questo articolo, di un fenomeno culturale che ha finito coll’influenzare profondamente l’opinione pubblica: qualche mese fa, discutendo con Angelo Montanini (uno dei più grandi artisti italiani che si siano cimentati con l’opera tolkeniana, autore, fra l’altro, di due illustrazioni di Erfea e Miriel che potrete vedere qui: Ritratti) abbiamo entrambi constatato come l’apparato iconografico e simbolico post-2004 sia stato irremediabilmente egemonizzato dalla trilogia di Jackson: ormai Aragorn, tanto per fare un esempio, non può che avere le fattezze di Viggo Mortensen, Legolas non può che ricordare Orlando Bloom e così via. Si badi bene; non ho nulla contro l’interpretazione fornita da questi due bravissimi attori, ma è avvilente constatare che non ci sia più spazio per illustrazioni diverse. Negli anni Ottanta e Novanta, invece, le rappresentazioni di personaggi, luoghi ed eventi ispirati al legendarium tolkieniano erano diversissime fra loro, permettendo all’osservatore – cosa non trascurabile – di avere una vasta platea di soggetti fra i quali scegliere «la propria» rappresentazione di questo o quel personaggio tolkieniano. La potenza evocativa dei film, purtroppo, ha creato una situazione di assoluto monopolio alla quale, solo recentemente, si sta iniziando a porre rimedio, anche grazie a una nuova generazione di illustratori meno influenzati dall’immaginario scaturito dalla trilogia cinematografica di Jackson.
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